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17 aprile 2025

LA ZONA D'INTERESSE, una recensione

Credo sia difficile saper raccontare un incubo: tante e tali sono le sue parti non visibili, che invece sono le più potenti, le più crudeli, quelle che ti svegliano con il sudore dell'anima appiccicato addosso e un corpo invece freddo ed esausto, con le tempie che sembrano scoppiare.
Certi incubi, se li racconti con le semplici parole, sembrano così surreali da non suscitare nulla nel tuo interlocutore, se non un'incredulità di facciata, quasi cortese. Anzi: se provi a dire che sono realmente accaduti, vieni guardato con occhio triglioso, scettico, compassionevole.
Ecco, La zona d'interesse (2023) è il dietro le quinte di un incubo di questo tipo, perché racconta la microquotidianità di una famiglia di nazisti, quella di Rudolf Höss, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz. La Shoah non la vedi, sembra uno sfondo scenografico cui potresti abituarti. 
Con il lento incedere della proiezione, il fiato si spegne sempre più, perché vorresti dire ai protagonisti di guardarsi intorno, di misurare quello scempio, di non portare anche i figli dentro la grotta del male.
È un film che forse ha nel suo punto di partenza la sua piccola e unica debolezza, perché dà per scontato che lo spettatore conosca quell'abominio, quella storia; mentre, invece, gli eventi di questo ultimo lustro ci stanno dicendo che ricordare la Shoah è una prova di forza contro l'indolenza degli anni che passano, che trasformano tutto in poche righe di riassunto sui sussidiari dei liceali, sempre che qualcuno abbia voglia di insegnare o di leggere queste righe.  
Bastava una leggera premessa, un avviso, un qualcosa che avviasse lo spettatore dentro al contesto. Altrimenti il cinismo dei personaggi diventa inverosimile (proprio perché sembra un incubo) e la realtà realmente accaduta appare quasi cinematografica (proprio perché incredibile). 
Comunque, ne imporrei la visione a tutte le scolaresche, magari con una legge comunitaria, perché è un film che fa più male di quanto si creda, che sa raggiungere anche le menti duttili o vacue o egocentriche, come sono (e devono essere) quelle dei giovani.
Superba la scelta musicale e dei suoni (un vero e proprio attore fuori campo), entrambi di rara pertinenza. 
Ottima la direzione fotografica. A latere: le scene all'aperto sono state girate con più telecamere contemporaneamente, opportunamente nascoste nella scenografia, per consentire agli attori di costruire genuinamente i propri sentimenti, senza dover pensare al freddo recitare.
Spaventoso il finale, tra i più potenti mai dedicati alla banalità del Male.

04 settembre 2024

LA BARONESSA [Nica Koenigswarter] di Hannah Rotschild (Neri Pozza)

Mi riesce difficile parlare di questo libro senza scadere nel miele e nella retorica: nutro uno spontaneo affetto per Nica e per tutto quello che rappresenta; e questa biografia così lucida e morbida, dolce e sincera, ha soddisfatto appieno il mio palato così condizionato.
Scritta dalla nipote, con uno stile asciutto e preciso, questa biografia racconta Pannonica dagli inizi fino alla sua morte, passando per il dramma della Shoah (che colpirà direttamente anche la famiglia Rotschild), per un'Europa umiliata dal nazifascismo, per un'America liberatrice ma ancora provinciale e razzista, per il mondo del jazz sempre in bilico tra fascino e autodistruzione.
Pannonica era una donna fuori dal suo tempo, ma, sotto molti aspetti, fuori da tutti i tempi. Femminile e indipendente, mamma distratta ma affettuosa, imprenditrice istintiva ma non cinica, appassionata delle novità e delle cose belle, maestra di vita ma nel contempo infantile e spregiudicata.
Ovviamente, non mancano le pagine dedicate alla sua casta storia d'amicizia con Thelonious Monk, i suoi incontri con geni del persempre come Charlie Parker e come cento altri nomi che farebbero tremare i polsi anche all'esperto più navigato.
Un libro che può piacere sia al critico aperto e bendisposto, come anche a chi non ama le biografie e preferisce la classica forma-romanzo.

29 agosto 2024

IL GIARDINO DELLE BESTIE di Erik Larson (Neri Pozza)

Erik Larson si avventura dentro i diari di William E. Dodd e di sua figlia Martha per entrare dentro l'orrore puro, quello nero, senza speranza, senza requie, senza uscita, del Nazismo delle origini.
Lui è l'ultimo ambasciatore USA prima che la Germania costringa il Mondo negli inferi della Seconda Guerra Mondiale. Lei è la figlia, all'inizio conturbata dalla perfezione di quel male e poi futura collaboratrice dell'Unione Sovietica.
Testimoni quasi oculari della Notte dei lunghi coltelli, vivono sulla propria anima la visione di una violenza all'inizio in filigrana (come nell'Uovo del serpente, dirà il regista Ingmar Bergman), poi sempre più manifesta e selvaggia, così non credibile che a raccontarla ancora oggi sembra impossibile sia accaduta e originata e approvata da milioni di persone. Che poi, a dirla tutta, soprattutto all'inizio i nazisti imitavano il verminaio fascista, allora ancora apparentemente forte e indistruttibile, con la sua genesi di violenza pura contro chiunque non fosse "normale".
Ma è un libro che racconta anche gli Stati Uniti, ciechi e avidi di fronte all'ascesa del Nazismo, da far volutamente finta di non capire la portata di quella follia, il suo radicato antisemitismo, l'evidente progettazione della Shoah.
Un libro potente nella sua narrazione così liquida e semplice, i cui protagonisti potrebbero essere sostituiti da chi si volterà dall'altra parte durante le mille altre realtà violente che hanno costellato l'Europa del Secondo Dopoguerra.

