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13 febbraio 2025

PARTHENOPE, una stroncatura

Ci dev’essere un qualcosa in comune tra certi maschietti borghesi, che quasi all'improvviso li porta all’impellente necessità di rimestare nel torbido dei propri pensieri. Altrimenti, non si spiega come mai registi straordinari come Antonioni, Fellini, Kubrick, Godard, Bertolucci, ad un certo punto della loro vita abbiano proposto film inutilmente pruriginosi.

Eros (2004), La città delle donne (1980), Eyes Wide Shut (1999), Prénom Carmen (1983), The Dreamers (2003), hanno in comune un’inutile e insistita autopsia del corpo femminile come solo oggetto del desiderio, l’ostentazione di momenti sessuali tutt’altro che allusi, trame incongruenti e confusionarie, un approccio da guardoni che proprio non ti aspetti da questi monumenti dell’etica e della cultura. A questa tendenza non scritta si è accodato anche Sorrentino con il suo Parthenope (2024), il cui sottotitolo doveva essere La gLande bellezza

Ora, io non appartengo alla categoria dei bacchettoni, né tantomeno mischio gusto personale e oggettività artistica: è che qui siamo di fronte a un film brutto, sia tecnicamente che esteticamente.

A me frega nulla della carne esposta, anche quando non ha scopo narrativo. Contesto, questo sì, l’indugiare pruriginoso e voyeuristico su una scopata pubblica tra adolescenti terrorizzati, su una giovane che si fa masturbare da un vecchio e laido sacerdote, sul vedi-non-vedi di un vestiario inutilmente microscopico, sulle scene saffiche riprese a una distanza da sincrotone: così come sono proposte e indugianti, diventano scelte zozze, gratuite, maschiliste e totalmente prive di scopo narrativo. Che ci siano o no, nulla cambia nell’insieme della trama.

E mi meraviglia che le femministe nostrane non si siano scagliate contro questo accrocco di tette, scopate e sguardi sporcaccioni, che ci buttano indietro di venti anni, riportando la donna a oggetto, a strumento amimico e remissivo di piaceri pseudobestiali.

Andando sul tecnico, invece, le riprese esterne sono un disastro, il montaggio pessimo, l’audio impresentabile, la sceneggiatura un colabrodo.

Vado nel dettaglio. Le luci degli esterni sembrano sistemate a coda di cane: altrimenti non si spiegano i cieli diurni sempre appannati, che oltretutto banalizzano i primi piani. Le riprese notturne, invece, perdono spesso la profondità di campo.

Montaggio: campi e controcampi senza nesso, inserti spesso inutili e controproducenti, ritmo inesistente.

Audio: tanto vale mettere i sottotitoli. A parte Silvio Orlando e Luisa Ranieri, il resto degli attori si mastica le parole. Il canale del commento musicale, poi, sovrasta tutto il resto.

La sceneggiatura è qualcosa che non capisco proprio. Bisogna concentrarsi parecchio per intuire i cambi di scena o il senso di certi frammenti narrativi buttati là. I dialoghi sono a metà tra Ciquito e Paquito e i Baci Perugina, con un flusso a corrente alternata di massime e di sentenze: lo spettatore si sente come Alberto Sordi e Anna Longhi in quel piccolo capolavoro che fu Le vacanze intelligenti (1978). L’unico monologo da salvare è quello di Luisa Ranieri. L’unica scena preziosa è l’abbraccio con Silvio Orlando.

Più in generale, a me sembra che Sorrentino abbia scientemente destrutturato i topos delle sue origini (Napoli, San Gennaro, la Camorra) come anche un certo modo di intendere la personalità di un regista (l’antropologia, il fanciullino curioso ma limitato dalle circostanze) per esprimere il suo disagio di fronte ai sessant’anni che incombono. E, guarda caso, lo fa attraverso una bellezza da smontare e non con un edonismo maschile immaginario (visto che non è propriamente bello); sono tutte speculazioni che lascio a chi si diverte a fare critica criptica.

Quello che trovo allucinante è che la critica abbia deciso che il film deve piacere. Un film pretenzioso e maschilista che è costato 33 milioni di euro e ne ha intascati solo 9

