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28 marzo 2022

NO, NON SONO ANCORA MORTO di Phil Collins

Parlare di questa autobiografia adesso, proprio quando Phil Collins ha annunciato il suo triste ritiro dalle scene, è voluto.
È voluto perché è un libro bellissimo, che va letto proprio a ridosso di questa scelta così dolorosa (con quella foto che primeggia, che fa proprio male): solo così potrete apprezzare al meglio una delle voci più belle che mai abbia avuto il pop, un incredibile batterista (che col tempo ha sacrificato certe sue incredibili capacità), un istrione smisurato, ma totalmente incapace di tirarsela più di tanto. Anzi, sono convinto che se Phil Collins fosse stato furbo e bbbono come il pane, oggi ne parleremmo con un approccio quasi divinatorio.
È un libro a tutto tondo, che affronta le vicissitudini della vita privata, il rapporto con i Genesis, con altri artisti, i suoi mostri interiori. Va detto che sia il processo compositivo che quello meramente tecnico sono purtroppo sacrificati; quasi non se ne parla. Il che, comunque, è un peccato, perché Collins è stato un innovatore, trasformando la batteria in uno strumento leggero, quasi soffuso, altamente spettacolare ma mai fine a se stesso. 
Se volete un esempio, uno tra tanti, seguitelo mentre "corregge" Bill Bruford nel "Cinema Show" eseguito dal vivo e riportato nel monumentale Seconds Out.
Senza suggerirvi di spararvi "Seven Stones", "Can-Utility and the Coastliners" o "Supper's Ready", dove tira fuori dei pattern pazzeschi, provate a seguirlo quando fa le canzoni più semplici, tanto odiate dai noiosissimi filogabrieliani (pallosi come un accordo di Allevi): c'è sempre un'intuizione, un suggerimento, un qualcosa che trasforma persino quel miserrimo 4/4 in una piccola cattedrale di qualità.
Ma Collins è stata anche un'ottima voce, che ha saputo raccontare gli anni '80 con studiata sapienza, riempiendo le nostre giornate con canzoni potenti. Sicuramente, in alcuni momenti ci ha anche sfracassato le scatole con modelli compositivi sovrapponibili, ma sono cosucce che gli si perdona, perché con questo libro Phil Collins ha dimostrato di essere un eccellente modello di umanità; un'umanità così dolce e autentica, che quasi legittima certe uscite leggermente infelici.
Sarà che io sono legato anche a cose facili facili, tipo questa, questa o questa, ma provo un intenso dolore a immaginarlo là, solo con se stesso, incapace di camminare, cantare, suonare.

