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05 luglio 2024

GATO BARBIERI, UNA BIOGRAFIA di Andrea Polinelli

Pulita, ordinata, documentata, ben scritta e strutturalmente fluida, questa biografia su Gato Barbieri è un ottimo esempio di come si possa dedicare un corposo libro a un artista straordinario senza sbavature agiografiche. 

Andrea Polinelli riesce a mettere insieme contesto storico, vita personale, vita artistica e il contributo nella Storia della Musica di un sassofonista che la nostra memoria ha sempre relegato solo dentro lo sguardo perso di Marlon Brando e l'infelicità di Maria Schneider.

E, invece, è stato molto altro. Vi dirò: neanche sospettavo quanto fosse stato così importante anche per le sue idee, all'inizio debitrici del migliore Coltrane, poi sempre più personali e peculiari.

Testimonianze mai esagerate (spiccano quelle di Rava e Rea), una narrazione composta e ritmicamente ineccepibile, rendono questo libro una piccola perla nel panorama delle biografie, anche quelle non per forza musicali.

In coda al testo, c'è una serie di appendici tecniche, di quelle che personalmente cerco in tutte le biografie musicali, ma che raramente gli autori concedono (vuoi per non appesantire la lettura, vuoi perché ci vuole pazienza e umiltà a proporre con approccio propedeutico le partiture complesse).

Suggerirne l'acquisto anche ai meno specializzati potrebbe sembrare un azzardo. Però, raramente ho incontrato un libro che sapesse rendere così bene cosa siano stati veramente quegli anni e quale sia stato il contesto storico più in generale, quindi non solo musicale.

08 aprile 2016

Blue Trane - La vita e la musica di John Coltrane

Di questa perla biografica ho la prima edizione, che ebbe strana fortuna per motivi grafici: sulla costa il cognome dell'ottimo autore, Lewis Porter, era scritto con un corpo superiore a quello del musicista trattato, generando di fatto l'equivoco che la biografia fosse su Cole Porter e non sul grandissimo John Coltrane, un'iradiddio del sassofono che ancora oggi saprebbe insegnare grandi cose.
È un testo che marcia su almeno tre grandi direttrici: una biografia asciutta, nitida e ben articolata che racconta anche un'America di altri tempi, nel bene e nel male; un saggio musicale accessibile anche all'ascoltatore meno avvertito alla teoria musicale; un preciso manuale musicale per musicisti esigenti e competenti.
400 pagine di testo e spartiti, oltre 10 pagine di fitta bibliografia, un indice dei nomi vasto e accurato, utili e precise annotazioni per quasi 50 pagine... nessun chiacchierismo personale o sciatto in cui (come solo sanno fare certi critici italiani) il protagonista sembra più l'autore che il soggetto del testo. Insomma, un libro perfetto che non dovrebbe mancare nelle vostre librerie.

01 febbraio 2015

Golden Age di Nir Felder

Aaaaah, che delizia di cd.
C'è New York, ci sono i campi sterminati dell'Oklahoma, c'è l'impegno sociale, c'è Pat Metheny, c'è (un bel po' di ) Coltrane, c'è dell'ottimo drum and bass... e tutto dalla penna di un trentenne chitarrista con le idee molto chiare.
Dopo anni trascorsi come session man, insomma, Nir Felder ha deciso di regalarci un'opera ricca di suggestioni e anche di prodezze tecniche, entrambe sempre misurate, ariose e spontanee.
Si parte con una Lights che lascia spiazzati, perlomeno a chi pratica il jazz in maniera rigorosa. Un giro di chitarra volutamente sporco accompagna citazioni e visioni che forse un americano saprebbe cogliere meglio nella loro ricercata sequenza.
Dopodiché, primo gioiellino, c'è Bandits, dove cominciamo ad apprezzare anche i compagni d'arme (sempre sincroni e in sintonia): Aaron Parks (piano), Matt Penman (contrabbasso), Nate Smith (batteria e percussioni: l'avevo conosciuto a questo concerto di Joe Jackson).
Arriva quindi Ernest / Protector, un po' Metheny e un po' Coleman, ma più lineare e attenta alla ritmica (addirittura, qui e là alcune note ricordano Robert Fripp).
Sketch 2 sembra riprendere l'impostazione iniziale dell'opera: un giro di chitarra che accompagna dichiarazioni registrate dei grandi di ieri e di oggi, con un probante e fondamentale batterismo in eccellente progressione.
Code procede con leggera staticità: è forse il brano più debole del cd.
Memorial ritorna sui passi in stile Metheny/Coleman/Fripp, con un tecnicismo più aggressivo. Va ascoltata con attenzione, proprio perché le note sembrano ovvie; ma poi, e invece, prendono una strada che cattura l'attenzione e non ti molla più.
Lover... che dire? Nella sua totale e sfacciata commercialità, è un brano bellissimo. Lo trovo meraviglioso, soprattutto a volume molto alto, dove si ha la possibilità di percepire meglio certe sequenze di accordi. L'intero gruppo lavora con disinvolta precisione.
Bandits II è una dolce meraviglia, forse scontata nella forma ma non nella sostanza. Da gustare più e più volte.
Slower Machinery è un mirabile esercizio di stile, dove tutti i musicisti si cimentano in un rincorrersi e provocarsi, regalando all'ascoltatore sei minuti abbondanti di liquida frenesia.
Before the Tsars è un soffuso e vaporoso giro quasi ipnotico (à la Satie, per dire; ma non c'entra nulla) dove si sente moltissimo l'influenza tecnicostilistica del maestro di Felder, John Scofield... dopo una breve pausa, il brano riprende brevemente Lights, chiudendo l'ultima nota con una frase ben precisa (quale, lo scoprirete voi).
Insomma, vale un acquisto immediato.
 