25 agosto 2014

#IlCapitaleUmano, una recensione tardiva

Formalmente ineccepibile, va detto; esteticamente raffinato, aggiungo; ma troppo lento se non addirittura noioso.
E poi, c'è quell'aria di prevedibilità che sembra voler accontentare molti palati senza però arrivare a un dunque.
Insomma, con questo Capitale Umano il cinema italico si conferma decisamente avanti sul piano formale, ma totalmente arido su quello dei contenuti.
Abbiamo, cioè, ottimi registi (più avanti rispetto ai mediocri attori che li aiutano), ma mancano storie decenti, buone sceneggiature e produttori all'altezza.
A me dispiace che queste carenze così palesi sfuggano alla critica nostrana sempre e invece incline al Fazio's style, fatto di solluccherosi ammiccamenti, di moralismi a buon mercato, di un'idea di cultura che nulla ha a che vedere con la libertà di pensiero e di pensare.
Virzì mi aveva deliziato con Caterina va in città, ma poi si è perso per strada.
Sorrentino aveva dimostrato un eccellente percorso artistico ricco di progressi, per poi fermarsi al Divo, bearsi dentro l'inutile This must be the place, suicidarsi dentro l'orribile Grande bellezza.
È come se la sindrome latina dell'autocelebrarsi ad ogni costo abbia colpito simultaneamente due dei nostri talenti migliori. Speriamo che almeno il Vicari regga all'impatto del dopo Diaz.
Due note buttate là: spiegatemi chi è quello sciagurato che ha voluto premiare più volte il traballante fonico in presa diretta; Gifuni e Bentivoglio molto bravi, al contrario della monotematica Bruni Tedeschi.

13 gennaio 2014

La Grande Bellezza, una recensione tardiva

Neanche a farlo apposta, ho visto La Grande Bellezza solo sabato scorso, su dvd e con tutti i comfort che una visione casalinga può dare: niente luci e lucette di cellulari/tablet, nessun ginocchio piazzato sul proprio schienale, assenza totale di commenti inutili se non quelli miei e di mia moglie.
Ergo, non credo sia una garanzia di visione di un film; se non altro perché - nel bene o nel male - quando si sta al cinema si partecipa a un rito collettivo, e in un certo senso si è anche protagonisti inconsapevoli delle percezioni altrui. Ho visto al cinema film rivelatisi poi orribili, ma che l'involontaria alchimia degli spettatori presenti aveva trasformato in un capolavoro assoluto... ma è anche capitato il contrario, per carità.
Fatto sta che il film di Sorrentino è lento, inutilmente lento. Attenzione, non ho scritto "lungo", anche se di fatto lo è; dico che si percepisce una certa lentezza perché se il regista (anche autore del soggetto e coautore della sceneggiatura) ha deciso di seguire la strada dell'assenza di trama, si è rivolto più all'autoreferenzialità del suo saper fare eccellenti inquadrature senza badare ai tempi narrativi. Insomma, per lavorare sull'assenza di trama devi saper percepire la ritmica del potenziale metronomo narrativo che hai deciso di dissimulare. Era uno dei pregi di Fellini (che comunque non amo), cui peraltro rimanda esplicitamente la fattezza dell'insieme di questo film.
In estrema sintesi: giocare troppo con la propria bravura, senza un minimo di umiltà, può minare seriamente le basi di un film come questo.
E, infatti, il film funziona per i primi 50 minuti esatti (provate a cronometrare), ma poi si incarta su se stesso, continuando a muoversi sulla stessa identica partitura per i restanti 80 minuti (avete letto bene: il film supera le due ore). Un disco rotto, insomma.
Al che lo spettatore è disperatamente costretto a rifugiarsi sull'efficacia di alcuni dialoghi, oppure su certe sublimi inquadrature, oppure sulla scelta musicale (di assoluta perfezione).
Insomma, mancando la trama, mancando parabole narrative, disperdendo il patrimonio recitativo di Servillo (che quindi gioca a rimpiattino col suo gigionismo), Sorrentino ripete lo stesso identico errore di Is This Must Be The Place: immenso talento, ottime idee, grande controllo degli strumenti... ma totale assenza di sapienza e di autocritica.
Io non credo che sia colpa solo di Sorrentino, ma del sistema cinematografico italiano di questi ultimi trent'anni. 
Lentamente, è sparita l'idea del produttore puro, quello cioè capace di dire "taglia", di dire "no", di lavorare anche sulla sceneggiatura oltre che sui costi. Oggi, il produttore lavora solo sulla ricerca dei fondi per finanziare un progetto, non avendo voce in capitolo; semmai nel capitolato.
L'altro grande fallimento nostrano sta nella critica cinematografica: marchettona, ammiccante, familista e contaminata dal fatto che i giornalisti degli uffici stampa possono essere anche critici cinematografici più o meno free-lance (e viceversa), generando di fatto un ambiente chiuso dove non conviene essere troppo professionali, altrimenti si perdono occasioni lavorative (già esigue, va detto).
E Roma come ne esce? Esteticamente, bene; moralmente, lo schifo che potete immaginare. Certo, Sorrentino si lascia andare a un implicito "siamo tutti responsabili" come anche a un esplicito "non si potrà mai cambiare nulla"... ma fa parte dell'autoassoluzionismo che purtroppo mina alla base il nostro modernismo.
Scene da salvare: l'intervista alla pseudoartista che parla di "vibrazioni" senza saperle raccontare; il salottiero j'accuse contro la borghesissima e ipocrita pseudo femminista di sinistra che si vanta di meriti che non ha e dimostra di non aver praticato.
Per finire, una domanda: possibile che non riusciamo a gareggiare per gli Oscar se non con film che sguazzano sui nostri difetti?