20 gennaio 2015

King Crimson "Live At The Orpheum", una recensione contrastante

Dopo il dichiarato ritiro dalle scene del 2012, non mi aspettavo il ritorno di Robert Fripp, perlomeno nella sua veste di sacerdote (e dio creatore) dei King Crimson, per un motivo quasi banale: non è nel suo stile... come non è nel suo stile, però, dire una cosa e mantenerla.
Fatto sta che le motivazioni del suo ex ritiro (un'apocalittica causa contro una major musicale), secondo me malcelavano anche una sorta di consapevolezza che le idee ormai erano venute meno... addirittura sin dai tempi dell'ep Vroom (1994), prodromo del grossolano THRAK (1995), da cui avrei salvato solo Dinosaur, noto j'accuse contro chi ha forzatamente catalogato come progressive la musica e la filosofia dei King Crimson (anche se qualcuno non l'ha mai capito).
Ebbene, neanche il tempo di piangere tali dichiarazioni, che a metà del 2013 scopriamo che i King Crimson sono tornati. Va detto che ci sono state delle formazioni interlocutorie prima di quella che andiamo a leggere. Però non vi voglio tediare.
Ben tre batteristi davanti agli altri musicisti: Gavin Harrison - già coi Porcupine Tree; Bill Rieflin - ex R.E.M., ma anche sperimentatore appassionato; Pat Mastelotto - banale rockettaro dell'ultimo ventennio frippiano (più pesante e prevedibile dell'Alan White degli Yes; il che è tutto dire).
Dietro questa messe di rullanti, tom, piatti e grancasse, troviamo: il fidato Tony Levin (basso e stick), l'affidabile Mel Collins (ance e ottoni), l'incompleto Jakko Jakszyk (voce e chitarra), e ovviamente il nostro Robert Fripp.
La prima cosa che balza all'occhio è la nuova grafica: molto tavola periodica, molto Breaking Bad (!), ma anche indizio di una lettura frippiana di questa nuova line-up. Sembra quasi voler dire: questa formazione rappresenta la base alchemica di tutto ciò che ho creduto fossero i King Crimson, gli elementi basilari della chimica creativa di questi otto lustri di grandissima musica.
Lettura forzata, lo so. Ma mi piace raccontarla così.
La seconda è il repertorio proposto in questo Live At The Orpheum: One More Red Nightmare e Starless (da Red - 1974, ultimo lavoro del secondo periodo crimsoniano), The ConstruKction of Light (dall'opera omonima - 2000, penultima del penultimo periodo crimsoniano), The Letters e Sailor's Tale (da Islands - 1971, ultimo lavoro dal primo periodo crimsoniano, anche se in molti la considerano un'opera a parte).
Da tutto il vastissimo repertorio, insomma, Fripp è andato a sfrugugliare titoli da seconda linea, quasi per addetti ai lavori. A parte Starless, insomma, siamo di fronte a materiale rischiosissimo, per almeno due motivi: poteva sembrare "datato", merita un'accuratezza tecnica decisamente probante. The Letters, poi, è quella che più esige un approccio filologico.
Eppure, e alla fine, le cose sono andate bene. Con un paio di "però" che vanno raccontati.
Il primo è che le tre batterie lavorano troppo all'unisono, perdendo la sacra opportunità di lavorare sui contrappunti (come capitò al duo Bruford-Mastellotto, per esempio). Giusto su Starless ci scappa qualcosa, ma per il resto non si percepisce (nel senso letterale del termine) alcun lavoro di completamento e/o di provocazione.
Il secondo "però" è la voce di Jakszyk: pura acqua cheta. Già nel progetto Scarcity Of Miracles si capiva che il tipo non si attagliava col crimsonismo. Qui, poi, siamo addirittura caduti nel suicidio ricercato, accidenti!
Però, signore e signori, che meraviglia di modernità: tutte le canzoni sembrano composte due minuti fa. In alcuni momenti si arriva a un riuscitissimo connubio tra la "serialità metal" di Fripp e certe idee jazz raffinatissime (questa versione di The ConstruKction non avrebbe sfigurato in una qualsiasi edizione di Umbria Jazz, per dire). 
Mel Collins è in raro stato di grazia, Tony Levin gioca con tutti (tranne che con le tre batterie, per fortuna) sbagliandomi pure un passaggio nodale su Starless (ma va bene così), Fripp è sempre più essenziale.
È, insomma, un signor cd che finisce troppo presto e che lascia intravedere una voglia di scommettere su qualcosa. Paradossalmente, spero si evolva in un progetto di cover piuttosto che di inediti. Staremo a vedere.


