Immaginate una sfera di acciaio, di quelle non per forza enormi, ma che incutono comunque rispetto, meraviglia, quasi timore. Forse è leggermente arrugginita, ma poco conta, perché sembra avere una dignità propria.
Immaginatela in movimento, tipo quei cosi che servono per buttar giù i palazzi: ondeggia senza sosta, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro.
Poi, ad un certo punto, senza preavviso alcuno, la sfera si sgancia e descrive una parabola quasi dritta, forse un rettilineo leggermente curvo… e si va a schiantare contro una nave di legno, appoggiata lì, da qualche parte... per poi rotolare giù, a fondo valle.
La nave, fragile già di suo, si è sbriciolata in mille pezzi. È impossibile ricostruirla; anzi, è addirittura impossibile capire che forma potesse avere. Sono rimasti mucchi di legno, sparpagliati alla rinfusa, un po’ di schegge, molta segatura, qualche pezzo sopravvissuto chissà come.
Questo è “Furore” di John Steinbeck, uscito nel 1939, anche sa da noi la traduzione integrale è arrivata solo nel 2013 (quelle precedenti, infatti, erano mortificate dalle censure del Ventennio Fascista).
Tre generazioni, un camion, la fuga dalla Depressione, il viaggio verso le illusioni della California, un mito che poi si scioglie al sole dell’amara realtà, un finale che non dà spazio né alla speranza né alla delusione.
Una trama devastante, imponente, credibile, senza fronzoli, senza finzioni. Uno stile asciutto ma non arido, empatico ma senza pietismi, partecipato ma senza parteggiare. Una traduzione fedele, precisa, attenta e capace di rispettare totalmente l’anima di Steinbeck.
Se vi manca questo classico, mollate tutto e andate ad acquistarlo.
Un secolo e mezzo prima del viaggio di Cristoforo Colombo, in Italia si conosceva già l’esistenza dell’America. La prova sta in un antico manoscritto perduto, ritrovato e ora conservato in un luogo sconosciuto. Una scoperta straordinaria che ci rivela un medioevo insolito e misterioso
Un libro decisamente documentato, ben oltre la minuziosità più certosina che possiate immaginare, che purtroppo soffre per la scrittura sapiente e cattedratica dell'ottimo Paolo Chiesa.
Però è un mio limite: forse perché è un periodo in cui soffro i testi dottrinali, forse perché l'intera vicenda poteva essere trattato in maniera più fluida, senza perdere di autorevolezza.
Sicuramente, è un tassello essenziale da accostare alla lettura della Saga di Eirik il Rosso, il classicone che racconta le gesta dei vichinghi che "scoprirono" l'America intorno all'Anno Mille.
Lui è Ron Howard, il Richie Cunningham di Happy Days che diventerà un eccellente regista. L’altro è il fratello Clint, il Balok di Star Trek (e poco altro), che faticherà non poco a vivere la sua vita. Una bellissima autobiografia scritta a quattro mani, che curiosamente racconta le loro vicende fino a poco prima del successo, del balzo dentro la notorietà planetaria. È anche un viaggio in un’America e in un modo di fare televisione e cinema che non esistono più. Meravigliosa la figura del papà. Da leggere assolutamente.
Se esistesse una biblioteca perfetta, di quelle che ospitano solo opere perfette, scritte ed editate in maniera perfetta, questo libro ne farebbe sicuramente parte. Non è solo la storia della produzione di "C'era una volta in America", non è solo un viaggio dentro l'ultimo raggio di luce della purtroppo breve vita dell'immenso Sergio Leone, non è solo un omaggio al cinema, alla musica, al montaggio, alla fotografia - e anche alla produzione: è un insieme di queste cose e di molto altro, dove tutto è ben cesellato, equilibrato, mai fuori luogo né tantomeno esagerato, in cui ogni singola parte contribuisce all'insieme, mantenendo comunque la sua singola dignità e la sua necessaria visibilità. Ma, soprattutto, non è un'operazione nostalgia. Certo, si respirano comunque amore incondizionato e un languore pieno di grazia, come anche un certo modo romantico di raccontare gli ultimi bagliori del crepuscolo cinematografico italiano, che in quegli anni ancora sapeva illuminare il cosmo della settima arte con una sua inestimabile grammatica e un invidioso coraggio. C'è anche un'impostazione di fondo, sottile e impercettibile ma ben presente, che credo sia utile anche per chi volesse cimentarsi nel difficile mestiere della critica. Quella attualmente in voga, infatti, o è anacronisticamente militante (cfr FilmTv) o eccessivamente commerciale (cfr Ciak), vincolate o dall'angusto gusto personale o da una malcelata sponsorizzazione. Qui, invece, il critico si documenta, argomenta, ricostruisce, ritrova i bandoli delle matasse e li racconta per quello che sono, non mitizza né mortifica, non si autocompiace della sua competenza né sgomita per farsi notare. Insomma, è un libro che ho fatto fatica a riporre nello scaffale. Da leggere e rileggere, magari rivedendo poi per l'ennesima volta il bellissimo capolavoro di Sergio Leone.
