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20 ottobre 2020

How Wonderful You Were, my dear Gordon Haskell

Nella ormai indefinibile lunghissima storia dei King Crimson, In the Wake of Poseidon non gode di buona fama, nonostante alcuni momenti sublimi e la discontinua presenza dell'ormai ex Greg Lake. Alcuni critici frettolosi lo considerano una sorta di gemello povero del seminale In the Court of Crimson King, mentre io sono convinto che in esso si possano ascoltare momenti di sperimentazione e di modernissime intuizioni che destano poca attenzione solo a causa di alcune sonorità troppo datate. 
Ad ogni modo, è un LP, CD, MP3 (fate un po' voi) che almeno una volta nella vita andrebbe ascoltato per intero, e magari consecutivamente. Anche e solo per un motivo: l'impatto con Cadence and Cascade, una perla di sublime bellezza che ancora oggi disarma per quella sua vellutata e rarefatta pastosità di note sottili e commoventi.
E la voce che vi accarezza l'anima è quella di Gordon Haskell, anche bassista del combo, nonché voce definitiva nel successivo Lizard (questo ancor più sperimentale, con una stridente coda vocale di Jon Anderson, la voce degli Yes).
Gordon Haskell discuteva spesso con il leader Robert Fripp, suo ex compagno di classe. D'aldronde chi è che non l'ha fatto? Il primo troppo vicino al folk e al jazz; il secondo, invece, incline alla quadratura dell'impossibile.
In linea generale, va detto che Fripp ha sempre preferito pescare (o inventare) le migliori voci tra i migliori bassisti, quasi fosse un requisito obbligato: Lake, Haskell, Burrell, Wetton, tutti bassismi distinguibili, presenti, alcuni rivoluzionari; Belew è stata un'eccezione, ma fino ad un certo punto, visto che ha un approccio armonico tipico del bassista in nuce.
In Lizard, Haskell dà prova di grande spessore, di acuta attenzione per le sfumature, anche di una certa volontà interpretativa, specie in Lady of the Dancing Water, come anche in Indoor Games. Però il tessuto musicale è così tetraedico, spigoloso, cerebrale, che ci si perde per strada tra le eccessive sperimentazioni; io le adoro, ma mi rendo conto che mettano a dura prova l'ascoltatore meno allenato.
Fatto sta che, appena finita l'intera registrazione, Haskell sbatte la porta in faccia a Fripp, perdendo il treno della fama e della gloria, riuscendo solo una volta - dopo faticosi tentativi troppo personali - a ritagliarsi una brevissima parte nella Storia della Musica nel 2002, con l'eccellente ballad How Wonderful You Are.
La prima volta che l'ascoltai, mi commossi e mi sentii anche in colpa: solo dopo capii chi era stato quel crooner ormai maturo, con le rughe piene di storie e la malinconia che scendeva dagli occhi. 
Una voce cui abbiamo dato poco merito e che avrebbe potuto donarci più note senza tempo se solo avesse avuto la voglia di restare nel mondo dei normali.
Ma quando si è così dolci e insicuri, la vita non dà scampo, lasciandoti nel mondo della leggenda solo quando sei morto.
So long, Gordon, e grazie.

04 febbraio 2017

John Wetton e la voce che sa di muschio

Ricordo nitidamente Carlo Massarini quando presentò per la prima volta una canzone degli Asia, "Only Time Will Tell". La voce di John Wetton sembrava scaturire da un bosco inglese, in una brividosa alba di un autunno mite, con le mani in tasca dentro jeans sapientemente rovinati, l'alito appiccicoso dell'appena svegli e che buttava fuori umidità, un sorriso di un amico, l'ennesima sigaretta fumata a metà. 
Era una voce che sapeva aggredire ma soprattutto sedurre, con una gamma infinita di colori e di luci. E stiamo parlando di una canzonetta pop, peraltro raccontata da un video di rara bruttezza.
Dopodiché entrai nel mondo dei King Crimson e degli UK pressoché contemporaneamente. E lì il nostro amico mi cambiò la visione della musica. 
John Wetton suonava magnificamente anche il basso, con un approccio da macho duro e spietato con le donne, piazzandogli contro però questa sublime voce da disperato adolescente con l'aspetto già da adulto.
Non c'è canzone cantata da John Wetton che non sia una scuola di canto per neofiti. Non c'è una pausa o un silenzio che non siano perfetti, spontanei e studiati. Non c'è momento sperimentale dei King Crimson in cui il suo basso non sia l'impeccabile alfiere della spedizione sonora.
E del resto conferma(va) l'acuta attitudine di Robert Fripp di andarsi a scegliere sempre voci così impeccabili e sontuose, di più-o-meno bassisti, che coincid(ev)ano con la sua visione dei suoni e dei silenzi (ahimé, ne sono morte già tre su sei).
Nella mia particolare classifica di buon ascolto, metto al primo posto "Book Of Saturday", subito dopo "Exiles" e "Fallen Angel", quindi "The Night Watch", infine tutte le altre, indistintamente.
Paradossalmente, il mio CD preferito, però, non è crimsoniano: ma il primo e omonimo degli U.K., dove Wetton prende in mano le melodie e le nobilita con la sua voce al muschio albeggiante.
Secondo l'autobiografia di Bruford, Wetton aveva poca autostima. Non mi meraviglia, ma per un semplice motivo: fosse stato consapevole della sua inimitabile eleganza, sarebbe diventato stucchevole e presuntuoso come Sting. Il cronico disagio di Wetton, insomma, è stata la sua linfa artistica. 