06 febbraio 2014

frammenti di Dream Theater

Certo, penserete, questo è matto: ama il jazz, la bella musica, ma poi si spara anche i Dream Theater nelle orecchie. Sarà... ma non ne colgo la differenza. Ufficialmente, il loro si chiama metal progressive; io, affettuosamente (e romanamente) la chiamo musica cafona; anche se dubito che i cafoni sappiano andar oltre l'apparente casino della chitarra di Petrucci e delle tastiere di Rudess.
Eppure, fossi in voi, una capatina dalle loro parti la farei; specie se siete ex/già appassionati di Yes, King Crimson e Queen.
Per lustri, il gruppo ha girato intorno a un batterista prodigioso quale solo sa essere Mike Portnoy; da due uscite discografiche, però, gli è subentrato Mike Mangini. Nella prima (A Dramatic Turn of Events) si sente che pativa cotanta eredità: il suo batterismo è di mestiere (e che mestiere, ovviamente), e molto attento a non strafare.
In questo nuovo lavoro (che, guarda caso, porta il nome del complesso), Mangini dice la sua in maniera veramente interessante, con un'identità e una verve che anche il meno esperto di drumming saprebbe percepire con un superficiale ascolto.
Intendiamoci, Dream Theater non è la migliore opera del complesso (siamo a dodici): sa molto di già sentito, e in più di una circostanza risulta stancante e faticoso. Però è su Mangini che vi consiglierei di concentrarvi, perché fa un lavoro eccellente e probante di rara qualità.
Certo, si capisce quanto Rudess soffra l'assenza di Pornoy (notoriamente tastierista e batterista hanno un'intesa quasi simbiotica), tanto che i suoi solismi sono poco indaginosi e a ridosso delle partiture di Petrucci. Però il gruppo c'è, e potrebbe dire ancora qualcosa.
Se non volete acquistarlo integralmente, vi consiglio di provare la lunga suite Illumination Theory. Per i fan puri è poca cosa (l'incipit ricorda Sheer Heart Attack dei Queen, e il resto si divincola tra Octavarium e Six Degrees of Inner Turbulence), però funziona. 
Specie per i due minuti abbondanti della parte III (quella centrale) dal titolo The Embracing Circle: si apre con effetti synth sovrapposti a un didgeridoo con un leggero delay, e poi...



31 dicembre 2012

#UmbriaJazz Giovanni Guidi Trio, algida gioventù

Le malelingue vogliono che il giovanissimo pianista goda di tanta attenzione perché figlio di un componente l'entourage di Super Rava.
Che sia vero o no, Giovanni Guidi ha molta strada da fare, forse tanta. Una mano sinistra quasi assente, timidi jarrettismi senza l'arroganza necessaria, mani troppo vicine e nascoste nelle due ottave centrali, schemi audaci ma senza guizzo decisivo.
No, non vuole essere solo una feroce stroncatura senza speranza. Semmai una stoccata irritata per un inizio poco rispettoso verso il pubblico: non si parte, cioè, con un pezzo di un quarto d'ora abbondante di jazz freddo alla Ecm (mitica etichetta che lo ha cooptato per un'imminente uscita su cd); non si fa, specie quando si deve raccontare (e raccontarsi) qualcosa a un pubblico smaliziato quale è quello di Umbria Jazz.
È vero che quando si è giovani si tende a strafare. Ma chi lo produce dovrebbe suggerire un minimo di umiltà e di senso della misura.
Tra gli standard proposti, buona lettura della "By This River" di Brian Eno (la conoscete grazie anche alla "Stanza del figlio" di Moretti), molto simile a quella del Martin Gore di "Counterfeit 2". In più, deliziosa versione del classico "Qui sas qui sas qui sas".
Concerto interessante, quindi, ma niente di più. Da segnalare solo l'ottima prova di Joao Lobo, batterista riflessivo, puntuale e raffinato, di quelli che sanno quando parlare e quando stare in disparte.

30 dicembre 2012

#UmbriaJazz Morelenbaum, il Brasile nostalgico ma non piagnone

Per chi ama il genere, i Morelenbaum possono essere un bene; per chi non lo ama, sono meglio. Il motivo è da esplorare con l'attento ascolto: Jacques Morelenbaum frequenta la bossa nova senza prona liturgia, ma con la voglia di renderla fresca e attuale senza snaturarla delle sue radici più profonde (e sofferte, considerando le mortali censure subite dai grandi che l'hanno regalata a noi).
Insomma, il tropicalismo diventa pretesto per raccontare il Brasile tutto, anche con strumenti canonicamente europei (il violoncello in primis), senza perdersi nei meandri irritanti del facile ritmo con le spallucce borghesi o di una cerveza bevuta senza gusto.
Buon concerto, insomma, con insoliti picchi solistici (lui accarezza le corde con maschile deferenza) e vocalismi corretti ed eleganti. Da segnalare la sobria e metronomica batteria di Marcelo Costa con ricchi controtempi, sempre discreti, sempre raffinati.
Ad essere pignoli, la voce di Paula sente il peso della maturità e andrebbe riregistrata dentro stanze musicali più appropriate. Carino e curioso il cameo vocale della figlia Dora, voce fotocopia della mamma, ancora timida e insicura, ma dalle interessanti prospettive.
Brani? I classici di sempre, più alcune cose di Donato e Morelenbaum. No, niente "Garota de Ipanema" - per fortuna - ma una "Insensatez" da pelle d'oca e una "Manhã de Carnaval" da lacrime di gioia.