La vera storia di Mohamedou Ould Slahi, raccontata fino alla prima sentenza del 2010 - quindi 7 anni prima del suo effettivo rilascio, in un lento crescendum di torti e sofferenze, contrastate dal suo immenso carattere e dalla eccellente professionalità della sua avvocatessa, Nancy Hollander.
Un film notevole sotto ogni punto di vista, che si lascia vedere con empatia e passione, senza mai perdere ritmo, toni e autenticità. Un vero gioiello di cinematografia attivista che insegna moltissimo a chiunque voglia cimentarsi dentro estetiche così complesse.
Già, "estetica". È un film bello, nel senso più tondo del termine. Nonostante sia un dramma terrificante e doloroso, è un film bello da vedere. Non prendetemi per pazzo, visto che è un film che fa male. Ma non c'è contraddizione se un film che fa male risulta anche bello. La regia è eccellente: dirige attori e produzione con rarissima precisione. Ogni minimo dettaglio narrativo o produttivo è giusto, esatto, stimolante, rispettoso.
Montaggio e fotografia lavorano di fino, senza mai sbrodolare nel gratuito (e ce ne sarebbe), aiutate peraltro da una sceneggiatura che ha un mordente e un'efficacia da lezione di scrittura.
Gli attori, poi, fanno impressione. Jodie Foster si "defosterizza" quel tanto che basta per lavorare dentro il personaggio senza mai strafare. Sì, ad un certo punto c'è quel suo tipico arrotolare a destra l'angolo della bocca, ma ci sta.
Ma il vero monumento è Tahar Rahim. Mai una sbavatura, mai un'esagerazione, sempre spontaneo e credibile, quasi non-cinematografico per quanto sembra vero e reale. Accidenti, che interpretazione superba.
Questo film dimostra ancora una volta come gli ameriKani sappiano affrontare i propri difetti senza mettere al centro l'ego di chi denuncia, senza essere "antiamericani", senza quella gratuità ipocrita di certi ditini giudicanti e moralisticheggianti.
Gli ameriKani, insomma, hanno questa capacità di dimostrare l'amore per la propria patria criticandola, denunciandone le storture, documentandosi senza faziosismi, trasformando il sistema in anti-sistema.
Si è più credibili quando si fanno film così potenti piuttosto che film con elenchi di colpevoli e un eroe unto dalla misericordia.
Qui non ci sono assoluzioni, invece, ma un ammonire gli americani tutti che queste storture ci sono e se non si è vigili le favorisci, le lasci attecchire.
Oliver Stone scrive una splendida autobiografia, fermandosi, però, fino alla premiazione per Platoon (1986). Perché non abbia voluto raccontare il resto, magari non proprio fino a ieri, resta un mistero. Però, e alla fine, si è rivelata una scelta giusta e intelligente: la parabola narrativa è solida, credibile, avvincente, autentica e ricca di momenti sia godibili che commoventi.
Non è un libro sul Vietnam o sullo stress post traumatico subito dal grande regista: è un'autobiografia che racconta tutto, sempre con le giuste prospettive, senza mai fermarsi all'indulgenza o alla ripetizione. C'è, insomma, un incredibile equilibrio stilistico, frutto evidente di un'esperienza non indifferente nel campo della scrittura. Ma è anche un libro di cinema, raccontato e spiegato in maniera semplice e profonda: troverà pane per i suoi denti sia chi è appassionato - ma non ne mastica alcuni aspetti più tecnici, sia chi vuole approfondire un periodo cinematografico di transizione, quali sono stati gli anni '80, quando cioè l'autorato muore sotto i colpi de I Cancelli del Cielo di Cimino e sotto la restaurazione furba e dissimulata dell'industria cinematografica.
Ma è anche un libro di Storia americana, dove si capiscono molti eventi perché raccontati senza tanti fronzoli o complottismi. Un'America che sembra ormai così lontana, ma il cui peso specifico si fa sentire ancora oggi.
Ma è anche un libro di amore, per le donne, per la famiglia, per la gente, anche per il dolore e la resurrezione.
Un libro che cammina accanto al lettore, invogliandolo a divorarne le pagine, una dopo l'altra, capitolo dopo capitolo.
Ho letto qualche recensione che parla di testo torbido, di oscurità del Vietnam, di rabbia e di durezza. O la mia copia è speciale oppure bisogna anche sacrificare un po' se stessi quando si parla di un libro.
Che poi, alla fine, io non mi sacrifico per nulla, perché ho trovato questo libro eccellente: compratelo e parliamone.