02 gennaio 2015

Joe Lovano / Chris Potter Quintet a #UJW22

Non poteva esserci omaggio migliore al cinquantesimo anniversario dell'uscita di A Love Supreme di John Coltrane.
Joe Lovano e Chris Potter hanno dimostrato che quella musica è ancora attualissima, che ha ancora misteri da svelare, che si può suonare insieme senza perdere la propria identità.
Joe Lovano ha regalato più colori ed espressività; Chris Potter, invece, tecnica e sicurezza.
Pazzesco il batterismo di Jonathan Blake: a volte esuberante, si è dimostrato accurato e attento ai vari momenti solistici, supportandoli con contrappunti di rara eloquenza.
Timido ma sicuro il pianoforte di Lawrence Fields: ha (giustamente) evitato l'approccio originario di McCoy Tyner, mantenendo un determinante basso profilo.
Sontuoso e sofisticato il basso di Cecil McBee: a 79 anni portati egregiamente, ha dimostrato quanto la musica possa salvare le nostre anime.

24 marzo 2014

IDA, quando la fotografia salva dall'ovvietà

Ida potrebbe essere un film esemplare, se non fosse per due elementi che ne minano le basi: un montaggio troppo indulgente e una trama esile esile, con un impercettibile sottofondo di moralismo cattolico che potrebbe addirittura irritare. La fotografia è eccellente: vedo film da quarant'anni, e raramente mi ero imbattuto in inquadrature così belle - e anche coraggiose: sfidano più volte la sezione aurea, con momenti di autentica innovazione. Aggiungeteci che quando i movimenti degli attori ne variano le proporzioni, comunque queste inquadrature mantengono dinamismo e fascino. Complimenti, complimenti davvero.
Il montaggio, purtroppo, sembra distrarsi da cotanta bellezza, senza dare il giusto ritmo alle scene, tanto che non si percepiscono né scarti narrativi, né tantomeno una sorta di suddivisione schematica che dilati o riduca i passaggi della trama. 
Quindi, o la sceneggiatura andava sensibilmente ritoccata, oppure il cinema polacco si conferma tale nonostante l'evoluzione dello strumento e le ipotizzabili influenze esterne (complice la Caduta del Muro) che avrebbero dovuto colpire anche Pawel Pawlikowski, il regista.
La storia è suddivisa in tre sottotrame: il percorso della protagonista da Anna ad Ida (cioè: le sue origini e la trista storia della sua famiglia), il rapporto con la zia (una bravissima Agata Kulesza), il percorso religioso di Ida.
E, nonostante le potenzialità, anziché amalgamarsi, queste tre opportunità narrative sembrano appiccicate, con tanto di esiti scontati e prevedibili. A questa fragilità aggiungerei: una petulante inespressività della protagonista (Agata Trzebuchowska) incapace di restituire le giuste sfumature; un sottofondo di moralismo cattolico che si affretta a dare lezioni di vita con una scelta finale addirittura precipitosa.
E già: nonostante tutto il film abbia tenuto sempre lo stesso ritmo, il finale accelera troppo velocemente, dando una sensazione di frettolosità a livello produttivo anziché estetico.
In conclusione, scelte musicali eterogenee e significative: si va dallo Jupiter di Mozart a 24mila baci, passando per Naima ed Equinox di Coltrane... incredibile ma vero, e gustoso.
Un film da 7 - che poteva decisamente raggiungere la perfezione

30 dicembre 2013

Lewis Nash e Steve Wilson a #UJW21 (recensione da #Orvieto, #jazz)

Un'operazione rischiosa quanto affascinante che non ha tradito le aspettative, anzi: i sax di Wilson e la batteria di Nash hanno regalato un concerto memorabile e ricco di bellissima musica.
Sicuramente è stato un set dall'ascolto impegnativo; in più, è sempre più evidente come tra i due il più dotato e personale sia Nash: ma sono stati novanta minuti di altissima musica come raramente si era ascoltata negli ultimi Winter di UJ.
Scaldate le mani con un Fats Waller in stile Coltrane (con un raffinato Jitterbug Waltz), omaggiato a dovere il vate Silver, i due hanno raccontato Monk alla grande, con una suite di venti minuti che ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza, rispettando i rigorosi ma fluidi canoni di Monk.
Se mai voleste ritrovare le radici profonde del Monk più vero e più genuino, dovreste trovare e provare questa suite magistrale.
Si è passati poi per un Ellington meno noto per finire dentro i due momenti solo: Wilson ha cercato Coltrane con ogni singola nota, mentre Nash ha dimostrato di essere più intraprendente, dando anche del filo da torcere a Roach e Williams cui sembra riferirsi a più riprese.
Gran finale con una Caravan molto suggestiva in cui i due sembravano più rincorrere  con disinvoltura la ritmica originale di Sonny Greer che la nota melodia.
Bis rapido ma sornione, e un disco promesso di imminente uscita.