10 gennaio 2012

memorie di Adriano (Celentano ad #UmbriaJazzWinter)

Onestamente, neanche io avrei mai saputo immaginare le canzoni di Adriano Celentano in versione jazz: più che un'incosciente forzatura sembrava una grossolana trovata commerciale. Eppure la formula ha funzionato; egregiamente, direi.
Innanzitutto, grazie a una formazione di altissimo livello: Peppe Servillo, voce; Javier Girotto, ance; Fabrizio Bosso, tromba; Furio Di Castri, contrabbasso; Rita Marcotulli, pianoforte; Mattia Barbieri, batteria. Poi, perché l'ambiente calzava perfettamente: il languoroso e affascinante Teatro Mancinelli di Orvieto. Infine, perché giocare con le partiture di un musicista così fuori dagli schemi, può diventare addirittura una lezione di musica e di apertura mentale, specie per quelli come me che ascoltano di tutto, ma che non sopportano le cose ovvie (come solo sa essere da troppo tempo la forma-canzone italiana).
All'inizio il meno in linea è sembrato proprio Servillo: voce senza mantice e con una pessima amplificazione. Poi, però, grazie anche all'incontrollabile Bosso, la serata è decollata verso livelli inarrivabili quanto compatti. Sembrava non avessero fatto nient'altro che quelle canzoni, e da sempre.
Va detto che l'unica a restare quasi sempre in disparte è stata la Marcotulli; forse perché la potenza di fuoco sonoro dei due fiati impediva altri individualismi; forse perché la signora del piano preferisce mantenersi entro i limiti della rifinitura e del fraseggio essenziale.
Bosso, dal canto suo, ha dimostrato di essere in uno stato di grazia; così come Girotto, che ha miscelato sapientemente un'ottima direzione musicale con dei solismi sempre all'altezza del suo prestigio.
Ottima la sezione ritmica: più interessante Barbieri (sontuoso, nonostante la giovane età) che Di Castri (ma anche qui la singhiozzante amplificazione ha qualche responsabilità).
Insomma, se doveste trovare nei cartelloni della vostra città questo bislacco progetto, spendeteci i soldi che vi chiedono: ne vale la pena.

24 febbraio 2010

Bill Bruford o Braford o come diavolo si dice

Per andare avanti ho bisogno di scrivere un libro
Detta da un folle e sorridente batterista che ha suonato per 41 anni di fila, sembra quasi una provocazione.
Ma il fatto è un altro: esattamente un anno fa Bill Bruford ha appeso le bacchette al chiodo, dicendo basta alla sua carriera musicale, e come reazione psicologica ci ha regalato questa impeccabile autobiografia, ricchissima di informazioni storiche, tecniche, artistiche, sociali e aneddotiche.
Leggeremo della sua lunga carriera con mostri sacri come Yes, King Crimson, Earthworks e molto altro: nomi che farebbero tremare i polsi a chiunque e che hanno segnato la storia della musica non solo progressive, non solo rock, non solo contemporanea.
E lui, il biondoroscetto che non sai come si pronuncia, stava sempre lì, a raccogliere e a donare esperienze musicali e umane che hanno lasciato il segno e indicato percorsi in parte ancora inesplorati.
Una perla rarissima che dovete acquistare di corsa prima che sparisca nel limbo delle cose dette.



