Tra i miei "peccati" musicali figurano anche i Dream Theater: adoro quel loro modo così crasso di dimostrarsi superiori al genere umano, con tecniche strabilianti e geometricamente ineccepibili, a volte fredde, spesso calcolate, ma dagli effetti decisamente stupefacenti.
Certo, non amo la voce patinata di La Brie, con quell'urgenza adolescenziale di terminare la frase prima che finisca il fiato; a pari livello, preferisco la "voce con la patta" di Robert Plant, che invece sapeva di fate e di grotte e di afrore pagano.
Però ho tutti i loro cd, che conservo e ascolto ciclicamente almeno una volta l'anno.
Ebbene, questo loro ultimo lavoro è forse la cosa migliore che abbiano mai fatto; ve lo dice uno che preferisce masticare altri generi. THE ASTONISHING, insomma, dovrebbe essere ascoltato anche da chi non ama il metal progressive o comunque mal digerisce le raffiche di note quasi-gratuite-ma-spettacolari.
È un concept album che 20 anni fa avremmo definito quadruplo LP, ma che oggi possiamo limitarci a misurarlo come doppio CD.
La storia è molto banana e prevedibile (la trovate riassunta qui); ma è il modo con cui viene narrata che trovo credibile.
Innanzitutto, non soffre della sindrome da quarto lato (tipo The Wall, che alla fine la fa troppo per le lunghe).
Poi, non ha punti mediocri usati come mero passaggio per altri punti più eccellenti: la struttura è convincente dall'inizio alla fine, ed è godibile e credibile sotto ogni punto di vista.
Quindi, vede tutti i musicisti lavorare insieme per l'"idea": sì, ci sono terrificanti momenti solistici, ma sono coerenti e ben incastonati; non la solita accozzaglia di tecnicismi buttati là.
Infine, si sente che Jordan Rudess ha contribuito all'insieme in maniera quasi determinante: le partiture, cioè, sono tutte ben orchestrate e complete; Petrucci, si sa, tendeva sempre a esagerare pur di mettere in risalto la sua mitragliatrice a forma di chitarra.
È vero, non mancano momenti "simili" ad altri complessi/specialisti: ci sono molte cose in stile Yes, Queen, Jethro Tull, persino Cat Stevens, Pink Floyd e alla Satriani... e anche un chiaro omaggio a Jesus Christ Superstar (e a 007, se vogliamo).
E poi, a volte trovo fastidioso il missaggio del drumming pustoloso di Mangini.
Però è un signor lavoro.
E a voi che non amate il genere, soprattutto a voi, ne consiglio caldamente l'acquisto.
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01 marzo 2016
09 aprile 2015
Hand. Cannot. Erase. - Steven Wilson azzecca tutto
È chiaramente debitore dei generi che ama. Ma è riuscito nella rara impresa di sapersi muovere dentro queste influenze, senza rinnegarle, senza negarle, camminandoci accanto, spesso insieme, per poi donarci opere, idee e canzoni, a volte innovative, comunque molto belle, spesso coraggiose perché controcorrente (ma senza la spocchia del fighetto).
Gli riconosco almeno tre grandi pregi, il primo frutto di rara intelligenza: Wilson diversifica intenzionalmente le proprie attitudini musicali, in maniera radicale e riconoscibile (suoi sono i Porcupine Tree, suoi sono i No-Man), dimodoché ogni combo abbia identità e dignità assolute. Del resto, c'è uno specifico e netto file rouge in ognuno dei suoi progetti che li rende ognuno diverso dall'altro.
Il secondo pregio è la tecnica: sa usare le tastiere (ma senza strafare), sa suonare molto bene la chitarra (ma con inusitata misura), sa arrangiare i propri brani con scelte spesso coraggiose.
Il terzo pregio: la voce. La voce di Steven Wilson è un dono di rara purezza.
Devo confessare che alcune sue ultime cose con i Porcupine non mi sono piaciute più di tanto (io adoro Stupid Dream e Lightbulb Sun, per dire), e trovo che alcune sue strutture compositive siano diventate troppo prevedibili, come se avesse scelto di dire la sua solo in quattro/cinque modi, e basta.
Poi, però, appena ho ascoltato questo suo ultimo Hand. Cannot. Erase. sono rimasto folgorato. Un concept album struggente, dolente, dolcissimo e ricco di languore, che ti prende il cuore e la mente e non te li lascia più. Un salto in avanti che mi ha lasciato di stucco.
