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22 dicembre 2021

THE LAST DUEL di Ridley Scott

Sconsiglio di andare a leggere la storia da cui è tratto questo film. L'unico elemento necessario per godere la trama - più che altro la sceneggiatura, è che si basa su un fatto realmente accaduto: l'ultima ordalia occorsa in terra francese (1386) le cui cause vengono rappresentate da tre prospettive diverse.
E anche se non conoscete il contesto o certe battaglie e alcuni nomi, poco male: li andrete a leggere dopo, altrimenti vi rovinate quell'impercettibile afrore di meraviglia e di partecipazione che si respira durante la visione, nonostante non siamo certo di fronte al capolavoro
.
C'è molto "Rashomon" in questo film, assai poco di Pirandello, anzi nulla. 
Sicuramente, non è il migliore Ridley Scott. Ma qua e là ci sono momenti di assoluta qualità, come anche un insieme che funziona e rende la visione piacevole e costante, senza guizzi evidenti ma nemmeno senza momenti di evidente stanca.
Per quanto riguarda la direzione della fotografia, ho trovato incoerente la scelta delle luci, questo sì: ogni tanto televisiva, spesso stridente nei controcampo, credibile ed efficace solo nei set all'aperto. Le inquadrature, invece, funzionano, obbligate come sono a rispettare certe angolazioni, soprattutto nei capitoli successivi al primo; altrimenti lo spettatore non riesce a percepire i diversi punti di vista. 
Il montaggio funziona abbastanza bene, soprattutto perché la sceneggiatura impone scelte ritmiche così precise che non sono consentite sbavature.
Musica quasi inesistente o comunque di contorno: ottima scelta stilistica, perché contano solo i dialoghi e i rapporti interpersonali; il resto è inutile.
È sulla scelta degli attori che avrei da ridire: non funzionano.
Tranne Jodie Comer, che riesce ad aderire a un'idea del suo personaggio - e a restituire ottimamente il terribile mondo femminile dell'epoca, sia Matt Damon che Adam Driver sono fuori contesto; più il primo che il secondo. Non so se sia il trucco/parrucco o la loro attitudine, ma sembrano veramente due tipi dell'Alabama, scesi per caso da un treno del 2021, per far finta di essere due cavalieri del Medioevo.
Paradossalmente, funziona meglio Ben Affleck, nonostante abbia una scopa di saggina in testa e quel suo approccio scocciato e monocorde di recitare.
Segnalo questo film, perché mi ha colpito il punto di vista di Ridley Scott: c'è, si sente, e sotto sotto si vede pure. È come se dicesse al pubblico che lui ha preso una posizione e che crede fermamente a una e una sola versione dei fatti. E lo fa alla sua maniera: con mestiere e professionismo, riuscendo a raccontare anche momenti scabrosi senza scadere mai nel pruriginoso.
Il mio voto è 6: il buon Ridley se ne farà una ragione? 

25 luglio 2019

l'assenza di Rutger Hauer

C'è una curiosa costante nelle interpretazioni più riuscite di Rutger Hauer: l'assenza. No, non voglio fare il saputellone che spara ca@@ate a raffica; però penso a certi suoi titoli e ho trovato questa costante che mi ha colpito.
Ne "I falchi della notte" era un cinico terrorista, con un'assenza di umanità e di empatia che lo caratterizzano all'inverosimile. Anzi, sono convinto che se fosse stato girato da un regista meno caciarone, sarebbe stato un film dignitoso.
In "Osterman Weekend", l'assenza di fiducia tra tutti i protagonisti tiene in piedi un thriller decisamente pedante. Paradossalmente, il fatto che il regista fosse anche un raffinato autore, ha reso lenta e stanchevole l'intera vicenda . 
"Ladyhawke" è un film dolcissimo e romantico al punto giusto. L'assenza di contatto tra i due amanti è una costante che si dipana solo alla fine, con un finale forse grossolano ma pur sempre zuccheroso. Andrebbe proiettato nelle scuole per dimostrare quanto sia possibile rendere palpabile la sensualità senza indugiare in tette e scopate. 
In "The Hitcher" torna l'assenza di umanità, ma segnata anche da un'elegante empatia dissimulata, resa possibile dalla consueta gamma di non-espressioni di Hauer: poche smorfie ma tanta profondità. A pensarci bene, è un film di formazione; se la regia fosse stata autorale, sicuramente parleremmo di capolavoro di genere.
"La leggenda del santo bevitore" dimostra tutte le capacità espressive di Hauer. La regia è pesante - e lo è anche il sopravvalutato libro di Roth; però c'è qualcosa che resta nello spettatore, forse perché questa volta l'assenza è della stessa realtà, offuscata dall'etilismo decadente del personaggio principale ormai morente.
No, non ho dimenticato "Blade Runner", che cronologicamente andrebbe tra i primi due titoli citati. 
È che dentro questo meraviglioso capolavoro ognuno di noi ha lasciato il cuore, l'anima, un'intimità difficile da rendere a parole.
Essere androidi come Batty, con la voce di Sandro Iovino, quel modo quasi erotico di Sean Young di accendersi la sigaretta (etereamente perfetta fino a quando Ford non le spettina orrendamente i capelli), le musiche eccellenti di un musicista generalmente ovvio (Vangelis), una fotografia che segna il cuore, odori e rumori e suoni e sensazioni... il perdurante dolore dell'assenza di anima negli androidi (ma anche negli uomini); dolore muto ma asfissinate che pervade ogni istante di un film che definire "perfetto" è dire poco.
La famosa scena della pioggia - improvvisata da Hauer poco prima delle riprese - porta con sé ogni destino, ogni respiro.
E adesso che Hauer se n'è andato, nell'anno in cui è ambientato il film, mi viene da pensare che il film sia vero, reale, palpabile. Ho quasi paura di andarlo a rivedere per l'ennesima volta.