22 gennaio 2010

Peter Gabriel scende tra noi

L'uomo sorprende sempre.
Il 15 febbraio esce il suo nuovo lavoro, ma di cover, di canzoni altrui insomma, prodotte e arrangiate per orchestra da Bob "The Wall" Ezrin (niente chitarre, bassi o batterie).
Il titolo del lavoro (Scratch My Back) è lunghissimo rispetto agli standard cui eravamo abituati.
L'idea originaria prevede(rebbe) uno scambio di l(f)avori: lui canta classici degli altri e gli altri quelli suoi.
Nonostante in genere il ritardatario sia lui, questa volta ha preceduto tutti, mentre tutti sono ancora al palo e non hanno ricambiato il favore. Certo, Bowie si è ritirato (causa cuore scricchiolante), ma gli altri devono rispondere. 
Ecco la lista
  1. "Heroes" (David Bowie)
  2. "The Boy in the Bubble" (Paul Simon)
  3. "Mirrorball" (Elbow)
  4. "Flume" (Bon Iver)
  5. "Listening Wind" (Talking Heads)
  6. "The Power of the Heart" (Lou Reed)
  7. "My Body Is a Cage" (Arcade Fire)
  8. "The Book of Love" (The Magnetic Fields)
  9. "I Think It's Going to Rain Today" (Randy Newman)
  10. "Après moi" (Regina Spektor)
  11. "Philadelphia" (Neil Young)
  12. "Street Spirit (Fade Out)" (Radiohead)
Se cliccate qui potrete ascoltarne qualche estratto, presentato dalla sua voce sempre calda sempre affettuosa.
Dimenticavo: è previsto un tour. Per ora delle nostre città nessuna traccia, ma sarebbe veramente interessante ascoltare i suoi classici riarrangiati per pianoforte e orchestra. Brrrrr....

19 giugno 2009

il libro che non t'aspetti

La famiglia Marsalis ha tanti componenti quanti sono gli strumenti basilari di un'orchestra jazz (basso escluso, ma poco importa): Branford (sassofoni), Jason (batterie), Delfeayo (trombone), papà Ellis (piano) e Wynton, trombettista di cui parlerò brevemente in questa sua curiosa veste di saggista.
Come il jazz può cambiarti la vita è uscito qualche mese fa. Ma finché non era uscita la recensione entusiasta di Musica Jazz non mi ero azzardato ad acquistarlo, tanti sono i saggi scritti da jazzisti notevoli che poi però si rivelano essere pessimi scrittori.
Qui, invece, siamo di fronte a un testo che oserei definire addirittura essenziale dal punto di vista musicale, sociale, e della cultura più in generale. Non solo per la ricercatezza dei termini usati (vivaddio passati indenni da una traduzione curata male), ma per la pertinenza delle critiche e delle analisi, sia sui grandi musicisti di sempre che su alcuni elementi fondamentali del jazz. È veramente una gioia dello spirito intrattenersi con questo umile ma consapevole artista, veramente una gioia.
Non manca un capitolo dedicato ai grandi maestri verso i quali Wynton sente di avere più di qualche debito: Louis Armstrong («Il suo suono ha il potere di guarire»); Duke Ellington («Un tocco della sua mano sul pianoforte e la luna entrava in una stanza»); Billie Holiday («Se metti del sale in una bevanda dolce la rendi più dolce, ma se aggiungi zucchero all’amaro diventa ancora più amaro: così era Billie»); John Coltrane («Qualcosa nel suo suono ci penetra con la compassione della bellezza più pura e sublime»).
Grande riconoscenza anche per Ornette Coleman, per John Lewis e per Thelonious Monk, ma nessun cenno verso il gigante Charles Mingus.
Qualche spigolo verso Miles Davis, cui Wynton riconosce grande genialità, ma anche l'essere un carnefice «dell’adulazione e del mercantilismo». Insomma, il Davis del grande ritorno non dice nulla, anzi è addirittura deleterio e poco esemplare Il meglio, quando è corrotto, diventa il peggio»).
E - diciamolo - ci vuole coraggio a saper cogliere un aspetto così visibile di Davis ma che in pocchi hanno avuto l'onestà intellettuale di dire apertamente.

