Divertente, interessante e anche istruttivo: i tre aggettivi che vengono in mente appena conclusa la lettura di questa autobiografia di Peter Erskine.
Un libro che merita l'acquisto, anche da parte di chi non è appassionato di batteria e percussioni.
Salta subito all'occhio l'intenzione di non perdersi dietro inutili racconti d'infanzia o aneddoti troppo personali. Peter Erskine, infatti, ama divertirsi e far divertire il lettore, mettendo immediatamente in primo piano la musica e il suo strumento preferito: quella batteria, cioè, che lo trasformò in brevissimo tempo in un innovatore ancora attualissimo e in un pioniere della fusion meno ovvia (anche se lui per primo rifugge da questa definizione, ammettendo però la necessità economica di essersi dovuto cimentare anche con la muzak più insopportabile).
Ritroviamo grandi del passato come Jaco Pastorius, Joe Zawinul e Mike Brecker, più altri come gli Steps Ahead, Stan Kenton, Dave Weckl, Joni Mitchell, gli Steely Dan, Pat Metheny, Elvis Costello, Diane Krall, Wayne Shorter, John Patitucci... la lista è lunga e piena di sorprese.
Anzi, scopriamo pure gli angoli segreti di autentici monumenti come Manfred Eicher (un caratterino niente male) o Chick Corea (nella veste di inedito quanto eccellente batterista). In coda al testo figurano cinquanta titoli preferiti dall'autore tra i centinaia cui ha collaborato, anche come leader (anche qui molte sorprese).
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08 febbraio 2015
Peter Erskine fuori e dentro i Weather Report
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26 luglio 2013
#Jazz - Nils Landgren: Paint It Blue
Ogni giorno che passa, provo a mettere ordine ai miei pensieri, e scopro che l'armadio è vuoto.
E quindi mi rivolgo alla musica.
Ho scoperto per puro caso Nils Landgren e il suo progetto Funk Unit. Ne è venuto fuori questo Paint It Blue che è in catalogo ACT dal 1996... ma meglio tardi che mai.
Oltre ai suoi musicisti, il tromba/trombonista ospita ciclopi come: Airto Moreira, Michael e Randy Brecker.
Il suo è un lavoro leggero ma ben fatto, che viaggia dentro il mondo di Adderley e Zawinul con l'aggiunta di brani personali che ammiccano ai due (come anche a qualcosa degli US3).
20 novembre 2012
Joe Jackson è apparso a Duke Ellington
Carmelo Bene mi perdonerà se uso il titolo di un suo noto libro per sottolineare la bellezza dell'ultimo lavoro di Joe Jackson.
Il suo omaggio a Duke Ellington è così saporito e ricco di suggestioni che - oltre ad evidenziarne la modernità in nuce - consente anche alle nuove generazioni di conoscere un band leader apparentemente remoto (1899-1974), ma di indiscussa potenza, che tanto ha dato al jazz di tutti i tempi.
Il bello è che ho sentito questa opera solo dal vivo. E in questo caso lo scetticismo ci stava tutto: conosco buona parte delle opere di Duke; so come e quanto vadano rispettate; conosco pure l'approccio di Joe Jackson nei confronti di opere non sue (ma anche sue: visto come si è rifatto la faccia... agh!); ho un indole contraddittoria e con riserve di fronte a operazioni simili; sapevo che Jackson aveva tolto di mezzo i fiati (è come togliere i fulmini a Giove); avevo letto recensioni poco felici su Musica Jazz... insomma, troppe cose contro e pochissime a favore.
Sicuramente, metterle alla prova con un solo ascolto, live pergiunta, non avrebbe aiutato Jackson a superare la mia ritrosia (e, infatti, so che non ci ha dormito sopra)... eppure, tutto è andato a meraviglia: due ore di splendido ascolto, con tanto di tuffo nei suoi classici (con la ciliegina del primo Night and Day pressoché integrale) e la gioia di avere accanto la mia signora, già giovane di suo, che si è dimenata come una bimba di 18 anni, felice e spensierata all'ascolto di tanta bellezza.