17 aprile 2024

LA VIAGGIATRICE DEL TEMPO di Ute Lemper

Che meraviglia! Un libro bellissimo e pieno di poesia, storia, musica, filosofia, pensieri, ragionamenti, spontaneità, sensualità, autocritica. Un libro che lascia veramente un segno nel lettore, pagina dopo pagina, riga dopo riga; dove ogni parola sembra scelta accuratamente, ogni momento diventa epico, da gustare con calma e dedizione.

Onestamente, odio le definizioni preconfezionate, ma se questa è una "scrittura femminile", allora credo che buona parte delle donne che ho letto finora dovrebbe farsi un giro qua dentro e prendere appunti su come si parla di sé stesse e dei propri sentimenti.

Nella splendida prefazione, Ute Lemper tiene a precisare che il libro è scritto da lei stessa, senza intermediari o "aiutini" di ghost writer più o meno improvvisati. E ha pure il coraggio di riprendere in mano la sua prima biografia, discutendola, rimettendola in asse, dandole la giusta dimensione, ma senza rinnegarla e senza pentimenti.

Vengono i lucciconi quando parla delle Torri Gemelle, o quando parla al telefono con Marlene Dietrich, o quando affronta la Shoah, o quando ha la capacità di criticare il nazismo e la Germania ma senza scendere nelle dichiarazioni furbe o tattiche, o quando riesce a rendere con pochissime pennellate il fallimento del suo primo matrimonio e la crisi asfissiante del secondo.

Il suo percorso artistico è una battaglia continua, ricca di soddisfazioni, di cadute accettate, di imprevisti che non la scalfiscono in alcun modo. Si sente apolide ma curiosa, libera ma con tanta disciplina, aperta al nuovo ma senza cedere alle lusinghe delle suggestioni più facili.

Raramente, ho incontrato un libro così genuino e prezioso, che finisce troppo presto e che lascia un sorriso da ebeti sulle labbra. Ne consiglio vivamente la lettura

20 maggio 2021

I GIUSTI di Jan Brokken (Iperborea)

Di gesta analoghe a quelle di Schindler ne è ormai piena la Storia; ma quella raccontata in questo pregevole libro ha un paio di caratteristiche uniche: è raccontata dalla scrittura vellutata di Jan Brokken; i protagonisti sono almeno tre: Jan Zwartendijk, Chiune Sugihara e il lettore.
Il primo aiutò centinaia di ebrei senza mai raccontarlo neanche a guerra finita. 
Il secondo non fu da meno, in un paese comunque alleato del mostro nazista. È l'unico Giusto giapponese.
Il terzo sei tu che leggi, che, attraverso le testimonianze dei figli di Zwartendijk, i documenti ritrovai da Brokken - e la sua inchiesta sul campo molti lustri dopo, mastichi ogni pagina, la divori, soffri, sorridi, resti sconvolto e non puoi fare nient'altro che correre verso la fine, sperando che anche chi non ce la fece sia comunque sopravvissuto.
Un viaggio dentro la miseria umana, illuminata solo da questi enormi e incommensurabili personaggi, così umili, fragili ed empatici, che riesce difficile dimenticare.

24 marzo 2014

IDA, quando la fotografia salva dall'ovvietà

Ida potrebbe essere un film esemplare, se non fosse per due elementi che ne minano le basi: un montaggio troppo indulgente e una trama esile esile, con un impercettibile sottofondo di moralismo cattolico che potrebbe addirittura irritare. La fotografia è eccellente: vedo film da quarant'anni, e raramente mi ero imbattuto in inquadrature così belle - e anche coraggiose: sfidano più volte la sezione aurea, con momenti di autentica innovazione. Aggiungeteci che quando i movimenti degli attori ne variano le proporzioni, comunque queste inquadrature mantengono dinamismo e fascino. Complimenti, complimenti davvero.
Il montaggio, purtroppo, sembra distrarsi da cotanta bellezza, senza dare il giusto ritmo alle scene, tanto che non si percepiscono né scarti narrativi, né tantomeno una sorta di suddivisione schematica che dilati o riduca i passaggi della trama. 
Quindi, o la sceneggiatura andava sensibilmente ritoccata, oppure il cinema polacco si conferma tale nonostante l'evoluzione dello strumento e le ipotizzabili influenze esterne (complice la Caduta del Muro) che avrebbero dovuto colpire anche Pawel Pawlikowski, il regista.
La storia è suddivisa in tre sottotrame: il percorso della protagonista da Anna ad Ida (cioè: le sue origini e la trista storia della sua famiglia), il rapporto con la zia (una bravissima Agata Kulesza), il percorso religioso di Ida.
E, nonostante le potenzialità, anziché amalgamarsi, queste tre opportunità narrative sembrano appiccicate, con tanto di esiti scontati e prevedibili. A questa fragilità aggiungerei: una petulante inespressività della protagonista (Agata Trzebuchowska) incapace di restituire le giuste sfumature; un sottofondo di moralismo cattolico che si affretta a dare lezioni di vita con una scelta finale addirittura precipitosa.
E già: nonostante tutto il film abbia tenuto sempre lo stesso ritmo, il finale accelera troppo velocemente, dando una sensazione di frettolosità a livello produttivo anziché estetico.
In conclusione, scelte musicali eterogenee e significative: si va dallo Jupiter di Mozart a 24mila baci, passando per Naima ed Equinox di Coltrane... incredibile ma vero, e gustoso.
Un film da 7 - che poteva decisamente raggiungere la perfezione