Il pretesto di partenza è purtroppo reale: racconta di Joyce Vincent, una ragazza con una sua storia, una dignità, aspettative e desideri come tutti noi, che sparì da un giorno all'altro senza dare più notizia di sé, ma soprattutto senza che nessuno - tra amici e parenti - provò a cercarla, contattarla, anche e solo telefonarle... la trovarono nel 2006, morta nel suo appartamento. Peccato che il decesso fosse avvenuto tre anni prima.
Stiamo parlando di una 38enne. Stiamo parlando di una città come Londra!
Wilson ha deciso quindi di raccontare alcuni momenti della vita di Joyce dalla sua ipotetica prospettiva. Insomma, il nostro compositore riesce a raccontare al femminile sentimenti forti e struggenti, uscendo dalla banalità dell'aneddoto per affrontare anche le petulanti costanti della società contemporanea, senza sparare le solite sciocchezze qualunquiste e salottiere, ma con testi decisamente belli e di rara profondità (cliccate qui per godere di una sommaria ma affettuosa traduzione).
Addirittura ha costruito un blog intorno al personaggio (qui in originale, qui tradotto) che vi consiglio di leggere con attenzione.
Per gli appassionati ed esperti, i musicisti che l'accompagnano nel progetto hanno tutti pedigree di indiscutibile qualità (e secondo me hanno pesato moltissimo sulla freschezza innovativa di questo lavoro): tra tutti spicca Adam Holzman, che ha lavorato giusto giusto con Miles Davis.
L'intervista che trovate qui sotto chiarisce molte cose di questo concept (attenzione a come spiega l'origine del titolo), e presenta anche un uomo intellettualmente stimolante, arguto, ancora entusiasta, umile e curioso.
Verso la fine, Steven Wilson spiega il suo sentirsi lontano dal rock progressivo cui spesso la sua musica viene accostata. E in effetti egli ha sempre dimostrato di conoscere e di apprezzare molto altro, non per forza cosi "vecchio" (certo, è anche l'ingegnere che sta ripulendo tutta la discografia dei King Crimson...).
Ebbene, non me ne vorrà se ho fatto le pulci al secondo brano di questo cd - smaccatamente datato (ma anche l'unico che contraddice i suoi distinguo). È un gioco, ovviamente; irriverente quanto affettuoso. Se vi va, prendete il vostro cd e sparatevi 3 years older insieme alla mia guida.
3 years older, un'analisi saccente e irriverente
- fino a 00:26 siamo di fronte a Watcher of the Skies dei Genesis con un timido riferimento a Livemiles dei Tangerine Dream
- fino a 00:39 c'è Pete Townshend degli Who di Tommy che incontra i Rush
- fino a 00:54 Cinema Show chiama, Steven Wilson risponde
- fino a 01:00 Genesis e Rush danzano con i Dream Theater
- fino a 01:28 i Genesis di Cinema Show incontrano gli Yes di Survival
- fino a 01:50 Yes purissimo, con il bassismo dello stesso Wilson che ricorda Chris Squire, ma più grunge
- fino a 02:25 i Led Zeppelin e Steve Howe si sono fusi al centro di Londra
- poi, per pochissimi secondi, con la mente canticchiamo Home, home again... I like to be here when I can che però si fonde - di nuovo! - con Survival degli Yes e con gli stessi Pink Floyd (ma di Obscured by clouds, questa volta)
- da 02:51 comincia il cantato, dove i Beatles incontreranno costantemente Crosby, Stills e Nash (ed è da sturbo, ammettiamolo)
- a 03:35 il tema b è una variazione sul tema a che vi fa venire voglia di rispondergli con quel classico controtempo blueseggiante di Hey Joe (provateci, ci sta tutto)
- e quando entrano le tastiere (un mellotron decisamente azzeccato), torniamo nei binari wilsoniani cui fa da splendido contrappunto una slide guitar (04:14, circa) che porta con sé mille storie di sempre
- poco prima del ritornellone sparatissimo, se ci fate caso si intrasente una seconda chitarra dal suono cristallino (04:38) che ricorda certe cose di Phil Miller degli Hatfield and the North
- a 04:50 parte il tipico "ritornellone wilsoniano senza parole" che spari a palla dentro l'auto in mezzo al traffico, che però a me ricorda moltissimo No Opportunity Necessary, No Experience Needed nella versione degli Yes, ma soprattutto The Song Remains the Same dei Led Zeppelin (i più pignoli ci troveranno anche qualcosa di Musical Box dei Genesis)
- a 05:17 parte un momento pianistico alla Jordan Rudess di Six Degrees of Inner Turbulence
- dopodiché, troviamo gli stessi topos illustrati finora
- a 06:50 scomodiamo i Genesis di Trick of the Tail (ma anche gli Opeth)
- ma da 07:26 parte l'imprevedibile citazione delle citazioni: Van Der Graaf Generator (Pawn Hearts, per la precisione) che poi sbarellano addosso a Keith Emerson
- da 08:40 si capisce quanto sia abile Steve Wilson a rimettere tutto dove vuole lui e come vuole lui (ecco perché so che non si offende se lo prendo un po' in giro con questo post): un delizioso passaggio di synth inanella una nota suadente dopo l'altra
- da 09:34 riparte un bassismo alla Chris Squire veramente di qualità
- dopodiché, il brano si sgretola per poi trovarsi nella terza traccia
06 febbraio 2014
frammenti di Dream Theater
Certo, penserete, questo è matto: ama il jazz, la bella musica, ma poi si spara anche i Dream Theater nelle orecchie. Sarà... ma non ne colgo la differenza. Ufficialmente, il loro si chiama metal progressive; io, affettuosamente (e romanamente) la chiamo musica cafona; anche se dubito che i cafoni sappiano andar oltre l'apparente casino della chitarra di Petrucci e delle tastiere di Rudess.