Grande band al seguito: Regina Carter al violino, mai leziosa e sempre attenta; l'onnipresente Sue Hadjopoulos alle percussioni, un marchio di fabbrica del Joe Jackson' style; l'androgina Allison Cornell alle tastiere e alla voce (e alla viola), capace di chiacchierare e supportare perfettamente il nostro; Jesse Murphy al basso e alla tuba, iradiddio e al contempo metronomicamente affidabile; Adam Rogers alla chitarra, con l'ombra del suo mentore Mike Brecker che lo coccolava a più riprese (e si sente nei fraseggi tipicamente sassofonizzanti); Nate Smith alla batteria, e che batteria!
Insomma, e alla fine, io il cd me lo compro. Viste le premesse...
Il suo omaggio a Duke Ellington è così saporito e ricco di suggestioni che - oltre ad evidenziarne la modernità in nuce - consente anche alle nuove generazioni di conoscere un band leader apparentemente remoto (1899-1974), ma di indiscussa potenza, che tanto ha dato al jazz di tutti i tempi.
Il bello è che ho sentito questa opera solo dal vivo. E in questo caso lo scetticismo ci stava tutto: conosco buona parte delle opere di Duke; so come e quanto vadano rispettate; conosco pure l'approccio di Joe Jackson nei confronti di opere non sue (ma anche sue: visto come si è rifatto la faccia... agh!); ho un indole contraddittoria e con riserve di fronte a operazioni simili; sapevo che Jackson aveva tolto di mezzo i fiati (è come togliere i fulmini a Giove); avevo letto recensioni poco felici su Musica Jazz... insomma, troppe cose contro e pochissime a favore.
Sicuramente, metterle alla prova con un solo ascolto, live pergiunta, non avrebbe aiutato Jackson a superare la mia ritrosia (e, infatti, so che non ci ha dormito sopra)... eppure, tutto è andato a meraviglia: due ore di splendido ascolto, con tanto di tuffo nei suoi classici (con la ciliegina del primo Night and Day pressoché integrale) e la gioia di avere accanto la mia signora, già giovane di suo, che si è dimenata come una bimba di 18 anni, felice e spensierata all'ascolto di tanta bellezza.
Grande band al seguito: Regina Carter al violino, mai leziosa e sempre attenta; l'onnipresente Sue Hadjopoulos alle percussioni, un marchio di fabbrica del Joe Jackson' style; l'androgina Allison Cornell alle tastiere e alla voce (e alla viola), capace di chiacchierare e supportare perfettamente il nostro; Jesse Murphy al basso e alla tuba, iradiddio e al contempo metronomicamente affidabile; Adam Rogers alla chitarra, con l'ombra del suo mentore Mike Brecker che lo coccolava a più riprese (e si sente nei fraseggi tipicamente sassofonizzanti); Nate Smith alla batteria, e che batteria!
Insomma, e alla fine, io il cd me lo compro. Viste le premesse...
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30 marzo 2011
John Abercrombie
John Abercrombie è uno dei chitarristi più complessi con cui abbia mai avuto a che fare. Facendo un parallelo forzatissimo, mi ricorda quello che molti critici competenti attribuiscono a un altro vate della chitarra, però più vicino al rock e allo sperimentale: Robert Fripp. Per carità, nessuna comunanza stilistica. Però: così come Fripp non attinge a nessuna tradizione blues per esprimere le sue complesse tessiture (apparentemete, però, nitide e liquide), Abercrombie sembra voler andare oltre il chitarrismo jazz per spostare la sua improvvisazione in un contesto così ibrido e rischioso, che a volte è necessaria una pausa di qualche minuto per passare poi all'ascolto del brano successivo.