09 febbraio 2014

#GenerationWar, ovvero: dimenticare i volenterosi carnefici

Pare fatto apposta - anche se non lo è - che proprio a ridosso del Giorno del Ricordo, Rai3 abbia proposto Generation War, una miniserie su cinque giovani tedeschi che passano attraverso le atrocità della Seconda Guerra Mondiale uscendone trasformati, e in un certo senso vincenti.
Perché la battuta sul Giorno del Ricordo? Perché la coscienza civile dei paesi che hanno una Storia recente fatta di sangue, di sopraffazione e di dolore - cioè Italia e Germania - sembra vivacchiare nel saper attendere, con la speranza che il Tempo dissolva la Verità, con la certezza che il popolo non sappia, non voglia sapere, non ascolti, non voglia ascoltare.
E se il Giorno del Ricordo è una speculazione storica escogitata da italiani per coprire le atrocità di altri italiani che ebbero come conseguenza anche le Foibe (Alessandra Kersevan insegna), mi meraviglio che i tedeschi abbiano edificato un'opera così scomposta e ricca di indulgenze, di contraddizioni e di sottilissime dimenticanze.
Ora: per quanto un film non possa - e non debba - sintetizzare qualcosa in maniera perfetta e soddisfacente; per quanto bisogna accostarsi alle opere senza aspettarsi quel che si pretende venga rigorosamente narrato; per quanto la Storia sia fatta di duttile Verità e di macroscopici machiavellismi... ridurre la responsabilità tedesca nel modo narrato da Generation War fa veramente male. Insomma, anche i rigorosi tedeschi hanno dimenticato Kant per entrare dentro la stanza crucca della più comoda mistificazione.
Partiamo dagli aspetti tecnici, che potrebbero restare solo tali, ma che forse sono anche figli di un lapsus mentale. La musica, rabberciatamente debitrice del secondo movimento del Concerto Imperatore di Beethoven, lavora di nostalgia, di languore, di pathos preconfezionato e sempre molto puntuale e azzeccato.
La fotografia è sempre identica a se stessa, senza quell'elegante accortezza di saper presentare lo svolgersi del tempo con viraggi differenziati. In più, genera nello spettatore una costante sensazione a metà tra il ricordo doloroso e la (presunta) ricostruzione storica, supportata da una voce fuori campo sempre sul punto di assolvere i peccati dei cinque, e quindi dei tedeschi.
I protagonisti sembrano vittime del sistema, costretti a fare quello che fanno solo dal perfido Hitler e non da un consenso popolare che superò di gran lunga quello del Fascismo (una lettura di Daniel Goldhagen non farebbe male a nessuno).
La Shoah viene spostata in un angolino, in maniera irritante e imbarazzante.
Addirittura, i partigiani polacchi sono trattati alla stessa stregua degli aguzzini nazisti... su questo va fatta una doppia distinzione. La prima: i nazisti costruirono i lager soprattutto in Polonia, perché non volevano urtare la sensibilità della popolazione tedesca (che comunque sapeva, altroché), e perché contavano sul silenzio di una fetta consistente dei polacchi, notoriamente poco inclini all'ebraismo. Ma se poi andiamo nel Giardino dei Giusti, scopriamo che di eroi polacchi che hanno lottato per gli ebrei, ce ne sono. Ergo, la reductio filmica è grossolana e fuorviante.
Secondo motivo: è vero che noi abbiamo Pansa qui in Italia che si sollazza infangando i nostri partigiani; è anche vero che più in generale alcuni partigiani non erano stinchi di santo... ma lasciarsi andare a una furbata mistificatrice ne passa.
È poi evidente, quasi eclatante direi, come una parte delle sequenze sia debitrice dell'ottimo Le benevole di Jonathan Littell. Solo che Littell non assolve, documenta, racconta, e soprattutto non gioca a rimpiattino con le responsabilità del popolo tedesco. In più, il suo cronachismo così asciutto, lineare, ricco di sfumature mai ostentate ma ben evidenti, consente al lettore di fare una viaggio nel dolore e nella miseria senza uscirne né vivo (metaforicamente parlando), né tantomeno conciliante.
Se, insomma, gli autori volevano raccontare una serie di storie tedesche incrociate, potevano evitare sia di alludere troppo a certe vergogne che di scivolare nell'aneddotica spiccia.
I personaggi, poi, sono la fine di ogni possibile dibattito, se non altro perché tutti abbastanza prevedibili; comunque paradigmatici di una sorta di assoluzione collettiva. 