La fortuna di vedere certe serie-tv fuori dal loro tempo è che non sei influenzato dall'umore che generano. E, forse, se avessi vissuto l'ultima stagione di How I Met Your Mother nel 2014, quando cioè fu trasmessa per la prima volta in tivù, forse la mia amarezza sarebbe stata meno misurata.
Ma partiamo dall'inizio.
In sé per stessa, la serie è di assoluta qualità: su 208 episodi, giusto una ventina sono scadenti - o comunque ben lontani dallo standard; ma per quanto riguarda la struttura in generale, siamo di fronte a qualcosa di raro e di epocale.
E questa eccellenza si riflette soprattutto sulla scrittura: sempre in tiro, sempre precisa e ben spalmata lungo tutto l'arco della narrazione - sia in ogni singolo episodio che per tutte le nove stagioni.
I personaggi e gli interpreti, poi, sono ben disegnati e credibili, mai fuori tono e in un crescendum di progressioni caratteriali che anche nei momenti eccezionali - o di scarto narrativo, rispettano la bibbia di partenza.
È la scelta conclusiva che lascia molto a desiderare, ma non per partito preso o per affezione per un personaggio (o per un attore). A mio avviso, insomma, siamo di fronte a scelte da America perbenista.
In soldoni: Robin, la donna in carriera (un'eccellente Cobie Smulders), non potrà avere figli; anzi, la maternità le viene negata dal Fato. In eterna rincorsa di un'approvazione del padre, prova a realizzarsi con Barney, uno sciupafemmine pressoché sovrapponibile a lei, tanto che prima lo lascia per eccesso di somiglianza, poi lo sposa per eccesso di lontananza, e alla fine è "costretta" dalla trama a divorziare. Insomma, la sua carriera vince su tutto il resto (al di là del contentino finale, che nulla toglie e nulla aggiunge).
Barney è lo sciupafemmine seriale (Neil Patrick Harris, monumentale). Gli viene negato lo stesso dono ma al contrario: non potrà avere una donna stabile, perché le sue mani sono sporche di soldi e di sesso. Redenzione negata, se non col contentino di poter crescere una figlia non voluta, ma proprio con quei soldi di cui non si conosce l'esatta origine.
Ted è il protagonista (Josh Radnor, a volte stucchevole) e... ama l'amore. In tutte le sue prolusioni, l'amore vince, ma lui poi perde. Del resto, come mestiere fa l'architetto: costruisce bei palazzi, ma non potrà mai abitarli; e l'unico che prova a costruire per sé, passerà non poche peripezie prima di essere completato. E alla fine, del suo vero ultimo amore restano i figli, perché il Destino gli uccide la donna della vita. E sono proprio i figli a suggerirgli di tornare dalla donna che in fondo ha sempre amato, Robin. Ma è una sequenza finale tirata per i capelli.
Lily e Marshall (Alyson Hannigan, all'inizio bravissima e alla fine monocolore; Jason Segel, bravo in crescendum) rappresentano la coppia perfetta e perfettina. Nonostante abbiano esperienze umane e sessuali pari a zero, elargiscono consigli strutturati che pronunciati da loro sembrano più predicozzi preconfezionati che esperienze sul campo.
Ma la cosa che più evidenzia il mio pregiudizio contro la scelta degli autori è la sorte dei due loro personaggi. Lei rinuncia alla sua carriera come artista per sfornare almeno tre figli. Donna e artista è un controsenso, perlomeno per l'America bacchettona; quindi, meglio mamma e moglie devota. Lui, da sbadato e ingenuo idealista, cosa diventerà? Giudice!
Io non credo alle coincidenze: aver scelto come mestiere quello del giudice per il personaggio-guida è una scelta ponderata e voluta.
Tra tutti gli attori e i cameo vari, la Smulders e Harris vincono senza alcun dubbio.
Lei perché non fa la bella che fa la simpatica: è bella ed è simpatica, e all'occorrenza riesce a mortificare la sua bellezza o la sua simpatia senza strafare.
Su Harris, che dire? È mostruosamente bravissimo. Recitazione, canto, danza, mimo, non c'è attitudine che non sappia fare meglio di chiunque altro. Sotto molti aspetti, il vero protagonista della serie è lui, se non altro perché tiene spesso in mano le fila della trama e degli scarti narrativi, senza mai far pesare la sua presenza.
La domanda è molto semplice: cari autori, ma non potevate lasciare tutto come nel penultimo episodio?