27 febbraio 2007

un altro genio
se n'è andato

All'età di 67 anni, il 22 febbraio scorso è morto Ian Wallace, uno dei più interessanti batteristi britannici.
In molti lo conoscono per aver millimetrato il ritmo in Islands, discusso capolavoro dei King Crimson. Sembra cinico, ma chiunque abbia militato nella temporanea formazione che diede vita a questo condensato di jazz, rock e musica contemporanea, deve morire prematuramente. A settembre, infatti, ci aveva lasciato Boz Burrell, il cantante/bassista.
Ian Wallace ha suonato con Alexis Korner, Ten Years After, Humble Pie, ma soprattutto con Bob Dylan. Ricordo anche alcune collaborazioni 'minori' (si fa per dire) con Ron Wood, Don Henley, Crosby, Stills & Nash, Jackson Browne, Traveling Wilburys e Tim Buckley.
Conosceva lo strumento come pochi e riusciva ad essere personale e affidabile al tempo stesso. Su YouTube esistono solo interpretazioni tipicamente rock (e il proprietario dei video non fornisce il codice embadedd), ma se avete tempo e soldi vi consiglio di cercare in rete la sua ultima fatica, tipicamente jazz: il Crimson Jazz Trio, che - come dice il nome - si riferisce alle opere dei King Crimson, rileggendole però in chiave libera e senza vincoli strutturali.
Oppure potete scaricarvi qualcosa da qui. È poco, magari datato, ma è un buon modo per salutare un grande della musica di sempre.

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14 novembre 2006

un genio sconosciuto


Solo l'altro ieri ho scoperto che il 28 agosto scorso è morto Philip "Pip" Pyle, uno dei più grandi batteristi del panorama musicale britannico anni '70.
Il bello è che nessuno ne ha parlato. Forse perché tali e tante sono le mistificazioni nel/del mondo dell'Informazione, che non ci si rende conto di quanto sia fondamentale celebrare questi (apparentemente) perfetti sconosciuti.
Pensateci bene, se ciò accadesse, maggiore sarebbero la vastità e la scelta della cultura a disposizione, e maggiore sarebbe la qualità percepibile, con un corollario convincente di spontanea selezione naturale. Se i giovani d'oggi ascoltassero più musicisti e più generi musicali, crescerebbero culturalmente e intuirebbero con maggior facilità i bluff e i buffoni. E non per forza dedicandosi alla cosiddetta musica "colta", ci mancherebbe.
Fino a un ventennio fa, per le radio inglesi era fatto d'obbligo proporre almeno un 30 % dal vivo della musica trasmessa. Il che costringeva gli artisti a cercare l'eccellenza, a migliorarsi e a studiare. Altrimenti perché abbiamo cicli su cicli di invasione musicale britannica? E perché l'industria musicale del Regno Unito è così (in)credibile? Aggiungeteci il fatto che da sempre in quelle scuole viene insegnato l'abc di almeno uno strumento base, e che per i protestanti la musica e il canto favoriscono l'avvicinarsi al mistero divino...
Pip militò in numerosi gruppi musicali della cosiddetta Scuola di Canterbury che determinò un filone essenziale della musica britannica degli anni '70, stanco dei bigliettini da viaggio dei Beatles, pronto invece a lasciarsi andare alle ricerche minimaliste, agli esperimenti di Miles Davis e alla dodecafonia. Un misto di jazz, rock e musica contemporanea segnato comunque da un languoroso rispetto per la melodia, accompagnato e a volte preponderato da un'assoluta ricercatezza nel tessuto compositivo.
I migliori di quegli anni furono: Gong, Caravan, Hatfield and the North, Soft Machine, Keith Tippet Centipede, i secondi King Crimson... Pip (in)segnò un batterismo fatto di pulsioni e di contrappunti, assolutamente all'avanguardia. In più era uomo gioviale e entusiasta, pronto a discutere e a mettersi sempre in discussione.
Ritrovare quei capolavori (tradotti poi in cd) potrebbe sembrare difficile, ma se avete pazienza e voglia il negozietto di appassionati sotto casa vostra potrà darvi una mano. Altrimenti andate a Bergen, Norvegia, dove ne ho trovati a mucchi, sperperando quasi un mese di stipendio. Certo: il volo costa, l'albergo pure, ma Pip merita questo ed altro.