L'ebreo innamorato della futura cantante famosa, sembra uscito da un filmetto minore di Allen, sempre pronto a mostrare un'espressione a metà tra l'inespressivo e l'imbambolato. Questo aver presentato un ebreo tra non ebrei, ricorda un po' certi film americani politically correct in cui bisogna per forza circondare l'eroe del film di neri, ebrei e omosessuali. A casa mia si chiama "uso strumentale". 
Il nazista nudo e puro, invece, presenta rimorsi di coscienza pressoché immediatamente, come se la sua breve carriera da ufficiale (è del 1921) non sia stata invece cosparsa anche da adunate a Norimberga e da festeggiamenti convinti dell'eterno Terzo Reich. Dovrebbe addirittura proteggere il fratello, mentre alla fine è capace solo di disertare senza emendarsi in maniera almeno dignitosa.
Il fratello, invece, esordisce come intellettuale dichiaratamente contrario alla guerra (ma quando mai, perlomeno in maniera così smaccata), si trasforma in robot cinico, ritorna umano, in tempo per far prima scappare l'amico ebreo e quindi salvando da morte certa un plotone del Volkssturm, immolandosi come l'Elias di Platoon.
L'infermiera, prima denuncia platealmente un'ebrea, poi, di fronte all'incalzare della sicura sconfitta, salva il destino di alcuni soldati procrastinando il loro ritorno in battaglia. Viene salvata da stupro sicuro proprio dall'ebrea che aveva denunciato (ebrea che nel frattempo comanda una pattuglia di regolari sovietici!). Comunque, se la cava.
Sulla cantante quasi-ex-fidanzata dell'ebreo, viene intortata una trama strampalata. Va a letto che un tipo della Gestapo per ottenere un salvacondotto per il quasi-fidanzato; e quindi non "pecca", perché il suo gesto è altruistico. Però, seguendo rigorosamente la cronologia del film, in realtà va prima a letto col tipo per diventare famosa; poi, visto che c'è, usa le sue grazie per ottenere il salvacondotto. Fin qui, fatti suoi (e chissenefrega, insomma). Certo è che si presenta stolida e superficiale quando è costretta ad assistere i feriti tedeschi reduci dall'assedio di Stalingrado. Poi, appena rientrata a Berlino, si presenta redenta e disillusa proferendo una provocazione disfattista davanti ad alcuni ufficiali. L'omone della Gestapo la fa prima rinchiudere e quindi fucilare. 
Per concludere, perché il titolo originale è stato modificato nel più asettico "La generazione della guerra"? Unsere Mütter, unsere Väter” (“Le nostre madri e i nostri padri”), è sottile e allusivo, e dovrebbe suscitare argomentazioni e indignazioni ben più profonde di un semplice "vietato ai minori".
In effetti, il direttore di Rai3 Andrea Vianello ha sbagliato (in buonafede, per carità): una pellicola simile andava accompagnata da un'introduzione storica, e conclusa con un dibattito serio tra esperti competenti. Se avete tempo da perdere, iniziate da qui e qui.
A latere, appena ho twittato le mie riserve sul film, un tipo ha replicato: "Perché parli di sottile revisionismo? Un po' di indulgenza effettivamente c'è. Cmq l'ho trovato ben fatto e storicamente accurato". In effetti, se dovessi fare un film sui tedeschi vissuti durante la Seconda Guerra Mondiale, eviterei di parlare dei morti: quasi sei milioni di ebrei, oltre duecentomila tra rom e sinti, oltre duecentomila disabili, ventimila omosessuali, quasi un milione di dissidenti politici... 

27 gennaio 2012

i nemici della #giornatadellamemoria

I primi sono quelli che "Israele, ma...", i peggiori perché subdoli e intrinsecamente legati a quella stessa sinistra che abusa della Shoah per darsi l'opportuna aria.
I secondi sono i fascisti nudi e puri: notoriamente dei codardi (se presi da soli, s'intende), fanno stragi, poi scappano, e ti denunciano se li definisci - appunto - fascisti. La cosa più curiosa è che spesso godono di protezioni da parte di quelli che ufficialmente poi condannano.
I terzi sono quelli del Vaticano, che poi hanno ottimi rapporti con le prime due categorie. Due millenni di colpe ai "giudei" non si curano con tentativi di dialogo raffazzonati e in... malafede (è il caso di dirlo).
C'è poi la categoria dei ragionieri bizantini, peggiori della categoria dei fighetti; quelli, cioè, che speculano scientemente e provocatoriamente sui diritti ad ogni costo, dimenticando la Storia e la Ragione per strada, quasi fossero due elementi fastidiosi e insopportabili.
Poi c'è questa foto

21 giugno 2010

the reader

Per chi non avesse visto The Reader, premetto che questo post contiene spoiler: quindi passate oltre, e ci si legge per altre cose.