Spero solo che adesso che sta lì nella Stanza della Musica di Sempre, possa finalmente rendersi conto di cosa diamine abbia lasciato nei nostri cuori.
So long, John Wetton.

28 gennaio 2017

intorno al saggio personale di Simon Critchley su David Bowie

Quello di Simon Critchley è un libro bello, a tratti commovente, sicuramente stimolante, ogni tanto anche istruttivo.
Appartiene a quel filone di libri densi-ma-comprensibili che solo gli anglosassoni sanno scrivere con invidiabile disinvoltura; addirittura riesce a coniugare la prospettiva personale con quella del dotto e acuto filosofo che sa leggere e interpretare ben oltre le solite canoniche visioni crociane che tanto ammorbano invece i saggi nostrani.
Oltretutto, e qui sta il vero punto, l'autore ammette platealmente di forzare la mano, di entrare nell'opera omnia di David Bowie con fare fazioso e filtrato dalle proprie passioni.
Utilizza cioè la premessa di una "personalissima opinione", assumendosene la responsabilità. Se ci pensate bene, quando noi italici diciamo "personalissima opinione", ci releghiamo in un ipotetico angolo, quasi come se l'avere un'opinione personale sia un reato da ammettere preventivamente. È un comportamento che mi sfugge e che addirittura mi irrita.
E la cosa ancora più seccante è che quando scriviamo saggi assimilabili a quello di Critchley, anziché avere l'onestà intellettuale di premettere tale attitudine - ma con fierezza, diamine - ci sproloquiamo addosso con frasone ad effetto, magari con la protervia dello "spiegare bene" perché tanto gli altri non ne hanno la capacità naturale di spiegarselo da soli.
Abbiamo, cioè, la strana visione distorta che la nostra documentazione (spesso facile e affrettata, peraltro) sia l'unica e incontrovertibile, anche quando i fatti ci darebbero torto. È capitato recentemente a Donato Zoppo quando ha scritto il suo pessimo saggio sui testi dei King Crimson, càpita nel giornalismo nostrano quando ilPost o Wired salgono in cattedra deformando la realtà in base a un preconcetto di comodo di partenza.
Il tutto è un miscuglio di faziosismi non ammessi, di ricerche di parte, di letture forzate, di pervicace uccisione della realtà reale.
Quand'ho letto Critchley, non mi sono sentito un cretino trattato da cretino: mi sono sentito a casa, in salotto, con del buon Laphroaig nel bicchiere, in compagnia di un amico che mi ha accompagnato dentro la sua vita e dentro la musica di David Bowie, e dentro la sua vita accompagnata dalla musica di David Bowie, ma anche dentro la musica di David Bowie come stimolo per viaggiare dentro il mondo e la mente di David Bowie stesso.
E mentre leggevo, scoprivo cose in comune con questo amico immaginario, ma soprattutto mi riempivo di dubbi, di incertezze sia musicali che personali, con una irrefrenabile voglia di riascoltare certi brani, di rileggere certe parti del libro, di andare oltre cioè la dottrina tipicamente propedeutica e rigida del saggismo all'italiana.
E, ciliegina sulla torta, è un testo pubblicato da Il Mulino, che non mi sembra una casa editrice così elastica e disposta verso le frontiere aperte e coraggiose di David Bowie, uno dei più grandi geni della musica di sempre.