Attenzione: non è "difficile"; anche perché non esiste musica "difficile", semmai è l'ascoltatore che manca di coraggio. Insomma, Abercrombie si fa ascoltare, ti prende per mano, vuole dirti qualcosa e ti costringe abilmente e amabilmente a seguirlo passo dopo passo. Ogni sua nota, cioè, ha una storia, una (e)voluta volontà di esplorare e raccontare, di sfidare e rispettare, di andare oltre aspettando però che l'ascoltatore si adatti a quel rischio.
I chitarristi più noti, spesso usano alcuni passaggi della propria improvvisazione, più per appoggiarsi a qualcosa di fidato, che per continuare a camminare nel sentiero vastissimo dell'improvvisazione stessa. Mi vengono in mente John Scofield, Mike Stern e anche il primissimo Santana: bravi, bravissimi; ma spesso dedicati al conosciuto per cercare poi l'ignoto, anziché lasciarsi andare immediatamente al rischio.
Abercrombie, invece, sembra sempre proporre note esatte ma inaspettate.
Invece di rompervi ancora, vi consiglio alcuni cd di partenza, cosicché possiate poi farvi un'idea di massima della potenza di questo piccolo genio della chitarra.
Timeless, che ha come tastierista Jan Hammer (ex Mahavishnu, poi convertitosi a Miami Vice), e il jarrettiano Jack DeJohnette alla batteria. Un'opera esplosiva, veramente di classe, che nonostante l'età (1974), propone ancora oggi suggerimenti insospettabili, mantenendo quella gioventù suggerita anche dal titolo.
I vari Gateway, progetti musicali condivisi con Dave Holland (il bassista per eccellenza) e sempre con DeJohnette. Roba più complicata, forse, ma dove Abercrombie dà ampia prova di saper guidare e lasciarsi guidare con inusitata umiltà.
Getting There, album che sembra aprire alla fusion commerciale, ma solo nel primo brano, e che vede Marc Johnson al basso, Peter Erskine alla batteria, e tre cameo del compianto tenorsassofonista Michael Brecker. Album delizioso, forse troppo, ma utile a chi volesse sfidare la proprie conoscenze.
Eventyr, dove il sax soprano di Jan Garbarek e la chitarra di Abercrombie ben si amalgamano, scivolando sul ghiaccio; aiutati anche dal metheniano Nana Vasconcelos, che usa ogni percussione gli venga a tiro.
Abercrombie si ripete con Erskine e Johnson in almeno due opere necessarie: Current Events (con in apertura un simpatico omaggio a Clint Eastwood), e il live a loro nome.
Aggiungo i miei preferiti, ma forse troppo in là (per cui è meglio prima ripassare quelli già segnalati): Animato (con Jon Christiensen alla batteria e Vince Mendoza alle tastiere); il solista Characters (sperimentazione jazz veramente di classe); Sargasso Sea (insieme al collega - folle come pochi - Ralph Towner); Open Land, brividi assicurati con Mark Feldman al violino, Kenny Wheeler alla tromba, Joe Lovano al sax tenore, Dan Wall all'organo e Adam Nussbaum alla batteria.
Con questi ultimi due (Wall e Nussbaum), Abercrombie ha tirato giù una serie di opere veramente interessante. Se, però, amate poco l'organo, lasciate perdere; altrimenti, invece, comprateli tutti, qualsiasi titolo va bene.
Attenzione: non è "difficile"; anche perché non esiste musica "difficile", semmai è l'ascoltatore che manca di coraggio. Insomma, Abercrombie si fa ascoltare, ti prende per mano, vuole dirti qualcosa e ti costringe abilmente e amabilmente a seguirlo passo dopo passo. Ogni sua nota, cioè, ha una storia, una (e)voluta volontà di esplorare e raccontare, di sfidare e rispettare, di andare oltre aspettando però che l'ascoltatore si adatti a quel rischio.