Sembra quasi di ritornare sugli argomenti già affrontati in The Road: cosa faresti se fossi al posto di? Insomma, l'idea tipicamente anglosassone (e quindi molto protestante) del "what if" torna con altra foggia in questo film molto interessante, nitido e senza momenti di stanca o di poca tenuta come un argomento del genere poteva comportare. Il rischio del doppio finale c'è, ma è ben contenuto dal sempre ottimo Ralph Fiennes.
Allora: l'enigmatica Kate Winslet è una bigia bigliettaia nella Germania post sconfitta, e fa innamorare di sé un giovanissimo rampollo (quasi vent'anni di differenza). La storia si consuma tra sesso vigoroso ma tenerissimo e una strana passione della signora: ama farsi leggere libri di un certo spessore, che sappiano raccontare storie ben oltre il testo affrontato.
L'affaire dura pochi mesi, perché ad un certo punto la donna sparisce nel nulla più assoluto. E anni dopo, durante gli studi universitari di giurisprudenza, il nostro ragazzo ormai cresciuto la ritroverà nel banco degli imputati come coresponsabile della morte di trecento deportate di Auschwitz durante la terribilmente nota Marcia della morte.
Durante il processo, il nostro protagonista si sente spinto verso mille direzioni, con una totale e disarmante difficoltà nel vivere una situazione del genere.
La donna che aveva amato, che le aveva lasciato un profondo segno nel cuore, non solo gli aveva tenuto nascosto un segreto così devastante, ma adesso stava lì di fronte a un tribunale che l'avrebbe giudicata per i suoi crimini di aguzzina nazista. E durante il dibattito scopriamo che la pena sarà commisurata all'esatta responsabilità di chi aveva permesso la morte di trecente deportate chiuse dentro una chiesa in fiamme.
C'è un documento che la mette con le spalle al muro... e solo allora il ragzzo capisce che c'è qualcosa che non va: Kate Winslet è analfabeta! Come poteva leggere o firmare documenti così dettagliati. Ma né lei né lui lo diranno alla corte giudicante, che infatti le commina una pena terribile - l'ergastolo - mentre alle altre kapò verrano imposti soli quattro anni e rotti di galera.
Insomma, il ragazzo avrebbe potuto salvarla da una sentenza eterna, ma non lo fa! Tanto che cercherà di porre rimedio al senso di colpa tempestandola di nastri registrati attraverso cui lei potrà "leggere" quei romanzi testimoni malfermi di un amore ormai perduto.
Il ragionare su colpe e su Giustizia diventerebbe un esercizio terribile, specie di fronte alla Shoah. Però: la Giustizia è cosa assoluta, o la dobbiamo usare come conviene?
Se la donna avesse subito una pena mite perché analfabeta, cosa ne sarebbe stato della carriera del suo testimone chiave? E voi: colpevole per colpevole, avreste detto la verità o avreste lasciato vincere il silenzio?


04 aprile 2010

lo straniero

Niente a che vedere con l'omonimo capolavoro letterario di Camus, Lo Straniero racconta la caccia ad un ex criminale nazista (Orson Welles che ne è anche regista, dopo l'obbligato diniego di John Huston, che comunque ne scrisse anonimamente buona parte della sceneggiatura) che vive nel comodo anonimato di una banale cittadina americana. Aggiusta orologi antichi a tempo perso, ed è sposato con un'ottima Loretta Young, qui sempre sul punto di svenire.
Chi lo scopre è il sempre bravissimo Edward G. Robinson (anche se Welles dirà poi che avrebbe preferito una più convincente "zitella", magari interpretata da Agnes "Endora" Moorehead) che per incastrarlo sottopone alla donna la visione di un documentario sui campi di sterminio. Convinta da tanto scempio, aiuterà i buoni a catturare il marito.
Gran finale con la famosissima sequenza degli orologi, il cui perno fobico tornerà nella scena degli specchi della Signora di Shangai (quella citata anche da Woody Allen, per intenderci), per un'opera che va ricordata soprattutto perché è la prima volta che in un film "commerciale" si vedono le immagini della Shoah (nel 1966, poi, partecipando alle riprese di Parigi brucia?, Welles conoscerà di persona alcuni deportati superstiti).