14 novembre 2016

The elements of King Crimson tour 2016 - Il concerto di Roma

Narra la leggenda che nei credit di Trio figuri anche Bill Bruford nonostante non vi abbia suonato, proprio perché Robert Fripp gli riconobbe l'idea di non aver mosso percussione alcuna. Che sia vero o no, è tipicamente da Robert Fripp, e non solo sul piano della mera provocazione tipicamente british
Fatto sta che passare da questa sorniona visione artistica (del 1974) al tirar fuori ben tre batterie (in questo 2016), ne passa.
A livello emotivo, il concerto di Roma ha smosso il freddo calcolatore che è in me: non nascondo che ascoltando cose come The Letters (una delle mie preferite insieme a Book of Saturday, purtroppo e invece non eseguita) o Epitaph, il mio cuore si è commosso all'inverosimile, solcando qualche lacrimuccia nella guancia ormai cinquantenne.
Però bisogna anche avere il coraggio di astrarsi, di uscire fuori da se stessi: splendidi tecnicismi, impressionanti controtempi su controtempi, ma troppi tom e troppe casse gratuite.
Mia moglie ed io avevamo due posti eccellenti, ma Mel Collins ce lo siamo persi spesso e volentieri... per tacer dei (rari, stranamente) solismi di Fripp, umiliati da fracassoni rullanti.
Per carità: Vroom riletta tipo Peter Gunn Theme ha avuto un suo fascino; Schizoid Man interrotta da un drum solo di quasi dieci minuti, è già diventato un mo(nu)mento di rara eternità; Talking Drum sembrava uscita due giorni fa... però c'è qualcosa che non torna in questa operazione.
Fripp mi ha insegnato - ci ha insegnato - a lavorare per sottrazione. Ricordiamo cose tipo Islands: la Les Paul del nostro idolo quasi non si sente. Ricordiamo The Night Watch: Fripp esegue un solo di rara nitidezza senza "petrucciare" mai. Ogni brano dei King Crimson, insomma, è sempre stato caratterizzato dall'incantevole incontro tra grazia e matematica, tra calcolo e improvvisazione, tra algoritmo e pause. Sottrazione, sottrazione, sottrazione.
Nel concerto di Roma, invece, si è persa totalmente questa attitudine, questo sapore, questa lezione di vita (come l'ha definita anche Bollani, presentando proprio Fripp e Zappa come suoi unici esempi di come ci si debba avvicinare alla composizione).
Qualcuno potrebbe farmi notare come nel dvd Radical Action to Unseat the Hold of Monkey Mind che racconta questo Elements Tour non ci siano gli echi della pessima acustica della Conciliazione, e che si possono apprezzare serenamente le tre batterie.
Ma non mi basta, e non posso accettare di dover ragionare con questi distinguo: quelle tre batterie sono diventate troppe. Una scelta artistica che francamente non riesco proprio a comprendere.
È vero, i King Crimson degli anni '90 ne avevano due: ma una era di Bill Bruford, delicato e perfetto come pochi. È vero anche che il Miles Davis elettrico di batteristi ne usò addirittura tre: ma erano misurati e ben calibrati.
Qui abbiamo avuto: Pat Mastellotto, che da sempre picchia troppo e senza fantasia; Gavin Harrison - anche direttore musicale - che ha usato il rullante come la carta sulla lingua; Jeremy Stacey, che notoriamente ha un'eccellente anima jazz, soffocata però dai due comprimari.
Tra le curiosità: girava voce che non avremmo mai ascoltato qualcosa del primo periodo con Adrian Belew. Leggenda vuole infatti, che lui e Fripp abbiano litigato di brutto. E proprio mentre mi stavo rassegnando a subire la censura sul trittico degli anni '80, parte Indiscipline in una mirabile versione "lirica 2.0"... le cui parole, guarda caso, non sono di Adrian, ma della moglie, Margaret.
Una volta, quando Fripp si ritirò temporaneamente dalle scene, scrissi che era finita un'èra. Ma non l'era del prog, cui solo gli ignoranti assimilano i King Crimson; semmai era finita l'èra della musica rispettosa di se stessa.
Sabato sera, i King Crimson hanno rispettato il passato, hanno dimostrato che ha ancora molto da dire, che è "attuale" e originale all'inverosimile... ma hanno dimenticato la musica.
Tornando al me romanticone, invece, questo è stato l'ultimo concerto rock cui ho assistito. Mi piace averlo fatto insieme ai miei amici di sempre. 


La scaletta 
Tuning Up
Larks’ Tongues in Aspic (Part I)
Pictures of a City
Cirkus
The Letters
Sailor’s Tale
Epitaph
Hell Hounds of Krim
Easy Money
Vroom
Peace: An End
Fairy Dust
Meltdown
The Talking Drum
Larks’ Tongues in Aspic (Part II)
----
Magic Sprinkles
Lizard
Indiscipline
The Court of the Crimson King
Red
The ConstruKction of Light
A Scarcity of Miracles
Radical Action II
Level 5
Starless
----
Devil Dogs of Tessellation Row
21st Century Schizoid Man