Ho letteralmente divorato questo "Wild tales. La mia vita rock'n'roll" di Graham Nash, godibile autobiografia, ma soprattutto ritratto a tutto tondo di un'epoca musicale irripetibile, inarrivabile e inestimabile. Oltretutto, il nostro è tra i pochi fortunati ad aver fatto parte in primissima persona sia del panorama rock inglese che di quello americano, in egual misura, mietendo successi e consensi in ambedue le terre e seminando uno stile e un approccio ancora oggi validi e moderni. Un viaggio, insomma, privo di sovrastrutture, ricco di aneddoti mai fini a se stessi, con ritratti onesti e mai livorosi di (quasi) tutti i nomi più importanti di ambedue le realtà musicali del periodo. Purtroppo l'edizione italiana è tradotta coi piedi e manca totalmente di un indice analitico oltreché di una discografia più o meno parziale. È un difetto che ho riscontrato in quasi tutte le (auto)biografie musicali di questi anni, forse perché si pensa che il lettore debba per forza connettersi per trovare una precisa discografia online, forse per risparmiare i costi su un sedicesimo in più... ma resta comunque una grave lacuna. Fatto sta che per ricostruire le peculiarità di una specifica canzone o di un intero lp (ancora esistevano gli lp!), dovrete armarvi di penna/evidenziatore per ricostruirvi un vostro personalissimo indice. Ne vale la pena. Tempo fa avevo letto anche l'autobiografia di Neil Young, scontroso e ombroso sempre e ovunque. Onestamente, mi sembra meno genuina di questa, e comunque poco edificante. Se insomma avete voglia di conoscere un'America che non c'è più, un modo di fare musica umano e tutt'altro che prefabbricato... questo è il libro che fa per voi.
Se esistesse la categoria pitipiti, questo film sarebbe tra i più rappresentativi. Eppure, nonostante tanto miele, è carino, commovente e ben fatto. Ha il classico momento di stanca a tre quarti della narrazione, ma nell'insieme dispone di una regia sobria ed efficace (a totale servizio della sceneggiatura), di una fotografia di rara bellezza, di una musica un po' radical chic ma puntuale e precisa. Insomma, uno di quei film senza tante pretese, da vedere con la mente sgombra, che lascia l'animo sereno e sorridente. Joaquin Phoenix è in forma smagliante: riesce a modulare bene la progressione dei suoi sentimenti, senza anticipare i momenti topici (come spesso càpita con trame come questa). Scarlett Johansson è mirabile: con la sola voce sa dire e dare tanto, al contrario di quel poco della versione italiana (romanesca, direi) che ho ascoltato tramite Hollywood Party, dove veramente si capisce quanto sia profonda e senza ritorno la crisi del doppiaggio italiano (aridatece Locchi, insomma). Non racconto la trama, è ovvio: però il genere del "fantapoetico" rincorre sempre storie d'amore - chissà perché (visto che anche il mio romanzo gioca in questo campo), risolvendole con prevedibili conclusioni; qui, invece, vengono delineate in maniera originale, ma senza strafare. Da registrare la scena di sesso più travolgente che abbia mai visto (ascoltato) in vita mia, come anche un persistente senso di leggerezza che raramente ho vissuto in film in cui la tecnologia si dimostra comunque alienante e opprimente. Non è piaciuto a Mereghetti; un valido motivo per andarlo a vedere.
Ho visto Gravitypochi giorni dopo la sua uscita, e non l'ho recensito solo per mancanza di tempo. Per piacermi, mi è piaciuto, anche se è il classico film che meraviglia solo con le immagini, non certo per la trama, risibile ed esile esile. Fatto sta che l'acquisto del dvd mi ha consentito di vedere un breve documentario che sarebbe alla fonte dell'idea del film: siamo circondati di così tanti detriti spaziali che ormai è a rischio addirittura il funzionamento futuro dei satelliti per le telecomunicazioni. In più, anche gli astronauti della ISS rischiano di brutto la vita ogni santo giorno. Insomma, un'apocalissime incombente che trascuriamo solo perché (apparentemente) non ci riguarda da vicino. Ebbene, un "messaggio" del genere è arrivato? L'avete percepito? Oddio, non voglio fare il critico marxista ad ogni costo; però tale è la ridondanza delle immagini spettacolari che si perde totalmente per strada anche la serissima fonte della trama. Ecco, questo è il tipico caso in cui mi sento di definire un film come questo un'"americanata"; bella e irresistibile, ma pur sempre americanata...