08 febbraio 2010

il concerto

Se volete vedere una lacrimuccia uscire dal mio viso stramaschio, atletico e giorgcluniano dovete mettere sul piatto del vostro giradischi il Concerto in Re Maggiore per violino e orchestra op. 35 di Tchaikovsky: mi commuove come pochi.
Forse perché collegabile ad alcune scene della mia infanzia, forse - anzi sicuramente - perché tecnica stravirtuosistica e passione de core si incontrano perfettamente, dove l'anima ebraica e quella universale costruiscono la perfezione assoluta.
Poi, certo, se volete fare i sofisticati che escono dal cinema e vogliono documentarsi meglio, dovete assolutamente avere un'edizione con Jascha Heifetz, una con David Oistrakh e una con Itzhak Perlman.
Ecco, il film di Radu Mihaileanu si ferma qui, perché il resto funziona pochino: ironia professionale ma scontata, buoni attori (tranne forse la tarantinata Mélanie Laurent che gioca un po' troppo col presunto significato sessuale di alcuni momenti della partitura), montaggio e regia al servizio della trama... ma la trama è esile e ovvia, "spiegata" oltretutto a ridosso dell'onda emotiva che sconquassa lo spettatore durante la sequenza finale, miscelando sapientemente riferimenti tristi e altri di puro humor ebraico... il che può pure andare bene, ma alla fine suona come mestierato e un po' furbo.
No, non lo sto stroncando, anzi ne consiglio comunque la visione: è che alla fine di cose come questa ne è pieno il cinema, e io pretendevo dall'autore di Train de vie qualcosa di più, perché è nelle sue corde, perché lo sa fare molto bene (viste certe imitazioni oscarate che lo hanno sopraffatto).
Forse è colpa de Concerto in questione, che ruberebbe spazio pure a dio in persona. Forse è la debolezza di alcuni momenti (la sparatoria mafiosa iniziale sa tanto di unghie sulla lavagna). O forse è un filmino leggero leggero senza tante pretese, cui io vorrei attribuire chissà cosa.

16 dicembre 2009

ateismo è libertà

Mi sfugge come sia sfuggito il 10 dicembre scorso il lungo intervento di Vito Mancuso su Repubblica. Scritto a ridosso di un convegno internazionale promosso dal Progetto Culturale della Cei con il patrocinio del Comune di Roma, ripassa la lezione del difficile rapporto che la Chiesa ha con il progresso.
Tra le premesse della lunga prolusione, il compagno di libri di Augias scrive:
La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l'ateismo materialista. Tale era l'impresa della modernità, caratterizzata dal porre l'assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall'ateismo teoreticamente impegnato. Gli odierni alfieri dell'ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come "rivincita di Dio", anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio.
Non immaginavo si potessero scrivere tante sciocchezze in così poche righe, credetemi.
Andiamo per brevi punti:
  • confondere l'ateismo materialista tipico del sovietismo con le ragioni di chi non crede in dio, è un'operazione furba e maliziosa, che relega le antiche motivazioni degli atei solo dentro al ristretto fulcro della dittatura stalinista
  • confondere la modernità con l'afflato negativo del sovietismo materialista è un'altra scorrettezza dialettica e storica. Ateismo e stalinismo e modernità si saranno pure incontrati, ma ridurre tutti e tre nella stessa stanza, in spazi storici limitati e limitanti, è addirittura ipocrita
  • a latere: modernità e modernismo (brechtianamente parlando) sono due cose diverse. La confusione di Mancuso è sinonimo o di povertà di argomenti o di scorrettezza in nuce, voluta e ricercata (e quindi dialetticamente o giornalisticamente immorale, fate voi)
  • l'"ateismo teoricamente impegnato" NON è l'ateismo vero e proprio che il signor Mancuso butta in caciara alla grande. L'ateismo se è "impegnato" non può essere ateismo, perché l'ateo non si impegna ad imporre niente a nessuno, e vuole/pretende/ha-diritto che anche le religioni facciano lo stesso (cioè che non entrino nelle nostre case a giudicarci di continuo)
  • "Impegnarsi" significherebbe, insomma, il voler stabilire dei parametri di idoneità e priorità morale che l'ateo non può praticare: sconfesserebbe il suo non voler vivere sotto credenze (o non credenze) e di conseguenza il suo non volerle imporre
  • "Gli odierni alfieri dell'ateismo" NON vogliono "distruggere la religione", caro il nostro Mancuso. La religione è cosa nobile e rispettabile: il cattolicesimo, invece, è un'ipocrisia che di religioso ha ben poco, anzi (e di popoli ne ha distrutti, haivoglia)