08 ottobre 2017

Blade Runner 2049, quando il cinema esce sconfitto

Onestamente mi sfugge perché debba avvisare che incontrerete spoiler: dopo 8 minuti e mezzo, infatti, il "grande segreto" viene rivelato da Sapper Morton, un ormone grosso così, ovviamente androide, fatto a pezzi da Ryan Gosling dopo una westernosa colluttazione.
Se non ve ne accorgete, vuol dire che siete distratti; ma di brutto, eh!
Il resto, è una trama che fa di tutto per discostarsi dal vero Blade Runner, riuscendoci perfettamente: pessima sceneggiatura, dialoghi patetici, musica di rara bruttezza, buone inquadrature (a sprazzi va detto) uccise però da una scelta di luci monocromatica e senza identità.
E neanche gli attori si salvano: Ryan Gosling sta lì inebetito ad aspettare l'ultima danza di La La Land; Harrison Ford è ritornato nella carbonite di Star Wars; Robin Wright fa di tutto per sembrare se stessa; Ana De Armas è impresentabile... Sylvia Hoeks rovina tutto ma proprio tutto quello che poteva essere rovinato; il suo personaggio - nodale e pompato all'inverosimile, è la nemesi di Scott, colei che uccide e annienta definitivamente questo film già così arido e inconcludente di suo. E Jared Leto? Quando aveva cinque anni, mio nipote sparava cazzate più profonde e verosimili.
I testi e le situazioni, insomma, puntano pervicacemente verso un obbligo filosofico che nel primo non c'era, ma che scaturì naturale proprio perché non voluto. Basta leggere i saggi in merito e rivedere i numerosi making of per capire quanto Ridley Scott avesse puntato sulla trama e sulla qualità, potenze narrative che inevitabilmente avrebbero portato al solo e unico Blade Runner che meriti di portare questo nome.
Intendiamoci: non è che mi sia seduto pronto a fare confronti; né tantomeno ho preteso forzatamente di vedere ripetuta la magia del primo; oltretutto, la mia passione e competenza per il cinema mi hanno insegnato a essere aperto a tutto. 
Qui siamo di fronte a un film brutto! Chissenefrega se è collegato al Blade Runner originale. È un film fatto male. Punto.
Ora, cerchiamo di trovare una morale: al di là della bruttezza intrinseca del film, ha senso rincorrere e quindi insistere su successi fantascientifici del passato fortuiti ma leggendari?
Il franchising di Alien ci ha insegnato che è possibile usare un buon canovaccio e produrre ottimi seguiti (i prequel neanche li considero). Quello di Star Wars, invece, no: una volta visto il Quarto, tanto vale restare in casa. Star Trek, invece, ha alti e bassi: però, e alla fine, funziona e sa destreggiarsi bene tra novità e tradizione.
Ricapitolando: un personaggio (Alien) funziona quando ha con sé una forza narrativa intrinseca. Una storia (il Quarto di Star Wars), invece, funziona se inserita in un contesto che coniuga sapientemente tradizione e tecnologia. In mezzo troviamo l'ibrido Star Trek: funziona solo quando personaggi nitidi sanno convivere dentro la tradizione commista alla tecnologia.
E Blade Runner dove lo mettiamo?
Escludiamo il fatto che Scott l'abbia fatto per soldi (ha un conto in banca che risanerebbe l'Alitalia e la Rai in in sol colpo; e ne avrebbe in avanzo), cosa spinge un personaggio così intelligente a perdersi in queste inutilità?
Escludiamo pure che Villeneuve abbia agito in preda al timore reverenziale (anzi, troppo supponente è).
Dov'è l'errore?
Bella domanda.
L'errore forse sta nel fatto che noi siamo cambiati. Noi come pubblico. Non pretendo il ritorno del pubblico "militante", perché sarebbe una cazzata; né tantomeno mi sento dire che siamo di bocca facile (anche se in parte è vero).
Io sono convinto che l'intero "contesto cinema" sia così modificato da aver reso possibili e accettabili e benvenuti film orribili come questo Blade Runner 2049: tutto forma (peraltro noiosa), poca sostanza, trama incoerente ma speciosa, filosofia zen stracollaudata, inquadrature da iPhone comprato dai cinesi, dialoghi scritti col WhatsApp, religiosismi e fondamenti spirituali derivati da letture frettolose di guide religiose tradotte col translator.
Un disastro, altro che lacrime nella pioggia!

