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19 gennaio 2023

QUANDO GLASS E REGGIO PARLAVANO DI AMBIENTE ATTRAVERSO L'ARTE

Uno dei trucchi che uso per riportare i nostri gattoni in un ambiente sicuro è agitare una striscia di velluto, intonando l’incipit di “Koyaanisqatsi”, la straordinaria colonna sonora di Philip Glass del film omonimo: i due mi vengono incontro festosi, sicuri di poter ghermire quella povera striscetta. Non mi chiedete quale sia il nesso, ma l’espediente funziona ed è diventato un appuntamento fisso.

Certo è che dietro quella musica e quelle immagini si intravede una generazione che ancora sapeva affermare le proprie idee con l’arte, anziché brutalizzare l’arte per esprimere le proprie idee.

L’opera in sé è un film sperimentale (il primo del genere, che in fondo copiamo tutti ancora oggi), il cui regista Godfrey Reggio cercò di rappresentare il modernismo, la società occidentale e la crisi climatica con filmati che parlano da soli, senza commento alcuno: riprese straordinarie, sincronizzate amabilmente con le note (o sulle note) di Glass, in cui l’afflato ecologista, l’empatia ambientalista, il monito costruttivo e argomentato, funzionano perfettamente, senza retorica e senza ipocrisie.

Era il 1982: quando uscì nelle sale, il film ebbe un successo inaspettato, che andò oltre la nicchia dei nerd dell’epoca, tanto che quando nascerà Videomusic qualche anno dopo, ne proporrà alcuni passaggi in ogni possibile fascia oraria, forse perché il pubblico televisivo era più accogliente, forse perché i linguaggi e le piattaforme di allora erano limitatissimi - e ogni novità doveva avere in sé anche una professionale credibilità, che sapesse stimolare, incuriosire, arricchire.

Quella formula immagini+musica funzionò a tal punto che il duo Reggio/Glass propose due seguiti (nel 1988 e nel 2002), trasformando l’operazione in una trilogia (con una sorta di corollario - 1991, sponsorizzato dal WWF).

12 luglio 2015

la Creazione di Keith Jarrett

Iniziate dal quinto brano. No, non è Glass... è semplicemente che gli stavano sfuggendo il medio e l'anulare, non sapeva dove metterli. Un po' come quando hai iniziato un discorso dentro te stesso, e nessuno ti sta ancora udendo. Le tue parole sono solo dentro la tua testa. E poi inizi a parlare solo quando il discorso è già a metà.
Ecco, il quinto brano di Creation sembra muoversi così.
Del resto, spesso Jarrett sembra donare all'ascoltatore la parte finale di un discorso più ampio, che ha tenuto dentro di sé quasi controvoglia, e altrettanto controvoglia ha deciso di concluderne solo una minima parte ad alta voce.
Creation celebra i 70 anni di un Jarrett quasi in sordina, quasi fossero più intriganti le pause tra un brano e l'altro. 
Eppure, è un grande disco.
Cercare di paragonarlo alla "pietra angolare" di Colonia è quasi fastidioso. Magari è più vicino a Radiation, anche se meno organico, o a Rio, anche se è meno strutturato.
Però Creation è un capolavoro. E dovete cominciarlo dal brano numero V.
Poi vi fermate. Spegnete lo stereo. E incominciate l'ascolto completo solo da domani, meglio dopodomani.

25 novembre 2010

forbidden colours

Quarant'anni fa si suicidava Yukio Mishima (Tokyo, 14 gennaio 1925 - 25 novembre 1970), uno dei più grandi scrittori di tutti tempi.
Nella mia vita esistono pochi momenti "prima/dopo"; sicuramente prima di leggere Mishima il mio rapporto con la vita era misero, rispetto al dopo aver letto i suoi capolavori.
Se non lo conoscete, vi consiglio di iniziare questo viaggio senza ritorno.

18 ottobre 2010

survival of the dead,
l'occasione mancata

Come disse una volta il mio padre spirituale Werner Herzog (cito a memoria), i film dell'orrore sono il cinema migliore, perché portano con loro spontanee potenzialità espressive, avvolti come sono nel mondo dell'immaginazione e dell'onirico.
Uno dei più grandi sperimentatori del genere è sempre stato George A. Romero, che, mantenendo costante il parametro dell'invasione dei morti viventi (come accade con la musica di Philip Glass), ha costruito storie che a volte leggevano il presente, ma spesso presagivano l'amaro futuro. Se l'Italia fosse un paese meno bigotto e chiuso, i suoi film sarebbero proiettati nelle scuole e nelle università specializzate.
Certo è che mentre il suo recente Diary Of The Dead mi aveva folgorato, questo Survival Of The Dead si è perso qualcosa per strada, e in maniera anche sciatta, quasi distratta. Come se Romero abbia scientemente voluto inciampare su uno script  che invece in nuce era veramente interessante.
Gli elementi per costruire qualcosa di epico ci sono tutti: il conflitto generazionale tra padre e figlia, il confronto intergenerazionale tra due sorelle gemelle, lo scontro tra due grandi famiglie patriarcali, la vittoria - amarissima - della mentalità militare a discapito di quella "civile", il colpo di scena finale (che quasi passa inosservato).
Partito benissimo, il film - quasi uno spin off del precedente - si perde subito per strada puntando alla rinfusa sulla reiterazione delle classiche costanti del regista.
In più, se in generale, una volta accettato il principio di partenza, le sceneggiature di Romero si autoponevano delle regole da rispettare (per quanto assurde, sempre regole erano), qui ci sta una serie di errori inutili che disorienta anche lo spettatore più distratto.
Che dire? Da tempo si vocifera di una sorta di capitolo finale in cui alcuni astronauti dentro uno shuttle sono gli ultimi "normali" rimasti, mentre sulla Terra hanno ormai vinto gli zombi. Un'idea che potrebbe risultare vincente se accompagnata da un testo forte e innovativo. Speriamo bene...