Non sono stati Oscar credibili e riusciti, forse per la qualità mediocre dell'insieme delle pellicole candidate: lo dimostra il premio a 12 anni schiavo, che sa tanto di contentino alla coscienza di un'America ancora incapace di mettere la parola "fine" al razzismo. Se, insomma, l'elezione di Obama aveva messo una toppa, 12 anni schiavo poteva rivelarne l'ipocrisia di fondo; e, invece, ha contribuito a mantenere ormai candida la facciata di un paese ancora ricco di palesi contraddizioni (ne sanno qualcosa le vittime di Katrina, ultime in ordine di tempo). Il film, insomma, non ha sostanza, e dà per scontata la sussistenza di un "messaggio" che secondo me paradossalmente neanche andava pensato. Voglio dire che forse McQueen ha sentito così suo il tema (e vorrei vedere), non pensando però che troppa partecipazione emotiva avrebbe bloccato sul nascere quel suo lavorare in apparente maniera asettica. Ammiccare troppo, indicare troppo, giocare col facile sentimento, sono tutti espedienti che hanno pure un senso, ma che non mi aspettavo da un regista così raffinato. Certo, salverei la fotografia e la musica: eccellenti entrambe, soddisfano ampiamente il gusto e l'anima. Soprattutto la musica sembra un compendio antropologico buttato lì senza strafare, ma che dà l'idea precisa di come siano poi nati il gospel, il blues, il jazz e se vogliamo anche il rock. Tecnicamente parlando, la regia si muove senza mèta, senza un progetto lineare. McQueen sembra aver stabilito solo pochissimi punti narrativi nodali ben precisi, che però ha collegato con scene dispersive e incoerenti, spesso didascaliche e buttate là alla rinfusa. I personaggi bianchi, poi, girano dietro una pantomima ammiccante, dove il cattivo è cattivo, il buono è buono, l'indeciso senza redenzione resterà senza redenzione. È un peccato, perché invece i neri vengono proposti con sfumature delicate e raffinate di indiscutibile intensità, che però soffocano in questo insieme così mal congegnato. Chiwetel Ejiofor è bravissimo, ma mal sfruttato: per colpa di una mediocre sceneggiatura, non si percepisce in alcun modo la sua mutazione psicologica. Per portare un esempio tra tanti: una delle scene nodali - quando cioè lentamente egli si associa al coro di commiato per un compagno morto - può essere letta tranquillamente in due modi; o che prima resisteva strenuamente e ora capisce di essere schiavo, o che prima si sentiva schiavo e adesso si sente comunque libero nonostante le catene. Michael Fassbender si conferma in serio calo. E quindi: o le dueprove precedenti con McQueen erano una felice eccezione, oppure quanto abbiamo visto in Prometheus, in The Counselor e in questo 12 anni schiavo sono tre incidenti di percorso... consecutivi. Anche qui, il doppiaggio italiano penalizza moltissimo l'insieme, ma non è l'unica causa della mia sufficienza stiracchiata. A latere: noi, cristiani bianchi e occidentali, abbiamo deportato in tutto 36 milioni (trentasei mi-lio-ni) di neri; 18 milioni dei quali (diciotto mi-lio-ni) morti durante il tragitto via oceano o per stenti/soprusi/stupri entro i primi mesi dopo l'attracco in America.
Nonostante l'età, Bruce Dern conserva con grazia quell'amabile espressione del "che ci faccio qui", tipica dei personaggi di un certo cinema americano anni 60/70 che impose finalmente l'autorato come cifra estetica, prima di quel Guerre Stellari che invece riportò in primo piano la macchina commerciale della settima arte. E, guarda caso, il film con cui noi over forty lo ricordiamo è 2022: la seconda odissea (Silent Running, 1972), di quel Douglas Trumbull che tanto aveva contribuito al successo della prima Odissea, quella più cerebrale di Kubrick. In Silent Running, Bruce Dern presentava già il meglio dei suoi registri, con un approccio molto spontaneo e contemporaneamente ricco di sfumature. Lo ricordiamo anche in perle come Complotto di famiglia (Family Plot, 1976; l'ultimo di Hitchcock), Black Sunday (1977), Tornando a casa (Coming Home, 1978; dallo stesso soggetto del futuro Nato il 4 luglio che aprirà le porte della serietà al finora cazzaro Tom Cruise), Driver l'imprendibile (The Driver, 1978)... In questo Nebraska, Bruce Dern si conferma immenso, infinito, addirittura incapace di fare il gigione, lavorando sodo, senza ammiccamenti, senza giochicchiare con le sue doti. Bruce Dern non cerca spazi, non li impone, e si mantiene sempre al servizio della storia. Storia che ha come vera protagonista una provincia americana da incubo, isolata e solitaria e inconcludente, attendista, senza dolore ma anche senza speranza. Provincia raccontata in bianco/nero con inquadrature e luci di rara perfezione, intense ed evocative come poche, sempre ai limiti del quasi new age ma mai stucchevoli o ridondanti. Eppure, c'è qualcosa che non va in questo film. Come se questa tavola così giustamente spoglia di pietanze possa bastare per un pasto umile ma profondo e commovente. Il regista Alexander Payne (che avevo apprezzato in Paradiso amaro) sembra fermo su se stesso, sembra credere che basta un ottimo attore e ottime inquadrature per regalare un capolavoro. In più, dispiace dirlo, sembra anche giocare molto sul sentimento immediato dello spettatore: i padri buoni sono merce rara, ed è "facile" costruire una storia di un incontro quasi conciliatorio tra un figlio ormai adulto e un padre ex ubriacone ed ex egocentrico. Insomma, per sfuggire all'ovvio, il regista ha lasciato troppi sospesi e troppi accenni. Di fronte ad American Hustle questo Nebraska merita sicuramente l'Oscar, ma sarebbe comunque una competizione in tono minore. Da rivedere in lingua originale.