29 giugno 2015

So long, Chris Squire, and thanks for all the fish

È morto. Non ci sta proprio niente da fare: Chris Squire è morto. Uno dei più grandi bassisti di tutti i tempi, un monumento delle armonie più intriganti, un generoso gigantone ricco di inventiva e di contraddizioni... è morto. Mor-to.
E io non riesco a immaginarmi la storia della musica, la storia della mia adolescenza, senza la presenza di quel terrificante basso che ha spostato oceani, laghi e fiumi, ma soprattutto il mio stomaco. 
Un basso maschio, audace, prepotente, arrogante ma anche dolcissimo, al servizio del gruppo, della musica, dell'insieme... un basso superveloce ma di cui sapevi assaporare con indolenza ogni singola azzeccatissima nota, un musicista che ha portato sulle spalle uno dei complessi più longevi (e più uguali a se stesso) che la storia del rock progressivo ricordi: gli Yes
E non solo di quella, visto che la leggenda vuole che Pastorius sia diventato Pastorius proprio grazie all'ascolto di Chris Squire.
Un basso+voce che è uscito dalla strada risicata di McCartney per sfidare quelle in nuce di Greg Lake, di John Wetton, di Boz Burrell, e di tutti i basso+voce che hanno costellato la storia della musica di Sua Maestà. Un basso che non voleva solo armonizzare la ritmica, ma indicare potenzialità e territori inesplorati dando quindi più spazio (e rischi) a tutti gli altri strumentisti (Howe e Rabin sembravano sempre dover rincorrere le note dal ventesimo tasto in su). 
Se non conoscete quel bassismo così unico, ascoltate Heart Of The Sunrise oppure Yours Is No Disgrace oppure tutta Magnification; opere che resistono ancora oggi all'attacco del tempo, e che forse resisterebbero ancora più se le tastiere avessero suoni meno datati.
Io Chris Squire l'ho conosciuto nella maniera sbagliata: sparandomi, cioè, prima il maledetto Tormato (una schifezza ambulante la cui unica perla è Onward, guarda caso sua), e poi il fastidioso Drama (quello da cui fu presa la sigla del televisivo Disco Ring più riuscito, per intenderci). 
Poi decisi di iniziare con le due bibbie - Fragile e Close To The Edge - e dissi a me stesso "ma chi sono i Genesis?, dei pipponi!". Potete immaginare le discussioni animatissime tra gli "Yes fan" come me e i gabrielani. Divertentissime.
Che poi, tecnicamente gli Yes hanno sempre vantato strumentisti di indubbia qualità tecnica; i Genesis, invece, hanno faticato a uscire dalle ovvietà di certe costruzioni sin troppo autoreferenziali. Gli Yes erano sperimentazione, i Genesis mammolette al servizio dei propri ego. Per carità, voglio bene a entrambi: ma alla lunga io mi perdo nelle complessità così acquatiche del quintetto più terrificante che la musica abbia visto insieme, Anderson, Squire, Howe, Bruford e Wakeman, altroché.
Sfortuna vuole che io abbia visto il primo e i secondi tre in una delle tante avventure musicali collaterali frutto di litigi tra ex-compagni-poi-di-nuovo-non-più. Ma Squire, no, non l'ho mai visto dal vivo. E mi dispiace tantissimo, dio come mi dispiace.
So long, gigantone dal basso bianco. 

13 giugno 2015

David Cross & Robert Fripp: Starless Starlight

Composto ben prima di apparire nel seminale Red (1974), Starless è uno di quei capolavori dei King Crimson che ancora oggi ha molto da dire, superando anche cronologicamente la prova del suono; andando oltre, cioè, quell'idea di vetusto che spesso l'equalizzazione degli strumenti di vecchi ascolti portano con sé (gli Chic, per dire, li incastonate nei primi anni '80 senza tanti problemi; e lì restano).
È uno di quei brani in cui convivono progressive, rock, pop, indie, hard rock e jazz senza soluzione di continuità. E dove muscolano prepotentemente autentici mostri sacri della musica che hanno suonato i generi più disparati prima, durante e dopo quest'esperienza, lasciando sempre tracce innovative e di rara qualità tecnicoestetica.
Ere dopo, quando Craig Armstrong volle cavalcare la sua improvvisa visibilità per aver curato le musiche di Moulin Rouge, se ne uscì con uno strano compendio di musica a metà tra l'ambient, il muzak e l'elettronico dal titolo un po âgé As If to Nothing (2002). Tra i brani facevano capolino anche curiose (ri)letture di brani eterogenei tra cui proprio il commovente incipit di Starless. Mi sembrò un'operazione un po' cafona ma molto efficace che però mi vide abbandonarne l'ascolto dopo pochi giorni.
Infine, solo pochi mesi fa è uscito questo stranissimo Starless Starlight a nome di David Cross e Robert Fripp (già, proprio lui: padre, figlio e spirito santo dei King Crimson). La cosa curiosa è che in Red il violino di David Cross non c'era: fu tolto all'ultimo momento, in fase di missaggio... ma soprattutto va ricordato che alcuni passaggi del brano originale erano chiaramente debitori di Messiaen. 
Ecco, mettete insieme queste curiosità sparse e capirete il senso di questa recensione: acquistare Starless Starlight significa ritrovare le radici originali del brano; significa ritornare indietro senza però diventare statue di sale; assistere al passato dalla comoda poltrona plastificata del presente; rendere grazie alla genialità di uno dei complessi più importanti della storia della musica, ma senza sembrare parrucconi nostalgici rincoglioniti.
Certo, per onestà intellettuale devo aggiungere che sono 56' di solo violino e soundscapes... ma chissenefrega.

