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24 gennaio 2014

#TheCounselor, un film da dimenticare

Ti chiami Ridley Scott e sai escogitare inquadrature incredibili, e hai anche un inimitabile senso dei tempi narrativi.
Ti chiami Cormac McCarthy, e scrivi ottimi romanzi da cui è quasi spontaneo tirar fuori sceneggiature eccellenti.
Ti chiami Pietro Scalia, e sei tra i primi dieci montatori di tutti i tempi.
Ti chiami Michael Fassbender, e sai recitare alla grande (e sei pure bono e interessante al tempo stesso).
Ti chiami Javier Bardem e sei tra i pochi attori spagnoli con un viso che non ricorda canonici rodei e nacchere...
Insomma, comunque ti chiami potresti fare solo che un ottimo film. E, invece, The Counselor - Il procuratore è proprio venuto male. E di brutto pure.
Lento, ovvio, banale, privo di suspense, con un finale così scioccherello che potreste scriverlo anche voi dal tinello di casa, mentre vostra moglie sbollenta il cibo di due giorni fa.
Addirittura, la distribuzione dei ruoli è così sconclusionata che mia moglie ha interpretato quello di Brad Pitt in un modo, e io nell'altro: il bello è che coincidono comunque.
La Cruz si conferma la madrina del club Le insopportabili.
Bardem si è dimenticato di svestire il ruolo di villain che aveva in 007 SkyFall.
Alla Diaz, invece, è sfuggito il chirurgo.
Infine, Fassbender riesce a fare la figura del fesso (perennemente fesso, eh!).
Tra le curiosità spicciole: l'iniziale danza sessuale tra le lenzuola è identica a quella di Identificazione di una donna (ci fosse un critico che se ne sia accorto); è la prima volta nella storia del cinema in cui Brad Pitt non mangia e non si succhia poi le dita; c'è una brevissima e deliziosa inquadratura di Fassbender che guarda un poster con... Steve McQueen (l'attore, non il regista); il doppiaggio supera la follia quanto un banchiere chiede a Cameron Diaz "ti mancano le tue cìta?" (in inglese il ghepardo si chiama, appunto, cheetah).
Peccato.

09 giugno 2010

the road

Caro Aldo Fittante,
esistono film che colpiscono al cuore perché è nella loro stessa essenza questa capacità di saper dire qualcosa, al di là del nostro giudizio, al di là del nostro inserirci dentro esperienze più o meno personali.
Esistono poi quei film che fanno appello allo spettatore in maniera più o meno aggressiva (dove spesso questa aggressività è elegantemente dissimulata), costringendolo a porsi delle domande assolute, spesso devastanti perché alla fine la risposta non c'è, perché non abbiamo neanche il coraggio di dircela nel più profondo del nostro inconscio.
Ricordo l'ottimo 28 settimane dopo, la scena iniziale, dove il nostro antieroe abbandona la moglie e un bimbo al fato di una morte sicura e orribile perché ne va della sua stessa sopravvivenza. E dire che in fondo era "solo" un film dell'orrore (che poi quant'è stancante e sciocco questo ghetto delle classificazioni tutt'altro che tecniche, ma invece molto salottiere).
Ebbene, ho visto The road, in una sala romana totalmente vuota nella suggestiva parentesi popolana della Trastevere migliore. Dire che è un gran film non è forse giusto, perché un film grande deve avere molte magie insieme e anche quelnonsoché di meccanismo perfetto e imperfetto al tempo stesso che ne caratterizzi il successo e la mitizzazione.
Oltretutto è un film che si autocostringe ad affidarsi a singoli episodi per riuscire a restituire allo spettatore inerte quell'indescrivibile sapore amarissimo del vivere dopo una distruzione così totale. E gli episodi si altalenano a cose possibili, eventi inverosimili, e situazioni limite che hanno decisamente bisogno della voce fuori campo per essere cuciti a dovere.
Ma è un grande, grandissimo film quando ti pone di fronte alle domande assolute. Noi che ci conosciamo tramite solo cordiali e affettuose mail, come ci saremmo comportati l'un contro l'altro nella scena - per esempio - del nero che ruba tutto mentre il bimbo dorme? Io ti avrei minacciato pur di difendere la mia donna, e tu avresti fatto la stessa cosa: e magari con un cinismo e una cattiveria di cui noi stessi ci saremmo sorpresi. O sbaglio?
Dire "siamo arrivati a tanto" forse non è nemmeno intelligente, come del resto non è stato onesto ritardarne l'uscita perché dalla "trama triste". In fondo noi dobbiamo convivere con questo lato del nostro spirito, un lato così selvaggio e doloroso che ci ricorda sempre - e ci dovrebbe sempre ricordare - che è un gran pregio essere quello che siamo fuori dall'oscurità, che però ogni tanto dobbiamo visitare i meandri della nostra ferocia per saper apprezzare meglio questa nostra modernità e questa nostra umanità.
Paradossalmente il personaggio di Viggo Mortensen - un "papà" straordinario - riesce comunque a mantenersi umano - nonostante certi gesti efferati e gratuiti, a credere in una profonda religiosità laica (e io, lo sai, sono ateo) che va al di là di tutto, che sa sopravvivere al cannibalismo fisico e concettuale, che sa vedere oltre la miseria più miserabile, per costruire una speranza fatta di conquiste e non di sciatto attendismo.
Mi ha colpito The road perché mi son trovato di fronte alle mie reazioni, al mio "what if", ma soprattutto mi ha disarmato perché immaginando una situazione simile mi son sempre sentito un eroe alla Charlton Eston di Occhi bianchi; mentre invece la realtà è di ben altra consistenza e The road l'ha saputa far immaginare.
E poi i suoni sui titoli di coda: ne vogliamo parlare? Sono la concessione di un finalino buono e imbelle, o il leggero frusciare di una pellicola proiettata chissà dove che ricorda un passato ormai devastato?
Un saluto,
Alessandro