06 novembre 2013

Joel Harrison - "Free country"

Ho scoperto solo adesso questa perla di lavoro datato 2003 e proposto dalla ACT con disinvolto coraggio: "Free country" del talentuoso chitarrista Joel Harrison.
Incredibile ma vero, al contrario di quanto uno si possa aspettare, non si viene assaliti dal solito chitarrismo individualista: Harrison cuce e ricuce musiche suggestive o divertenti rispettando i due paradossi, senza mai strafare, e mettendosi al servizio del gruppo e dei suoi ospiti (e che ospiti).
Un'opera quasi-jazz in cui il nostro virtuoso esplora brani tradizionali nativi e americani in egual misura, ritagliandosi momenti di chitarrismo a metà tra il Frisell più intimista, il Larry Carlton prima maniera e quegli assoli oltraggiosi al punto giusto tipici di Coltrane.
Sorprende il fatto che gli arrangiamenti non sembrano usciti dalla penna di un chitarrista (provate Metheny per capire cosa intendo), ma da un musicista più curioso e disponibile che ha saputo estirpare da ogni strumento la sua natura reale.

La formazione tipo
Joel Harrison - electric, fretless, steel guitar, and cassette machine 
Dave Binney - sax, sampler (forse ovvio, ma preciso)
Rob Thomas - violin (tutt'altro che stucchevole)
Sean Conly - bass (eccellente)
Alison Miller - drums (preciso)

Gli ospiti, invece, sono 
Norah Jones - voice (non mi è mai piaciuta)
Raz Kennedy - voice (buona)
Jen Chapin - voice (ottima)
Uri Caine - piano (un grande)
Tony Cedra - accordion (anche lui evita stucchevolismi, per fortuna)

Devo dire che la voce della Jones è l'unica nota stonata di un progetto invece avvincente; per fortuna non è ovunque. 
Se poi provate un preascolto randomizzato, vi renderete conto che avete a che fare con canzoni e momenti tutti diversi, eterogenei, ricchi di sub-generi quasi insospettabili; e senza che il brano originale di riferimento ne risenta più di tanto.
In più, al contrario di quant'ho letto in giro, non è di così "difficile ascolto"; addirittura Uri Caine si ricorda di monkeggiare il giusto.

19 giugno 2009

il libro che non t'aspetti

La famiglia Marsalis ha tanti componenti quanti sono gli strumenti basilari di un'orchestra jazz (basso escluso, ma poco importa): Branford (sassofoni), Jason (batterie), Delfeayo (trombone), papà Ellis (piano) e Wynton, trombettista di cui parlerò brevemente in questa sua curiosa veste di saggista.
Come il jazz può cambiarti la vita è uscito qualche mese fa. Ma finché non era uscita la recensione entusiasta di Musica Jazz non mi ero azzardato ad acquistarlo, tanti sono i saggi scritti da jazzisti notevoli che poi però si rivelano essere pessimi scrittori.
Qui, invece, siamo di fronte a un testo che oserei definire addirittura essenziale dal punto di vista musicale, sociale, e della cultura più in generale. Non solo per la ricercatezza dei termini usati (vivaddio passati indenni da una traduzione curata male), ma per la pertinenza delle critiche e delle analisi, sia sui grandi musicisti di sempre che su alcuni elementi fondamentali del jazz. È veramente una gioia dello spirito intrattenersi con questo umile ma consapevole artista, veramente una gioia.
Non manca un capitolo dedicato ai grandi maestri verso i quali Wynton sente di avere più di qualche debito: Louis Armstrong («Il suo suono ha il potere di guarire»); Duke Ellington («Un tocco della sua mano sul pianoforte e la luna entrava in una stanza»); Billie Holiday («Se metti del sale in una bevanda dolce la rendi più dolce, ma se aggiungi zucchero all’amaro diventa ancora più amaro: così era Billie»); John Coltrane («Qualcosa nel suo suono ci penetra con la compassione della bellezza più pura e sublime»).
Grande riconoscenza anche per Ornette Coleman, per John Lewis e per Thelonious Monk, ma nessun cenno verso il gigante Charles Mingus.
Qualche spigolo verso Miles Davis, cui Wynton riconosce grande genialità, ma anche l'essere un carnefice «dell’adulazione e del mercantilismo». Insomma, il Davis del grande ritorno non dice nulla, anzi è addirittura deleterio e poco esemplare Il meglio, quando è corrotto, diventa il peggio»).
E - diciamolo - ci vuole coraggio a saper cogliere un aspetto così visibile di Davis ma che in pocchi hanno avuto l'onestà intellettuale di dire apertamente.