09 aprile 2015

Hand. Cannot. Erase. - Steven Wilson azzecca tutto

Se la citazione fosse un'arte, Steven Wilson ne sarebbe il massimo esponente. Attenzione, non stiamo parlando di plagio o di scopiazzamento, ma di influenze musicali che una volta assunte (e ammesse) determinano di fatto la qualità artistica - e anche umana - di un artista. E Wilson è un fior di artista.
È chiaramente debitore dei generi che ama. Ma è riuscito nella rara impresa di sapersi muovere dentro queste influenze, senza rinnegarle, senza negarle, camminandoci accanto, spesso insieme, per poi donarci opere, idee e canzoni, a volte innovative, comunque molto belle, spesso coraggiose perché controcorrente (ma senza la spocchia del fighetto).
Gli riconosco almeno tre grandi pregi, il primo frutto di rara intelligenza: Wilson diversifica intenzionalmente le proprie attitudini musicali, in maniera radicale e riconoscibile (suoi sono i Porcupine Tree, suoi sono i No-Man), dimodoché ogni combo abbia identità e dignità assolute. Del resto, c'è uno specifico e netto file rouge in ognuno dei suoi progetti che li rende ognuno diverso dall'altro.
Il secondo pregio è la tecnica: sa usare le tastiere (ma senza strafare), sa suonare molto bene la chitarra (ma con inusitata misura), sa arrangiare i propri brani con scelte spesso coraggiose.
Il terzo pregio: la voce. La voce di Steven Wilson è un dono di rara purezza.
Devo confessare che alcune sue ultime cose con i Porcupine non mi sono piaciute più di tanto (io adoro Stupid Dream e Lightbulb Sun, per dire), e trovo che alcune sue strutture compositive siano diventate troppo prevedibili, come se avesse scelto di dire la sua solo in quattro/cinque modi, e basta.
Poi, però, appena ho ascoltato questo suo ultimo Hand. Cannot. Erase. sono rimasto folgorato. Un concept album struggente, dolente, dolcissimo e ricco di languore, che ti prende il cuore e la mente e non te li lascia più. Un salto in avanti che mi ha lasciato di stucco.
Il pretesto di partenza è purtroppo reale: racconta di Joyce Vincent, una ragazza con una sua storia, una dignità, aspettative e desideri come tutti noi, che sparì da un giorno all'altro senza dare più notizia di sé, ma soprattutto senza che nessuno - tra amici e parenti - provò a cercarla, contattarla, anche e solo telefonarle... la trovarono nel 2006, morta nel suo appartamento. Peccato che il decesso fosse avvenuto tre anni prima.
Stiamo parlando di una 38enne. Stiamo parlando di una città come Londra!
Wilson ha deciso quindi di raccontare alcuni momenti della vita di Joyce dalla sua ipotetica prospettiva. Insomma, il nostro compositore riesce a raccontare al femminile sentimenti forti e struggenti, uscendo dalla banalità dell'aneddoto per affrontare anche le petulanti costanti della società contemporanea, senza sparare le solite sciocchezze qualunquiste e salottiere, ma con testi decisamente belli e di rara profondità (cliccate qui per godere di una sommaria ma affettuosa traduzione).
Addirittura ha costruito un blog intorno al personaggio (qui in originale, qui tradotto) che vi consiglio di leggere con attenzione.
Per gli appassionati ed esperti, i musicisti che l'accompagnano nel progetto hanno tutti pedigree di indiscutibile qualità (e secondo me hanno pesato moltissimo sulla freschezza innovativa di questo lavoro): tra tutti spicca Adam Holzman, che ha lavorato giusto giusto con Miles Davis.
L'intervista che trovate qui sotto chiarisce molte cose di questo concept (attenzione a come spiega l'origine del titolo), e presenta anche un uomo intellettualmente stimolante, arguto, ancora entusiasta, umile e curioso.
Verso la fine, Steven Wilson spiega il suo sentirsi lontano dal rock progressivo cui spesso la sua musica viene accostata. E in effetti egli ha sempre dimostrato di conoscere e di apprezzare molto altro, non per forza cosi "vecchio" (certo, è anche l'ingegnere che sta ripulendo tutta la discografia dei King Crimson...).
Ebbene, non me ne vorrà se ho fatto le pulci al secondo brano di questo cd - smaccatamente datato (ma anche l'unico che contraddice i suoi distinguo). È un gioco, ovviamente; irriverente quanto affettuoso. Se vi va, prendete il vostro cd e sparatevi 3 years older insieme alla mia guida.