29 gennaio 2010

a single man

Che Tom Ford sia un figo pazzesco è fuori discussione (come forse direbbe la Soncini). Che sia un uomo baciato dalla fortuna è addirittura riduttivo. Che poi sia anche intelligente e bravo fa quasi morire d'invidia. Eppure le cose stanno così. Punto e basta.
Sono andato a vedere il suo unico/ultimo film A Single Man, e ne sono uscito con due sentimenti letteralmente opposti. Giriamoci un po' intorno, e poi li vedrete sbocciare all'improvviso.
La storia è abbastanza ovvia, e catturata dall'omonimo romanzo che Christopher Isherwood dedicò a Gore Vidal. Devo ammettere che non l'ho letto, ma ho apprezzato altri suoi testi: non ho alcuna difficoltà a dire che ogni tanto Ford riesce a restituire il sapore, lo stile, certe cose impalpabili di Isherwood che proprio perché tali non saprei spiegare meglio se non con frasi sospese e senza senso.
Chi si aspettava una sfilata di moda resterà in parte deluso, ma non perché non ci sia, anzi; semplicemente Ford non ammicca più di tanto. Tutto il film è un continuo rispettare ed esaltare l'estetica, l'eleganza, il saper indossare la vita senza arroganza alcuna.
Certo, Colin Firth è un po' imbolsito, ma riesce benissimo nel personaggio, anche se la sua omosessualità è di maniera; non sentita quindi, ma recitata. Molto più interessante l'insospettabile stile di Matthew Goode (il fidanzato, per intenderci), che lavora molto sul quasi detto, sull'imprecisione, sulla misura.
Voglio dire che generalmente il paradosso di un film è che concentra molto/troppo l'attenzione su tutto. È inevitabile quindi "aspettarsi" qualcosa di preciso quando si presume di conoscere un argomento invece composito come l'omosessualità. E quindi se un attore "scheccheggia" troppo, alla fine fa ridere e diventa stucchevole. I due attori, invece, hanno evitato questo "rischio" antipoetico, e con due strade diverse hanno reso comunque credibili i rispettivi personaggi.
L'ambientazione storica e gli impercettibili cambi di colore e viraggio - a seconda dei contesti narrativi - sono i due aspetti eccellenti dell'operazione (oltre che, permetettemelo, le scarpe, i vestiti e l'incredibile accappatoio che il protagonista indossa durante la sequenza finale).La musica, invece, ammicca troppo a Nyman e Glass.
Il vero problema del film è il ritmo, troppo incoerente e privo di un disegno generale. Sembra più che Ford non abbia girato per 24 frame al secondo, ma per 25. Come se in alcuni momenti avesse titubato nel taglio, lasciandosi andare all'autocompiacimento per cose che poi alla fine erano secondarie.
E mi sfugge come non si sia accorto delle proporzioni di alcune inquadrature: campo con viso a destra, controcampo con viso a sinistra, campo con viso a... sinistra! Roba da pivelli, insomma. Per tacere della sequenza in cui Firth e la semprebbrava Julianne Moore stanno seduti sul divano. La domanda sorge spontanea: quante braccia ha Colin Firth?
Battute a parte, è un film manierato che può essere visto, se non altro per il piacere di gustare la prima ottima mezzora e per godersi poi un po' di sana estetica buttata là con malcelata distrazione.
Unica nota per i nostri omofobici: il film si svolge nel 1962. Ad un certo punto a Colin Firth viene proibita una cosa essenziale, di quelle che non si vietano neanche al proprio nemico. E questo solo perché i due sono gay. Certe cose le possono pensare solo le bestie, ma neanche loro...

30 giugno 2009

è morta Pina Bausch

Non ho mai amato né la danza né tantomeno il teatro (che ho studiato e visto per tre lustri).
Almeno fino a quando non venni a sapere che la Bausch avrebbe interpretato a suo modo John Cage e Philip Glass.
Mi fiondai a prenotare i migliori posti disponibili: la mia passione per questi due grandi musicisti avrebbe superato tutte le mie resistenze.
E fu così che capii quanto avessi perso fino ad allora: la Bausch cambiò ogni prospettiva, riuscì a cavalcare i silenzi e a rispettare le note come se non ci fosse nessuno sul palco.
Una sfera di pura arte si impossessò di tutto il teatro. E quando la magia finì, fu veramente difficile alzarsi da quel privilegiato trono a forma di polverosa poltrona.
Dopo quell'esperienza sono spesso ritornato a teatro, ma mai sono riuscito a ritrovare quelle sensazioni.
So long, Pina, so long.