18 gennaio 2015

Exodus, quali dèi e quali re

Onestamente, mi aspettavo qualcosa di noiosetto. Invece, questa ennesima fatica di Ridley Scott scorre che è un piacere: a tratti quasi diverte; in alcuni momenti, poi, fornisce addirittura limpidi spunti di riflessione. Certo, non è il migliore Scott: se però vi state annoiando, potete pur sempre gustarvi l'eccellente scelta delle inquadrature, una mirabile lezione di fotografia.
Checché se ne dica, la sceneggiatura non rincorre il modello del Gladiatore, anzi. Sicuramente, e però, i dialoghi profondi sono rari e radi, sin troppo diluiti da una bellissima scenografia deliziosamente ridondante, da (necessari) effetti comunque strabilianti, da un doppiaggio incoerente (si passa dal bravo Giannini all'irritante Lorenzo D'Agata).
Peccato doppiamente, perché qua e là si respira l'intento di restituirci l'idea di un Ramses più umano e interessante del solito, un Mosè presuntuoso e nevrotico (Bale, poi, non sembra al meglio), un Malek arrogante e violento (mirabile l'idea di rappresentarlo come un insolente moccioso).
Sicuramente si anche è condizionati dal fatto che si conosce sin troppo bene la trama (o comunque le sue parti più favolistiche): a furia di pensare "vediamo come mi rappresenta questo o quest'altro", perdiamo di vista il blando tentativo di analisi psicologica.
Considerato che trovo importanti le scelte dei titoli, il fatto che questo contempli anche il sottotitolo Gods and Kings lascia pensare che Scott abbia voluto giocare cou un (bel) po' di significati: visto che il faraone era considerato sia re che dio, considerato anche che il dio ebraico è a sua volta un re, il gioco del plurale sta tutto nel voler capovolgere significanti e significato. E se questa è una facile speculazione ontologica, non lo è la semplice domanda: che razza di dio uccide i bambini? Cui dobbiamo aggiungere: che razza di dio ignora il suo popolo per poi farsi vivo solo dopo 400 anni?
Per i più curiosi, vengono rappresentate otto delle dieci piaghe: le tenebre, infatti, sono quasi accennate; l'arrivo di zanzare e mosche avviene contemporaneamente. A tutte Scott fornisce una più che plausibile spiegazione scientifica, tranne che sulla morte dei primogeniti: per restare nella laica coerenza, forse sarebbe bastato ricordare che i nobili egiziani si sposavano tra fratelli con una certa frequenza, che facilitava tare e problemi genetici di ogni tipo. 
Anche se non siamo esperti di cose egizie, ci sono almeno tre incongruenze eclatanti che saltano subito all'occhio: la camminata del primo Mosè, quello "egiziano" per intenderci, troppo in stile cowboy; la confidenza che in troppi si prendono quando parlano con Ramses; il gesto da marine dell'attendente di Ramses quando gli indica il precipizio (si porta indice e medio verso gli occhi e poi indica il pericolo, manco fosse un agente dellFBI).
Un po' dispersiva la musica di Alberto Iglesias, che peraltro nel leit-motiv che accompagna le intemperanze di Malek ha imitato il Parsifal wagneriano: nel caso di una storia ebraica, non mi è sembrata una scelta proprio felice.