3 years older, un'analisi saccente e irriverente


  • fino a 00:26 siamo di fronte a Watcher of the Skies dei Genesis con un timido riferimento a Livemiles dei Tangerine Dream
  • fino a 00:39 c'è Pete Townshend degli Who di Tommy che incontra i Rush 
  • fino a 00:54 Cinema Show chiama, Steven Wilson risponde
  • fino a 01:00 Genesis e Rush danzano con i Dream Theater
  • fino a 01:28 i Genesis di Cinema Show incontrano gli Yes di Survival
  • fino a 01:50 Yes purissimo, con il bassismo dello stesso Wilson che ricorda Chris Squire, ma più grunge
  • fino a 02:25 i Led Zeppelin e Steve Howe si sono fusi al centro di Londra
  • poi, per pochissimi secondi, con la mente canticchiamo Home, home again... I like to be here when I can che però si fonde - di nuovo! - con Survival degli Yes e con gli stessi Pink Floyd (ma di Obscured by clouds, questa volta)
  • da 02:51 comincia il cantato, dove i Beatles incontreranno costantemente Crosby, Stills e Nash (ed è da sturbo, ammettiamolo)
  • a 03:35 il tema b è una variazione sul tema a che vi fa venire voglia di rispondergli con quel classico controtempo blueseggiante di Hey Joe (provateci, ci sta tutto)
  • e quando entrano le tastiere (un mellotron decisamente azzeccato), torniamo nei binari wilsoniani cui fa da splendido contrappunto una slide guitar (04:14, circa) che porta con sé mille storie di sempre
  • poco prima del ritornellone sparatissimo, se ci fate caso si intrasente una seconda chitarra dal suono cristallino (04:38) che ricorda certe cose di Phil Miller degli Hatfield and the North
  • a 04:50 parte il tipico "ritornellone wilsoniano senza parole" che spari a palla dentro l'auto in mezzo al traffico, che però a me ricorda moltissimo No Opportunity Necessary, No Experience Needed nella versione degli Yes, ma soprattutto The Song Remains the Same dei Led Zeppelin (i più pignoli ci troveranno anche qualcosa di Musical Box dei Genesis)
  • a 05:17 parte un momento pianistico alla Jordan Rudess di Six Degrees of Inner Turbulence
  • dopodiché, troviamo gli stessi topos illustrati finora
  • a 06:50 scomodiamo i Genesis di Trick of the Tail (ma anche gli Opeth)
  • ma da 07:26 parte l'imprevedibile citazione delle citazioni: Van Der Graaf Generator (Pawn Hearts, per la precisione) che poi sbarellano addosso a Keith Emerson
  • da 08:40 si capisce quanto sia abile Steve Wilson a rimettere tutto dove vuole lui e come vuole lui (ecco perché so che non si offende se lo prendo un po' in giro con questo post): un delizioso passaggio di synth inanella una nota suadente dopo l'altra
  • da 09:34 riparte un bassismo alla Chris Squire veramente di qualità 
  • dopodiché, il brano si sgretola per poi trovarsi nella terza traccia

17 febbraio 2015

King Crimson, il pensiero del cuore - Un buon libro

Finalmente un buon libro sui "miei" King Crimson. E non tanto per quello che dice, ma per l'impostazione. 
Nicola Leonzio, cioè, racconta la storia (e la geografia) musicale della grande invenzione di Robert Fripp, senza mai strafare. Riesce a separare accuratamente il proprio gusto personale dalla cronaca, dalla tecnica, dalla qualità delle esecuzioni, dal profilo dei protagonisti.... senza mai sconfinare nell'uno o nell'altro campo.
È un libro denso ma ben scritto (un solo refuso, finora), dove si capisce l'impegno dello scrittore nell'aver voluto dire tanto ma senza aggredire il lettore, senza affogarlo con la sua presunzione.
Paradossalmente, è quasi un libro didattico, senza avere però quel peso liturgico che i libri didattici portano con sé, perlomeno nel nostro immaginario.
Certo, personalmente non condivido gli eccessivi riferimenti beatlesiani, specie ricordando certe dichiarazione proprie di Fripp. In più, non riesco a capire come mai Arcana si ostini a non guarnire questo tipo di libri con un accurato indice analitico. Ma sono due macchie trascurabili.
Mi piace poi il fatto che Leonzio non si scateni a farsi notare interpretando testi e dichiarazioni a proprio comodo. Ancor più va apprezzato il suo aver ascoltato anche cd meno noti, o comunque relegabili sullo scaffale per collezionisti: chi conosce bene i KC sa che vanno ascoltati anche questi live perché indicativi di un percorso tecnicoartistico di rara importanza storica. Mirabile, infine, la scelta di raccontare accordi e tecniche esecutive con linguaggio tecnico ma comprensibile.
In coda troviamo anche tre intriganti appendici: estratti da un’intervista a Robert Fripp; il chitarrista jazz Claudio Fiorentini illustra e analizza il solo acustico di Cirkus, il solo elettrico di The Night Watch (rivelando un segreto che non vi dirò) e il riff di Frame by Frame (con tanto di partiture esplicative); un altro chitarrista jazz, Andrea Gomellini, racconta la sua esperienza con il Guitar Craft.
Un libro che piace agli appassionati, ma che consiglio soprattutto ai giovani 2.0, quelli che non si fermano di fronte all'"antico" o che magari vogliono entrare nel cuore o nella memoria dei papà (e degli zii).