Ho fatto un test, raccontando a chi mi stava intorno i seguenti aneddoti, ma senza specificare chi ne fosse il protagonista pasticcione: un tipo si ritrovò tra le mani alcuni fogli disegnati in maniera poco ortodossa, e decise di buttarli nella spazzatura. Peccato che l'autore fosse Basquiat. Allo stesso tipo arrivarono i nastri di un giovane musicista di colore che lo pregava di dirigere alcuni suoi video. Li ascoltò, non li gradì, e diniegò l'offerta. Peccato che il musicista fosse Prince. Infine, un bel giorno, gli si avvicinò un giovane diabetico e insicuro che gli propose la produzione di un film ambientato nello spazio. Il nostro tipo rifiutò, e Star Wars divenne leggenda. Insomma, chiunque abbia ascoltato queste tre storielle, ha subito reagito esclamando "ma questo è proprio uno scemo". E, invece, è William Friedkin, un regista "osservatore", di quelli cioè che usa la macchina da presa come fosse una testimone discreta, quasi trasparente, ma che poi sa anche spostare il climax di un'azione, smanettando a dovere le fasi di montaggio. Ancora oggi, il celeberrimo inseguimento del suo Il braccio violento della legge viene visto e rivisto da imberbi montatori per imparare l'abc della difficile arte del montaggio. William Friedkin ha scritto una bellissima autobiografia, tradotta coi piedi però, che riesce a raccontare contemporaneamente i propri pregi/difetti, la storia del cinema, la tecnica del cinematografare. È un libro ricco anche di aneddoti e di curiosità, senza che affatichino la lettura, ma che trascinano il lettore in un vortice di tante cose belle e saporite che vorresti non finissero mai. In più, dimostra fattivamente che la voglia di fare, il coraggio - e anche un minimo di incoscienza - vengono sempre premiati... in un ambiente che lo permette, figuriamoci. Se poi volete una guida all'acquisto dei dvd delle sue opere, vi consiglio (in ordine di gusto):
Festa per il compleanno del caro amico Harold (The Boys in the Band, 1970)
L'esorcista (The Exorcist, 1973)
Il braccio violento della legge (The French Connection, 1971)
Vivere e morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A., 1985)
Adoro Charlie Parker, uno dei pochissimi jazzisti sempre moderno, sempre attuale, con la rara capacità di essere ascoltabile qualsiasi mood avvolga il mio status mentale. Questo splendido saggio di Carl Woideck (edito dalla rigorosa EDT) è decisamente per addetti ai lavori, ricco com'è di partiture e di esempi molto complessi. Oltretutto, la biografia vera e propria viene sbrigata nel primo sedicesimo; il resto è un'analisi profonda dei quattro periodi artistici di Charlie Parker, arricchita da contestuali riferimenti storici e da una serie impressionante di spiegazioni dettagliate e articolate. Però la consiglio anche ai neofiti o a chi - come me - ha pochissima confidenza con la scrittura musicale. Woideck, insomma, riesce comunque interessante, confortato com'è dai suoi numerosi rimandi biografici, da un'aneddotica mai fine a se stessa, e dal saper collocare esattamente chi/come/dove gli altri grandi del tempo (Davis, Gillespie, Roach...). E poi - magari! - ti vien voglia di provare a seguire quei pentagrammi, di riascoltare questo o quel brano con accanto la pagina dedicata. Bel libro, bel libro davvero.
Non è un film eccezionale, ma ha numerosi momenti di rara intensità, in cui i personaggi e gli attori che li interpretano si confondono in una storia decisamente drammatica. Sicuramente la sceneggiatura tentennante e una malcelata presunzione del regista non riescono a raccontare bene il tema di fondo. Ma nell'insieme è un film che consiglio di vedere, nonostante si senta l'eccessiva durata; e parecchio, pure. Forse perché il tema di fondo mi ha colpito; forse perché Ryan Gosling è un eccellente attore (di quelli che escono fuori sempre più raramente); forse perché la trama si dipana per cerchi concentrici (inizio e fine si rincorrono con naturalezza); forse perché i tempi narrativi della seconda parte sono sicuramente più avvicenti della prima (balbettante e ovvia); forse perché si svolge in un'America quasi provinciale, comunque indolente e disarmante... forse, forse, forse... Quando scrissi la mia tesi sul cinema western americano degli anni '70, trovai più testi concordare sul fatto che lo spirito di frontiera aveva comunque bisogno della sicurezza femminile, della casa cui fare ritorno. Raramente, però, la figura del padre veniva fuori, se non quando si trattava di indicare l'esempio, il punto di riferimento per il proprio futuro, l'eredità da perpetuare... insomma, il padre americano sembrava qualcuno da rincorrere, più che qualcuno con cui vivere l'infanzia e l'adolescenza. Sicuramente è una formula vincente - perlomeno rispetto al mammismo latino. Ma se dentro il meccanismo finisce il granello di sabbia dell'irresponsabilità paterna, tutto salta. Il tema sta tutto qui, insomma. E che la critica nostrana non l'abbia percepito fino in fondo è perché forse siamo abituati a mangiare i nostri genitori, anziché imitarli e/o rincorrerli. Grande fotografia, ottime musiche, montaggio irrisolto (tranne un paio di piano-sequenza riusciti, specie quello iniziale), titolo originale che sarebbe piaciuto a Hemingway (The Place Beyond the Pines, che è la traduzione letterale dal nativoSchenectady, la cittadina in cui è ambientato il film).
