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07 settembre 2023

NOVE VITE E DIECI BLUES di Mauro Pagani (Bompiani)

Raccontare sé stessi prima che la perdita della memoria prenda il sopravvento: così è nato questo delizioso libro che si lascia leggere tutto d’un fiato.
Mauro Pagani, insomma, si è svegliato una mattina e ha cominciato a non ricordare molte cose del suo passato. Che poi sia riuscito ad arginare questa emorragia di ricordi grazie a una lunga terapia, fa veramente piacere; ma alla fine proprio questo dramma scongiurato ha permesso a noi appassionati di leggere e conoscere e riconoscere artisti e momenti veramente unici e irripetibili.
Come scrittore, Mauro Pagani riesce nella nobile impresa di dimenticarsi di essere un grande, scendendo amabilmente tra noi comuni mortali per regalarci storie e aneddoti di un periodo glorioso della musica italiana. Anni in cui c’erano nomi e canzoni e produzioni che fanno venire la pelle d’oca ancora oggi (Battisti, Stratos, De André, la Premiata Forneria Marconi, Guccini, per citarne alcuni), e che forse farebbero bene a quei ragazzetti che crescono solo con Ghali, Madame o Ultimo, esserini minuscoli a confronto dei mostri sacri con cui ha collaborato Pagani.
Un libro genuino, divertente, anche commovente, ideale per chi ama la musica e le belle persone.

02 marzo 2012

Che mondo sarà se ha bisogno di chiamare Superman (#Dalla)

Insieme a quella di "Avventura" (Salty Dog dei Procol Harum), la sigla di "Eroi del fumetto" fa parte della mia generazione, e anche di quelle precedenti immagino: una timida ed educativa Rai sfidava la cultura anticomics tipicamente cattocomunista, proponendo un contenitore che ci fece conoscere gli eroi di Schultz, Asterix, quelli della Marvel e della DC Comics.
Potrei dire che insieme a "Carosello" appartiene a quei rari momenti magici della mia infanzia dove potevo sognare ad occhi aperti, imbambolandomi davanti allo schermo in bianco e nero.
Già: terribile questa storia che i ricordi dei ragazzi degli anni '80 sono a colori; i nostri in bianco e nero...
Ovviamente a quei tempi non potevo certo sapere che l'autore/cantante fosse Lucio Dalla, lo stesso che mi ammaliò con alcune perle indimenticabili, e che poi caratterizzava i miei lunedì cinematograficotelevisivi con una delle più belle sigle mai ascoltate negli anni a venire.
Del resto, chi mi conosce sa che mai ho sopportato la musica italiana: troppo intenta a seguire le parole e poco incline a rispettare la musica, la melodia, gli arrangiamenti.
Insieme a Lucio Battisti (quando si dice il nome, eh?), Lucio Dalla ha letteralmente regalato alla tradizione italica un modo diverso di raccontare storie, stando sempre molto attento alla confezione dell'opera, a tutte quelle parti che ad un primo ascolto non si notano, ma che invece rendono quel brano eccezionale.
A Lucio Dalla mi sento di attribuire un elemento che raramente ho trovato tra gli autori italiani (persino Battisti ne era privo): la leggerezza. Una sontuosa e calviniana leggerezza.
Il difetto nostro è che spesso cantiamo dietro ai nostri beniamini senza renderci conto dell'esatto significato delle parole. Lette in prosa, certe cose di Dalla sono disarmanti, terribili, dolorose, "di denuncia" direbbe qualche fighetto. Eppure, tale era l'arguzia con cui le argomentava musicalmente, che sembrava di cantare un'ode alla luce anziché ai piccoli e grandi drammi della vita.
Un'ultima considerazione: Lucio Dalla è mia sorella, la maggiore delle tre. Una persona delicata e forte che tanto avrebbe meritato dalla vita, e che spesso ha subito torti e angherie ben superiori alle sue (presunte) colpe. Appena ho saputo che Dalla era morto, ho pensato a lei. E il bello è che mi sono dispiaciuto più per lei, per quel suo passato che se ne andava, per quelle mille volte che ha condiviso la sua solitudine con questa bellissima canzone.


So long, Lucio, so long.