  • e comunque l'ateo non vuole neanche "distruggere" il cattolicesimo. Riportiamo l'Italia ai tempi sociali di Federico II, e Mancuso vedrà come sia possibile una civile convivenza tra le varie religioni, e anche con atei, sufisti e agnostici. L'ateismo è una scelta privata come privata dovrebbe essere la scelta religiosa. Solo che i religiosi s'impongono al mondo; gli atei non fanno nient'altro che difendere i propri spazi (peraltro in ordine sparso e senza fare i furbetti con l'otto per mille dei cittadini)
  • questa religione cattolica non è certo la "rivincita di dio", anzi: la chiesa è in crisi, il Vaticano è in crisi. Non solo per questioni pedofile (che sarebbe facile tirare in ballo), ma per un'incongruenza visibilissima tra ciò che esiste e ciò che dovrebbe esistere: in mezzo c'è un papa troppo dotto per capire la quotidianità, troppo chiuso per saperla interpretare, troppo arrogante per capire che sarebbe ora di dare spazio alle diversità (non solo quelle omosessuali, s'intende)
  • e se Mancuso vuole vedere invece tra i soli credenti la presunta "rivincita di dio", sbaglia della grossa: politicamente, eticamente e geopoliticamente i paesi con il più alto tasso di credenti dichiarati, sono anche i più retrogadi scientificamente, socialmente e legislativamente... e poco attenti alla moralità (vere e necessarie, s'intende) dei propri governanti
  • gli atei vorrebbero "distruggere la rivincita di dio" proprio perché ne percepiscono il ritorno? E quando mai! L'ateo spera anche nella spiritualità e nella religione, perché l'ateismo è una forma di sperimentazione continua, di viaggiare infinito, di porsi continuamente dubbi, di approfondire ogni singolo atomo delle cose esistenti e di quelle che potranno esistere. Più religiosità c'è nel mondo, e più sarà possibile frequentare i cuori e le menti di chi non conosciamo; più invece i granitici monoteismi continueranno la loro strada verso l'arroganza e la protervia, e con più facilità la povertà spirituale spargerà il proprio sale tra le menti delle persone
  • i "libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di dio"?!? Vorrei scomodare Bombolo, se premettete (tanto è la profondità dell'argomentare di Mancuso): se mi documento me meni, se non mi documento mi meni; allora menami e la facciamo finita. La prima sciocchezza che mi dicono le persone quando scoprono che sono ateo è "prima devi leggere la Bibbia; poi dopo puoi dire di essere ateo". Al che ci si chiede se loro l'abbiano già fatto... In realtà a me sembra che i libri usciti in questi anni non abbiamo mai attaccato la religione ma gli abusi e l'arroganza del Vaticano (c'è un libretto sui rapporti tra Mafia e chiesa, tra Nazismo e chiesa, tra speculazioni finanziarie (e non solo) e chiesa, tra Berlusconi e chiesa). La domanda è: dov'è l'"attacco" alla religione? Dov'è la "rivincita di dio"? Eppoi: quantunque e qualora fossero veri i deliri di Mancuso, se dio è forte, se una religione è forte, se i suoi credenti sono forti, perché scomodarsi a denunciare un attacco che non potrebbe sortire effetto alcuno? 
  • al di là di queste considerazioni, Mancuso crede che parlare di qualcosa significhi attribuirle una "rivincita"? E allora gli ebrei che parlano della Shoah fanno "rivincere" Hitler? Ma che razza di argomentazioni di partenza usa, signor Mancuso?
Il resto del testo lo trovate qui. Vivaddio (è il caso di dirlo) ci sono meno fesserie di queste di partenza. Ma se questa è la profondità delle persone che devono parlare di fede e ateismo, siamo veramente messi male. Certo, c'è il citato equivoco che per farlo bisogna esserne competenti. Due allora sono le considerazioni: Mancuso non conosce l'"altra sponda"; l'"altra sponda" sa perfettamente che la stretta competenza, il teologismo bibliotecario, la polverosità della dottrina, non hanno lo stesso sapore delle strade e delle genti.
A volte le istruzioni pr l'uso della spiritualità sono così strumentalmente complesse e complicate, che viene voglia di ridere in chiesa durante la funzione.
Ancora una volta Repubblica ha dato fiato a chi poteva dire la sua: avessi scritto io certe cose, o voi, Ezio Mauro ci avrebbe sbattuto la porta in faccia.
E se dio esistesse, in questo preciso istante farebbe saltare la corrente per qualche minuto a casa di Vito Mancuso. Così s'impara.