Eppure, fossi in voi, una capatina dalle loro parti la farei; specie se siete ex/già appassionati di Yes, King Crimson e Queen.
Per lustri, il gruppo ha girato intorno a un batterista prodigioso quale solo sa essere Mike Portnoy; da due uscite discografiche, però, gli è subentrato Mike Mangini. Nella prima (A Dramatic Turn of Events) si sente che pativa cotanta eredità: il suo batterismo è di mestiere (e che mestiere, ovviamente), e molto attento a non strafare.
In questo nuovo lavoro (che, guarda caso, porta il nome del complesso), Mangini dice la sua in maniera veramente interessante, con un'identità e una verve che anche il meno esperto di drumming saprebbe percepire con un superficiale ascolto.
Intendiamoci, Dream Theater non è la migliore opera del complesso (siamo a dodici): sa molto di già sentito, e in più di una circostanza risulta stancante e faticoso. Però è su Mangini che vi consiglierei di concentrarvi, perché fa un lavoro eccellente e probante di rara qualità.
Certo, si capisce quanto Rudess soffra l'assenza di Pornoy (notoriamente tastierista e batterista hanno un'intesa quasi simbiotica), tanto che i suoi solismi sono poco indaginosi e a ridosso delle partiture di Petrucci. Però il gruppo c'è, e potrebbe dire ancora qualcosa.
Se non volete acquistarlo integralmente, vi consiglio di provare la lunga suite Illumination Theory. Per i fan puri è poca cosa (l'incipit ricorda Sheer Heart Attack dei Queen, e il resto si divincola tra Octavarium e Six Degrees of Inner Turbulence), però funziona.
Specie per i due minuti abbondanti della parte III (quella centrale) dal titolo The Embracing Circle: si apre con effetti synth sovrapposti a un didgeridoo con un leggero delay, e poi...
Eppure, fossi in voi, una capatina dalle loro parti la farei; specie se siete ex/già appassionati di Yes, King Crimson e Queen.
Per lustri, il gruppo ha girato intorno a un batterista prodigioso quale solo sa essere Mike Portnoy; da due uscite discografiche, però, gli è subentrato Mike Mangini. Nella prima (A Dramatic Turn of Events) si sente che pativa cotanta eredità: il suo batterismo è di mestiere (e che mestiere, ovviamente), e molto attento a non strafare.
In questo nuovo lavoro (che, guarda caso, porta il nome del complesso), Mangini dice la sua in maniera veramente interessante, con un'identità e una verve che anche il meno esperto di drumming saprebbe percepire con un superficiale ascolto.
Intendiamoci, Dream Theater non è la migliore opera del complesso (siamo a dodici): sa molto di già sentito, e in più di una circostanza risulta stancante e faticoso. Però è su Mangini che vi consiglierei di concentrarvi, perché fa un lavoro eccellente e probante di rara qualità.
Certo, si capisce quanto Rudess soffra l'assenza di Pornoy (notoriamente tastierista e batterista hanno un'intesa quasi simbiotica), tanto che i suoi solismi sono poco indaginosi e a ridosso delle partiture di Petrucci. Però il gruppo c'è, e potrebbe dire ancora qualcosa.
Se non volete acquistarlo integralmente, vi consiglio di provare la lunga suite Illumination Theory. Per i fan puri è poca cosa (l'incipit ricorda Sheer Heart Attack dei Queen, e il resto si divincola tra Octavarium e Six Degrees of Inner Turbulence), però funziona.
Specie per i due minuti abbondanti della parte III (quella centrale) dal titolo The Embracing Circle: si apre con effetti synth sovrapposti a un didgeridoo con un leggero delay, e poi...
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