24 gennaio 2014

#TheCounselor, un film da dimenticare

Ti chiami Ridley Scott e sai escogitare inquadrature incredibili, e hai anche un inimitabile senso dei tempi narrativi.
Ti chiami Cormac McCarthy, e scrivi ottimi romanzi da cui è quasi spontaneo tirar fuori sceneggiature eccellenti.
Ti chiami Pietro Scalia, e sei tra i primi dieci montatori di tutti i tempi.
Ti chiami Michael Fassbender, e sai recitare alla grande (e sei pure bono e interessante al tempo stesso).
Ti chiami Javier Bardem e sei tra i pochi attori spagnoli con un viso che non ricorda canonici rodei e nacchere...
Insomma, comunque ti chiami potresti fare solo che un ottimo film. E, invece, The Counselor - Il procuratore è proprio venuto male. E di brutto pure.
Lento, ovvio, banale, privo di suspense, con un finale così scioccherello che potreste scriverlo anche voi dal tinello di casa, mentre vostra moglie sbollenta il cibo di due giorni fa.
Addirittura, la distribuzione dei ruoli è così sconclusionata che mia moglie ha interpretato quello di Brad Pitt in un modo, e io nell'altro: il bello è che coincidono comunque.
La Cruz si conferma la madrina del club Le insopportabili.
Bardem si è dimenticato di svestire il ruolo di villain che aveva in 007 SkyFall.
Alla Diaz, invece, è sfuggito il chirurgo.
Infine, Fassbender riesce a fare la figura del fesso (perennemente fesso, eh!).
Tra le curiosità spicciole: l'iniziale danza sessuale tra le lenzuola è identica a quella di Identificazione di una donna (ci fosse un critico che se ne sia accorto); è la prima volta nella storia del cinema in cui Brad Pitt non mangia e non si succhia poi le dita; c'è una brevissima e deliziosa inquadratura di Fassbender che guarda un poster con... Steve McQueen (l'attore, non il regista); il doppiaggio supera la follia quanto un banchiere chiede a Cameron Diaz "ti mancano le tue cìta?" (in inglese il ghepardo si chiama, appunto, cheetah).
Peccato.

17 settembre 2012

Prometheus: l'alieno è Ridley Scott

Raramente nutro aspettative per qualcosa. Quasi mai.
Purtroppo, però, questa volta ne avevo, e tante. Voglio bene al cinema di Ridley Scott: maestro dell'inquadratura, uomo diretto e mai saccente o banale, incapace di dichiararsi "profondo" nonostante lo sia... insomma, un regista con i controzebedei che ha segnato la storia del cinema, ma anche quella della narrazione.
Ovvio che non mi aspettassi un prequel di Alien, sia perché è stato lui a dichiarare più volte che non voleva farlo, sia perché la solita critica sbracalona si era scatenata a definire Prometheus un film filosofico, spirituale, lontano dai quattro Alien precedenti.
Eppoi, diciamolo chiaramente: il canovaccio di Alien ha sempre funzionato, anche per il primo dei due spin-off dove si scontrava con Predator; e quindi anche in caso di menzogna furbetta, il gioco doveva funzionare.
Macché!
Qui siamo scaduti in basso. Notevolmente in basso. Troppo.
Attenzione: da qui in giù, spoiler in quantità industriale
Allora, se non è un prequel, perché Scott si autocita continuamente, in maniera pecoreccia peraltro (roba che non basta la memoria standard di un iPad per segnarsi tutti gli autoplagi)?
Se è un prequel, perché Scott non ha mantenuto alcuni elementi nodali che vedremo sullo sfondo del primo Alien?
Se non è un prequel, che mi significano la testa aliena che esplode durante l'autopsia, il compagno infetto che s'incazza di brutto contro gli altri, il facehugger grosso come un vaginone gigante che stupra la bocca dell'alieno mezzo ferito, l'aborto violento che si autoprocura la Rapace, le dirette conclusioni del pilota (gli alieni vogliono distruggere la Terra, da loro stessi popolata da quelli che siamo noi che forse siamo una variazione sul tema di Alien)... Insomma, sequenze buttate là, senza senno, senza senso, senza filo conduttore e senza un'esatta conclusione.
Se, invece, era un prequel, l'alieno muore in un altro posto rispetto alla posizione in cui lo troveranno quelli del Nostromo, l'alieno che esce dalla panza dell'alieno è veramente diverso da quello che conosciamo noi, le uova sono troppo squadrate rispetto a quelle che colpiranno gli sfigati del primo Alien, mai capiremo che fine faranno gli strumenti umani distrutti e sparsi per il pianeta alieno, la tecnologia è troppo moderna rispetto a quella del primo Alien, i facehugger erano grandi come una manona mentre qui sono più grandi della tettona di Woody Allen.
Eppoi: Fassbender sprecato e troppo umanizzato, la Rapace incazzata pure quando fa pipì, la Theron che dilata le narici in continuazione, gli altri personaggi buttati là alla rinfusa.
Ma, soprattutto, l'alieno che beve l'intruglio all'inizio, e da cui nascerà forse la umana umanità... Scott, porcaccia la miseriaccia zozza, accetto un altro Legend (che faceva cacare, diciamolo), due 1492 (altra schifezza), tre Un'ottima annata (terribbole), ma non dovevi farmi questo, proprio non dovevi.
Attenzione, poi: è previsto un seguito.
 