03 febbraio 2015

Senza frontiere. Vita e musica di Peter Gabriel

Finalmente Arcana azzecca una buona biografia musicale, mantenendo al minimo i refusi (meno gravi del solito), poco più che decente la traduzione, e soprattutto aggiungendo alla fine un indice analitico (la discografia completa, invece, è implicitamente e chiaramente schematizzata all'interno del libro). Insomma, un eccellente passo avanti rispetto alle ultime uscite.
Daryl Easlea ha scritto un'ottima biografia su un personaggio musicale che io personalmente ho sempre amato/odiato, trovandolo forse troppo sopravvalutato; sicuramente pionieristico nell'aggiornare o precedere i linguaggi, ma abbastanza statico nello stile. In fondo, ragionandoci sopra con un po' di onestà intellettuale, basta prendere la quarta opera di PG (nota anche come Security) per avere un'idea precisa dei sei/sette paradigmi della sua scrittura musicale. Infatti, escludendo la mirabile eccezione di Passion, le altre opere sembrano abbozzi e tentativi (i primi tre lp), o stanche ripetizioni (da So ad Up passando per lo sconnesso Us)
Al di là del gusto personale, va detto che il libro riesce con raro e preciso equilibrio a raccontarci un'era (più ere) musicale, un complesso storico (i Genesis), personaggi musicali di assoluto rilievo o importanza (Ezrin, Fripp, Rodhes, Levin e altri), il progresso tecnologico, le tecniche musicali, la vita privata di PG (senza esagerare con i pettegolezzi)... insomma, un gioiello di biografia che scade nell'agiografia solo una volta - a pagina 396 (l'ho volutamente segnata) - e che non rincorre mai i difetti della critica italiana, dove il relatore invece tende a parlare solo di se stesso e delle sue pippe mentali.
C'è solo un errore storico da chiarire: Easlea scrive che Levin si unì a Gabriel per il suo primissimo lp, proveniendo dai King Crimson.  In realtà, Levin iniziò la collaborazione con il Re Cremisi nel 1981 (preceduto da un tour nel 1980), quando Car era già uscito da tempo (nel 1977).
Detto ciò, è un libro godibile e fluente che ha la rara capacità di farti venire voglia di riascoltare tutta la discografia di PG più e più volte; cosa che io ho appena finito di fare.