I chitarristi più noti, spesso usano alcuni passaggi della propria improvvisazione, più per appoggiarsi a qualcosa di fidato, che per continuare a camminare nel sentiero vastissimo dell'improvvisazione stessa. Mi vengono in mente John Scofield, Mike Stern e anche il primissimo Santana: bravi, bravissimi; ma spesso dedicati al conosciuto per cercare poi l'ignoto, anziché lasciarsi andare immediatamente al rischio.
Abercrombie, invece, sembra sempre proporre note esatte ma inaspettate.
Invece di rompervi ancora, vi consiglio alcuni cd di partenza, cosicché possiate poi farvi un'idea di massima della potenza di questo piccolo genio della chitarra.
Timeless, che ha come tastierista Jan Hammer (ex Mahavishnu, poi convertitosi a Miami Vice), e il jarrettiano Jack DeJohnette alla batteria. Un'opera esplosiva, veramente di classe, che nonostante l'età (1974), propone ancora oggi suggerimenti insospettabili, mantenendo quella gioventù suggerita anche dal titolo.
Getting There, album che sembra aprire alla fusion commerciale, ma solo nel primo brano, e che vede Marc Johnson al basso, Peter Erskine alla batteria, e tre cameo del compianto tenorsassofonista Michael Brecker. Album delizioso, forse troppo, ma utile a chi volesse sfidare la proprie conoscenze.
Eventyr, dove il sax soprano di Jan Garbarek e la chitarra di Abercrombie ben si amalgamano, scivolando sul ghiaccio; aiutati anche dal metheniano Nana Vasconcelos, che usa ogni percussione gli venga a tiro.
Abercrombie si ripete con Erskine e Johnson in almeno due opere necessarie: Current Events (con in apertura un simpatico omaggio a Clint Eastwood), e il live a loro nome.
Aggiungo i miei preferiti, ma forse troppo in là (per cui è meglio prima ripassare quelli già segnalati): Animato (con Jon Christiensen alla batteria e Vince Mendoza alle tastiere); il solista Characters (sperimentazione jazz veramente di classe); Sargasso Sea (insieme al collega - folle come pochi - Ralph Towner); Open Land, brividi assicurati con Mark Feldman al violino, Kenny Wheeler alla tromba, Joe Lovano al sax tenore, Dan Wall all'organo e Adam Nussbaum alla batteria.
Con questi ultimi due (Wall e Nussbaum), Abercrombie ha tirato giù una serie di opere veramente interessante. Se, però, amate poco l'organo, lasciate perdere; altrimenti, invece, comprateli tutti, qualsiasi titolo va bene.
06 novembre 2010
16 gennaio 2007
per cominciare
Se del primo, con tutto il rispetto, me ne frega ben poco, per il secondo devo confessarvi di aver avuto sempre una simpatia inconscia.
In Italia immagino sia arrivato ben poco, ma negli USA il suo funerale è stato trasmesso in diretta. Commovente quanto potente.
Mi hanno commosso i neri dei gate dell'areoporto: seguivano i vari in memoriam con passione e attenzione.
Non saprei mai riproporvi l'omelia del pastore suo confidente, ma quando ha tirato fuori da un bellissimo cilindro oratorio il riscatto dell'orgoglio nero, qualcuno accanto a me ha pianto, qualcun altro ha applaudito... gli astanti delle altre "razze", invece, seguitavano a leggere giornali, riviste e playstation.
In questi giorni, poi, è morto anche il grandissimo tenorsassofonista Mike Brecker. L'avevo già scritto: purtroppo la sua leucemia sarebbe stata fatale.
Qualsiasi tipo di musica amiate, non fatevi mai mancare i suoi dischi e le sue collaborazioni: sono un linea diretta verso il cielo.
In questa messe di tristi morti, permettetemi di concludere festeggiando un anno di vita di questo blog.
Nacque il 13 gennaio scorso.
Tra i primi a farmi gli auguri allora, un caro amico che non c'è più.
Insomma, minimAL compie un anno di vita.
Come scrissi allora, citando un vecchio adagio trekkiano: lunga vita e prosperità (a voi, non al blog)!
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