05 settembre 2009

i bei discorsi:
Angela Merkel

IL MIRACOLO DELLA PACE

da Repubblica - 2 settembre 2009

COMINCIÒ sessant' anni fa con l' aggressione tedesca alla Polonia il capitolo più tragico della storia europea. La guerra scatenata dalla Germania portò dolore e sofferenza incommensurabili a molti popoli, anni di totale privazione dei diritti, anni di umiliazione e distruzione. Nessun paese ha sofferto cosìa lungo dell' occupazione tedesca come la Polonia. Proprio nei tempi bui, di cui parliamo oggi, il Paese fu raso al suolo. Cittàe villaggi vennero distrutti. Nella capitale, dopo che l' insurrezione del 1944 fu soffocata nel sangue, non fu lasciata in piedi nemmeno una pietra. Potere arbitrario e violenza segnarono in quegli anni la vita quotidiana di ogni famiglia polacca. Oggi qui, sulla Westerplatte di Danzica, io, cancelliera federale, ricordo con rispetto profondo tutti i polacchi a cui fu arrecato dolore inenarrabile sotto i crimini dell' occupazione tedesca. Gli orrori del ventesimo secolo ebbero il loro culmine nell' Olocausto, la sistematica persecuzionee sterminio degli ebrei d' Europa. Io ricordo con rispetto profondo i sei milioni di ebrei e tutti gli altri che trovarono una morte atroce nei campi di concentramento e di sterminio tedeschi. Io ricordo con rispetto profondo i molti milioni di uomini che dovettero sacrificare la loro vita nella guerra e nella Resistenza contro la Germania. Io ricordo con rispetto profondo tutti gli innocenti che dovettero morire di fame, freddo o malattia a causa della violenza di quella guerra e delle sue conseguenze. Io ricordo con rispetto profondo i 60 milioni di esseri umani che persero la vita a causa di questa guerra che fu scatenata dalla Germania. Non ci sono parole che possano restituire il dolore atroce di questa guerra e dell' Olocausto. Io m' inchino davanti alle vittime. Lo sappiamo bene: non possiamo cancellare l' orrore della seconda guerra mondiale o fare come se non fosse accaduto. Le cicatrici resteranno a lungo visibili. Il nostro compito è costruire il futuro con la consapevolezza sempre presente della nostra responsabilità. L' Europa siè trasformata da continente d' orrore e violenza in un continente di libertà e pace. Il fatto che ciò sia stato possibile è né più né meno che un miracolo. Noi tedeschi non lo abbiamo mai dimenticato: gli amici della Germania all' Est e all' Ovest hanno aperto questa strada con la loro prontezza alla riconciliazione. Hanno teso a noi tedeschi la mano della riconciliazione e noi l' abbiamo afferrata, colmi di gratitudine. Sì, è un miracolo il fatto che noi quest' anno non dobbiamo ricordare solo gli abissi d' infamia della storia europea avvenuti settant' anni fa. È un miracolo che possiamo anche ricordare quei giorni felicie fortunati che vent' anni fa portarono alla caduta del Muro di Berlino, alla riunificazione della Germania e all' unità dell' Europa. Perché solo con la caduta della cortina di ferro il cammino dell' Europa verso la libertà poté dirsi compiuto. Nella tradizione di Solidarnosc in Polonia, la gente allora aprì ovunque con coraggio le porte verso la libertà. Noi tedeschi non lo dimenticheremo mai. Non dimenticheremo il ruolo dei nostri amici in Polonia, in Ungheria e nell' allora Cecoslovacchia. Non dimenticheremo il ruolo di Mikhail Gorbaciov e dei nostri amici e alleati occidentali. Non dimenticheremo il ruolo della forza morale della Verità che nessuno incarnò in modo così convincente e credibile come Papa Giovanni Paolo II. Anche per questo noi tedeschi ci siamo impegnati ad aprire alla Polonia e agli altri Stati dell' Europa centrale e orientale la strada verso l' ingresso nell' Unione Europea e nella Nato e a stare al loro fianco. Sì, è un miracolo, una grazia, il fatto che noi europei oggi possiamo vivere in libertà e in pace. Non c' è nulla che possa rappresentare la grande differenza tra il 1939e oggi meglio della stretta e fiduciosa collaborazione tra Germania e Polonia e delle molteplici relazioni d' amicizia tra i nostri due Paesi. L' unità dell' Europa e l' amicizia della Germania coni suoi vicini trovano forza nel fatto che noi non chiudiamo gli occhi sulla nostra storia. Lo hanno ben colto i presidenti delle conferenze episcopali tedesca e polacca nella loro ultima dichiarazione congiunta: «Insieme dobbiamo guardare al futuro senza dimenticare o minimizzare la realtà storica in tutti i suoi aspetti». Se nel mio Paese pensiamo anche al destino dei tedeschi che, in seguito alla guerra, persero la loro patria, lo facciamo sempre nel senso indicato da queste parole dei vescovi. Lo facciamo con piena consapevolezza della responsabilità della Germania. Lo facciamo senza voler riscrivere il capitolo che riguarda la responsabilità storica della Germania. Questo non accadrà mai. Proprio consapevole di tutto ciò, settant' anni dopo io sono venuta qui a Danzica, in questa città segnata dal dolore, ma splendidamente restaurata. Signor Presidente, signor Primo ministro, mi commuove profondamente il fatto che mi abbiate invitato alla cerimonia di oggi in qualità di cancelliera tedesca. Vedo in questa vostra scelta un segno del nostro rapporto di fiducia, della nostra stretta cooperazione e dell' autentica amicizia tra i nostri due Paesi, tra la gente in Germania e in Polonia. E per questo voglio ringraziarvi. - ANGELA MERKEL

01 aprile 2008

vincitori e vinti (Richard Widmark e Abby Mann)

C'è un soffuso filo rosso che lega la morte del grande Richard Widmark e la serie televisiva Kojak, ed è Abby Mann, anch'egli morto in questi giorni.
Mann, infatti, è stato l'inventore del poliziottone calvo, e anche Premio Oscar per la sceneggiatura di Vincitori e vinti, film corale e magari deliziosamente sin troppo romanzato sul Processo di Norimberga, in cui Widmark interpretava con passione l'accusa, e dove per la prima volta si parlava della Shoah in un film commerciale (in realtà il primo fu Lo Straniero di Orson Welles, ma ebbe meno eco e fortuna).
Io adoro questi antichi attori americani con rughe autostradali e con il viso impregnato dalla vita. Li adoro perché appartengono a un cinema folle e ben strutturato, anche quando puntava direttamente al commerciale. Un bianco nero che è come il buon vino: più invecchia e più è buono.
Sarò vecchio, ma non credo che quando vedremo tra trent'anni il mio sosia (Giorg Cluny, che domande) o Tom Cruise proveremo lo stesso languore.
So long Widmark, so long Mann.


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