15 maggio 2012

L'invasione è vicina? Ne parlarono in molti

Irritato com'era dal fatto che ogni volta che diceva essere qualcuno tra il pubblico rispondeva non-essere, un attore scespiriano invitò il saputello del momento a continuare lui sul palco per perpetuare quel delizioso monologo - un monumento della pura dialettica, va detto.
Ecco, quand'ho fatto cenno ad alcuni che questi cosi che invadono la principali città italiane sono il prologo dell'invasione, subito mi hanno risposto i-baccelloni!!!!... dico io: ma non avete capito la serietà del fenomeno?
Innanzitutto, a cosa servono questi cosi (per Madre Natura intendo)? A nulla! Orbene, esiste il nulla in Natura? No!
E poi, avete fatto caso a quanta gente vi guarda strano quando siete per strada? Sono aumentati!
Io non dico che ci sia qualcosa di strano. Semmai c'è qualcosa di strano.
Però, se proprio vogliamo fare i saccentoni, di situazioni simili se ne sono viste nel cinema. Qualcuno si è ricordato del Terrore dalla sesta luna del mio Heinlein. Il libro era più ficcante; il film, meno (anche se servirà a Fleming per rubare qualche caratterizzazione per il suo James Bond). Solo che in questa storia gli alieni hanno attitudini comunque emotive; i-baccelloni!!!! proprio non lo erano. Anzi.
Il soggetto originale era un romanzo del 1955 di Jack Finney, che sostanzialmente finisce con la fuga de i-baccelloni!!!!. Ottima scrittura, trama decisamente ficcante.
Il primo film che smanazza la suddetta trama è L'invasione degli ultracorpi. Classe 1956, ha come regista il "lanciatore" dell'Eastwood più tosto, il grande Don Siegel, regista definito "difficile" solo perché coerente fino al midollo (insomma, non avrebbe mai lavorato per Berlusconi, come fanno SavianFazio, per dire). Finale possibilista, forzatamente aggiunto dalla produzione, che nulla toglie però all'allarme urlato dal povero disgraziato di turno (il cui protagonista ritroveremo tra una riga, in un delizioso quanto sanguinolento cameo).
A questo segue Terrore dallo spazio profondo. Classe 1978, è una sorta di film d'autore, perlomeno nella forma (ottime inquadrature; sceneggiatura in linea). Ci sono pezzi da novanta tipo Donald Sutherland (che ritroveremo nella Sesta luna sopra citata; allora è un vizio), Leonard "Spock" Nimoy, Jeff "La mosca" Goldblum, e quella povera disgraziata della Veronica Cartwright che avrebbe dovuto poi essere la Ripley di Alien, ma la Weaver aveva i genitori che coproducevano Scott, e Scott si piegherà al cambio di protagonistessa. In questo Terrore, si vede esattamente quello che sta accadendo a Roma e Milano: questi cosi che fluttuano nell'aria e invadono una metropoli anonima quanto superamericana. Quando gli umani contagiati ("replicati", va detto... replay, ripley, la Cartwright ci era già vicina) diventano amimici e asentimentici repliche di noi, per riconoscere chi non è infetto lo indicano cominciando ad urlare in maniera che ancora oggi fa fare tanta cacchetta al sottoscritto. Finale amarissimo, com'era giusto che fosse in quegli anni di riflusso (esofageo).
Urla che ritorneranno strascopiazzate nel ridicolo reremake del sopravvalutato Abel Ferrara. Classe 1993, Ultracorpi, l'invasione continua mischia i due episodi precedenti, aggiungendo due cosucce niente male ma sviluppate pessimamente: il tutto si svolge in una base militare... cosa strategicamente logica, come lo sarebbe anche invadere una megametropoli, anziché i paesini di Villaggio dei dannati - libro meraviglioso! - proposti due (forse tre) volte, nel 1960 e nel 1995. E poi i bambini sono stronzettini anzichésì. Finale aperto ma paraculo, che lascia il tempo che trova.
Ultimo, e per fortuna!, è l'orribbbole Invasion. Classe 1997, vede il quasipolacco Daniel "Bond" Craig posseduto e poi redento da Nicole Kidman, perché lei capisce tutto, intuisce tutto, e trova la soluzione all'invasione nebulizzando un sottoprodotto del suo silicone zigomale sulla città ormai infetta. Alla fine, vissero tutti felici e contenti, tranne lo spettatore addormentato.
Ma allora non ve ne siete accorti? Guardate l'escalation delle trame: si passa dalla denuncia al volemosebene. Sì, ci sono parentesi come la doppia Cosa dall'altro mondo (quella del 1951 e quella western di Carpenter), e vocazioni ammonitrici simili. Ma mai nessuna aveva detto chiaramente che è possibile invaderci togliendoci l'anima, il sorriso, lo scazzo, i sentimenti, l'odio, l'amore.
E la cosa sta accadendo. E io il 30 verrò visitato dall'otorino che forse è uno di loro e mi farà fuori perché sto parlando troppo.
Mi direte: proprio tu che sei ateo; tu, che curi il Canale Scienze per mamma Rai?
Appunto.