Kathryn Bigelow è un piccolo grande genio: si sposta sempre in avanti, quasi disimparando quanto ha fatto prima, e rimettendosi sempre in gioco alla grande. Zero Dark Thirty non è un film: sembra un documentario, sembra un'asettica novella ben documentata, con la sapiente e centellinata aggiunta di una tensione in crescendo che alla fine si manifesta in tutta la sua forza, senza dare scampo allo spettatore ormai arreso. Eppure sappiamo tutti com'è andata a finire, conosciamo gli eventi quasi a memoria, ricordiamo certi fatti collaterali... ma non c'è niente da fare: la nostra regista riesce comunque ad inchiodarci sulla poltrona fino a quando Jessica Chastain non si lascia andare a lacrime più che legittime, sicuramente - e anche - allegoriche. Ad averne di film così. Ecco, il tema di fondo, però, fa male: può una democrazia difendersi anche con la tortura? Devo dire che in rete - perlomeno in lingua italiana - non ho trovato dibattiti sereni e intelligenti: o ci sono gli antiamericani che ragionano per schemi decisamente infantili, o ci sono i filoamericani che si affidano alla legittimità del risultato. Sicuramente è un problema spinoso. Del resto, personalmente ho sempre reputato indecente questo tollerare formazioni politiche smaccatamente parafasciste: andrebbero fatte a pezzi, senza tanti tentennamenti. Eppure, il significato della democrazia sta anche nel tollerare simili bestie. Per cui, e insomma, la democrazia sa perfettamente che a volte va declamata virtualmente per poi essere rinnegata pragmaticamente. La tortura ho consentito la cattura e l'uccisione di Osama Bin Laden. Trovare qualcosa di pragmaticamente democratico da contrapporre a questa reale realtà... è difficile. Certo, i cialtroni seduti sul divano di casetta propria potranno dire che una democrazia è espressione degli elettori, e gli elettori eleggono persone, e queste persone possono fare scelte politiche sbagliate, e queste politiche possono anche portare all'11 settembre, e questo tipo di attentati si rivolge anche contro chi ha votato certe persone. Contorto, ma democratico, ma anche assurdo. Per difendere la democrazia cosa bisogna fare, quindi?
È sempre piacevole vedere una persona decisamente matura capace ancora di mettersi in discussione, rivoluazionando addirittura il suo inconfondibile stile. E con questo intenso Lincoln, il nostro Steven Spielberg è riuscito addirittura ad andare oltre, regalandoci un'ottima prova di teatro cinematografico, senza sbomballarci con la staticità del primo, senza sparare gli effettismi necessari del secondo. Una regia in punta di fioretto, insomma, confortata ed aiutata da un sublime Daniel Day-Lewis, che ancora una volta sacrifica se stesso pensando solo al personaggio. L'unico difetto palpabile, traditore e irritante, è il pessimo doppiaggio italiano, nevrotico e privo di sfumature, che penalizza - e di molto - l'insieme dell'opera. Ad essere petulanti, non mi sono piaciuti certi bruschismi del montaggio; mentre, invece, la direzione della fotografia è stata addirittura raffinata. John Williams, poi, parla quel poco - e quel giusto - che deve fare, affidandosi spesso al solo flicorno, con note a metà tra il Dixie e il più noto Star-Spangled Banner.
Scene da incorniciare: quella estetica, quando Lincoln apre la finestra dello studio per godersi la vittoria annunciata dalle campane fuori campo; entra il figlio, e insieme svaniscono dietro la tenda in un gioco retorico e tenero di luci e amore paterno (chissà se c'entra qualcosa la nota foto di Kennedy con figlia). L'altra scena, tipicamente teatrale, vede Lincoln ragionare su squisiti principi di diritto, perché sa che il suo emendamento potrebbe essere surrogato da una più incisiva imposizione presidenziale, che però negherebbe quella visione della purezza democratica che fa parte dell'humus dei futuri Stati Uniti. Bello e importante come momento, anche perché i critici si sono soffermati sui mezzucci usati da Lincoln per coercizzare i deputati meno solidi, anziché ragionare su questo nodo più edificante: la democrazia si difende con la democrazia; anche la legge più nobile deve passare il vaglio del voto parlamentare. Altrimenti è una negazione in essere. Già...