10 gennaio 2010

la morte di Dan O'Bannon

Uno dei reati commessi costantemente dai giornalisti è il mistificare la realtà o - peggio ancora - inventarne una che non esiste. Il che, a volte, porta anche alla morte piscofisica di certi personaggi straordinari. Uno di questi è Dan O'Bannon, che alla fine è morto anche fisicamente il 17 dicembre scorso.
Dan chi?, direte voi.
Ebbene, mai nessuno gli ha tributato legittimi e ampli meriti cinematografici: accadeva solo durante gli incontri tra noi appassionati, o nelle chiacchierate all'ombra dei salotti bene pieni di incravattati sapientoni.
Se chiedete in giro chi diede l'impulso ironico al bellissimo Dark Star, vi risponderanno solo John Carpenter.
Se approfondite la storia della genesi di Alien, verranno fuori solo i nomi dei soliti noti.
In realtà, in Dark Star il nostro amico prematuramente scomparso recita, comonta e coscrive, imprimendo un azzeccato slancio umoristico che Carpenter avrebbe voluto più dissimulato. Per dirne una, la più banale: suo sarà il "penso, quindi esplodo" pronunciato cinicamente dalla bomba atomica difettosa.
Il conflitto tra l'alieno indistruttibile e un'eroina semiandrogina era nell'aria da tempo (l'idea di Alien nasce agli inizi dei '70), ma fu O'Bannon per primo a strutturarla come la conosciamo noi, andando ben oltre il seminale It! The Terror from Beyond Space (1958) cui palesemente faceva riferimento.
Come non dimenticare poi il suo contributo alla supervisione delle miniature e degli effetti speciali del primo (poi quarto) Guerre Stellari, o la scrittura dell'episodio sul bombardiere fantasma in Heavy Metal, o i suoi plot e idee in Total Recall e in Screamers... pietre miliari di un cinema fatto ancora di idee e di artifici comunque umani, fisici, sudati, senza pc o forzature virtuali.
O'Bannon girò anche un film, Il Ritorno Dei Morti Viventi (1985), una modesta presa in giro del classico di George Romero. Per molto tempo è stato dimenticato, o comunque relegato nella gora degli eterni misconosciuti, di quelli uccisi dal "sì, ma..." che troppe volte rende ignoti i giusti e stranoti gli imbecilli.
Per me resta un caro amico di mille visioni al buio in scomode sale parrocchiali, quando hai il terrore di alzare lo sguardo verso lo schermo, ma non vedi l'ora di spaventarti come si deve.
So long, Dan, so long.