Non è il migliore Redford, e non è neanche una delle migliori storie che abbia mai visto. Oltretutto, LeBeouf si dimostra il mediocre attore che è, automa contro le macchine, mediocre con gli umani. In più, c'è un finalino di consolazione poco plausibile, perlomeno oltre i confini dell'America più rigorosa. Sicuramente in Italia ci sarebbe stata la vittoria dei codardi, come del resto già ci dimostra la nostra provincialissima realtà.
Mi scuso in anticipo se con questo post mi rivolgo più a chi ha visto il film, piuttosto che sollecitarne la visione: la storia, infatti, scorre troppo a tratti, e gioca molto su conoscenze della storia americana che in molti potremmo non sapere.
Tenendo conto poi che il linguaggio e lo stile possono non "arrivare" del tutto: gli americani vedono gli Usa con una sacralità che noi ci scordiamo... in effetti, è questo il primo punto all'ordine del giorno: ma noi, un film così lo faremmo mai?
Ne dubito fortemente, per numerosi motivi. Il primo, perché la spregevole biografia dei nostri (ex?) terroristi sta lì a dimostrare che mai si sono presi le responsabilità per i gesti che hanno commesso, i morti che hanno causato o invogliato a causare.
Il secondo. Mentre negli Usa del periodo vietnamita c'era una cesura netta tra chi diceva no politicamente alla guerra e chi le diceva no violentemente, qui da noi terrorismo e nomenklatura intellettuale (e parlamentare) si conoscevano, si piacevano, si sono frequentati e si sono assolti in più circostanze.
Terzo motivo, corollario del secondo. Paradigmatico (e semplicistico, lo so), l'esempio di questi giorni: due parenti stretti delle vittime del terrorismo, messi lì a rappresentare la società civile (Tobagi e Ambrosoli, consapevoli/colpevoli della propria strumentalizzazione); gli (ex?) terroristi e figliame vario a occupare, invece, le più potenti leve della cultura e dell'informazione. Unica eccezione, Calabresi: ma è un raro caso di dignità storica e intellettuale, cui in molti dovrebbero chiedere scusa, ma non lo faranno mai.
Quarto motivo: da che mondo e mondo, il cinema italiano "impegnato" ha (quasi) sempre rappresentato lo Stato come nemico, e quindi anche come causa del terrorismo. Non è mai passato per l'anticamera del cervello di certi cialtroni che la lotta armata non ha giustificazioni: se è giusta, non è causata dallo Stato; e se è sbagliata, non è vittima dello Stato. Lo Stato è un valore da difendere, non da personalizzare.
Mi fa da supporto la conclusione del monologo di Susan Sarandon: "Abbiamo sbagliato, ma avevamo ragione". Il tempo dei verbi è illuminante.
Quinto motivo. Anche affrontando un evento delittuoso accaduto 30 anni prima la storia raccontata, questo film dice la sua contro il terrorismo, condannandolo senza alcuna giustificazione.
Noi oggi facciamo esattamente il contrario: il recente approccio di Benigni contro la diarrea repubblichina, è una variazione sul tema. Cioè: i vivi sbagliano, ma i morti sono uguali. E allora il cinema italico parte dal presupposto contorto che sono i morti causati da terroristi che vanno perdonati (!). Cioè, non sono i terroristi da biasimare, ma le loro vittime.
Penserete che sono fuori di testa, vero? Eppure non c'è un film italiano che abbia avuto la decente decenza di condannare il terrorismo senza pietà.
Ancora una volta, purtroppo in un campo più nostro che loro, gli americani ci danno una lezione di dignità, con un personaggio nodale, quello interpretato da un'incartapecorita Julie Christie: era sempre in fuga, consapevole delle proprie colpe; nel momento in cui la storia della Storia le chiede una prova di coerenza e di coraggio, anziché scappare verso l'anarchia, gira il timone verso la propria dignità e paga per le sue colpe.
Onestamente non so dire come mai abbia acquistato questo libro, e perché lo abbia divorato in pochi giorni: non capisco nulla di basket, né tantomeno amo le biografie degli sportivi (tranne certi ritratti sui quotidiani, che ormai non si leggono più). Oltretutto è scritto male, tradotto malissimo e con degli errori di tipografia che neanche mio nipote... però mi è piaciuto, e molto pure.
La storia del limpido ed agonistico confronto a distanza tra Larry Bird e Earvin "Magic" Johnson ti cattura dalla prima all'ultima pagina, lasciandoti esultare o soffrire insieme a personaggi veramente lontani dalla nostra cultura italica, che di agonistico ha nulla, e di competitivo ben poco.
Insomma, ne consiglio caldamente la lettura... e ancora non so il perché.