20 gennaio 2015

King Crimson "Live At The Orpheum", una recensione contrastante

Dopo il dichiarato ritiro dalle scene del 2012, non mi aspettavo il ritorno di Robert Fripp, perlomeno nella sua veste di sacerdote (e dio creatore) dei King Crimson, per un motivo quasi banale: non è nel suo stile... come non è nel suo stile, però, dire una cosa e mantenerla.
Fatto sta che le motivazioni del suo ex ritiro (un'apocalittica causa contro una major musicale), secondo me malcelavano anche una sorta di consapevolezza che le idee ormai erano venute meno... addirittura sin dai tempi dell'ep Vroom (1994), prodromo del grossolano THRAK (1995), da cui avrei salvato solo Dinosaur, noto j'accuse contro chi ha forzatamente catalogato come progressive la musica e la filosofia dei King Crimson (anche se qualcuno non l'ha mai capito).
Ebbene, neanche il tempo di piangere tali dichiarazioni, che a metà del 2013 scopriamo che i King Crimson sono tornati. Va detto che ci sono state delle formazioni interlocutorie prima di quella che andiamo a leggere. Però non vi voglio tediare.
Ben tre batteristi davanti agli altri musicisti: Gavin Harrison - già coi Porcupine Tree; Bill Rieflin - ex R.E.M., ma anche sperimentatore appassionato; Pat Mastelotto - banale rockettaro dell'ultimo ventennio frippiano (più pesante e prevedibile dell'Alan White degli Yes; il che è tutto dire).
Dietro questa messe di rullanti, tom, piatti e grancasse, troviamo: il fidato Tony Levin (basso e stick), l'affidabile Mel Collins (ance e ottoni), l'incompleto Jakko Jakszyk (voce e chitarra), e ovviamente il nostro Robert Fripp.
La prima cosa che balza all'occhio è la nuova grafica: molto tavola periodica, molto Breaking Bad (!), ma anche indizio di una lettura frippiana di questa nuova line-up. Sembra quasi voler dire: questa formazione rappresenta la base alchemica di tutto ciò che ho creduto fossero i King Crimson, gli elementi basilari della chimica creativa di questi otto lustri di grandissima musica.
Lettura forzata, lo so. Ma mi piace raccontarla così.
La seconda è il repertorio proposto in questo Live At The Orpheum: One More Red Nightmare e Starless (da Red - 1974, ultimo lavoro del secondo periodo crimsoniano), The ConstruKction of Light (dall'opera omonima - 2000, penultima del penultimo periodo crimsoniano), The Letters e Sailor's Tale (da Islands - 1971, ultimo lavoro dal primo periodo crimsoniano, anche se in molti la considerano un'opera a parte).
Da tutto il vastissimo repertorio, insomma, Fripp è andato a sfrugugliare titoli da seconda linea, quasi per addetti ai lavori. A parte Starless, insomma, siamo di fronte a materiale rischiosissimo, per almeno due motivi: poteva sembrare "datato", merita un'accuratezza tecnica decisamente probante. The Letters, poi, è quella che più esige un approccio filologico.
Eppure, e alla fine, le cose sono andate bene. Con un paio di "però" che vanno raccontati.
Il primo è che le tre batterie lavorano troppo all'unisono, perdendo la sacra opportunità di lavorare sui contrappunti (come capitò al duo Bruford-Mastellotto, per esempio). Giusto su Starless ci scappa qualcosa, ma per il resto non si percepisce (nel senso letterale del termine) alcun lavoro di completamento e/o di provocazione.
Il secondo "però" è la voce di Jakszyk: pura acqua cheta. Già nel progetto Scarcity Of Miracles si capiva che il tipo non si attagliava col crimsonismo. Qui, poi, siamo addirittura caduti nel suicidio ricercato, accidenti!
Però, signore e signori, che meraviglia di modernità: tutte le canzoni sembrano composte due minuti fa. In alcuni momenti si arriva a un riuscitissimo connubio tra la "serialità metal" di Fripp e certe idee jazz raffinatissime (questa versione di The ConstruKction non avrebbe sfigurato in una qualsiasi edizione di Umbria Jazz, per dire). 
Mel Collins è in raro stato di grazia, Tony Levin gioca con tutti (tranne che con le tre batterie, per fortuna) sbagliandomi pure un passaggio nodale su Starless (ma va bene così), Fripp è sempre più essenziale.
È, insomma, un signor cd che finisce troppo presto e che lascia intravedere una voglia di scommettere su qualcosa. Paradossalmente, spero si evolva in un progetto di cover piuttosto che di inediti. Staremo a vedere.


07 ottobre 2014

Le biciclette bianche di Joe Boyd

La mia musica e gli anni Sessanta, recita il sottotitolo.
Ma più che un noioso elenco di nostalgie, questo piccolo gioiello autobiografico è un voler indicare al lettore cosa veramente siano stati gli anni Sessanta extra bitols; senza cioè quella fastidiosa celebrazione ad oltranza dei quattro di Liverpool, di cui francamente non se ne può più.
Joe Boyd ha incrociato, prodotto o masticato personaggi come Jimi Hendrix, Bob Dylan, Nick Drake, Fairport Convention, Muddy Waters, Martin Carthy, John Martyn, Richard Thompson, Bob Marley, Steve Winwood, Steve Howe, Miles Davis, The Incredible String Band... e i primissimi Pink Floyd.
Per il suo UFO Club passarono i giovanissimi Michelangelo Antonioni e Monica Vitti, pronti a regalare al mondo del cinema pellicole indimenticabili. Sua fu anche la produzione del film Scandal - Il caso Profumo, dove sostanzialmente si respirava proprio il periodo di cui parla questo libro.
Onnivoro e curioso, Boyd incrocia anche Chris Blackwell, il papà della etichetta Island che darà spazio anche ai primi King Crimson e agli oggi sputtanati U2 (allora, invece, preziosi e genuini).
Insomma, queste pagine sono una gradevole passeggiata in un mondo che non c'è più: chi è meno nostalgico ma anche realista, capirà pure quanta differenza ci sia tra l'odierno proporre e produrre arte e quel modo invece originale e innovativo in cui vinceva ancora l'uomo e non la meccanica.
Unico difetto, una traduzione decisamente dozzinale.

07 aprile 2014

il miracolo di Robert Fripp

Dai musicisti che stimo veramente, pretendo sempre qualcosa, anche quando - come nel caso di Robert Fripp - da oltre 40 anni comunque regalano al mondo perle di rara qualità, sempre interessanti, sempre vive, sempre pronte a mettersi in discussione, in costante discussione.
Fripp, poi, gode di quella rara opportunità storica di essere stato protagonista attivo di così tanti successi nei generi musicali più disparati, che non esiste musicista, compositore o esecutore che non gli debba qualcosa, anche inconsapevolmente.
Mi diverte osservare i colleghi entrare nel mio ufficio, vedere il suo ritratto alle mie spalle, deridermi o chiedermi chi sia, e poi essere costretti ad ammettere la propria ignoranza - con battute fuori luogo o sguardi meravigliati - nello scoprire che "sì, ha suonato in quel brano lì, ha prodotto quel tizio là, ha ispirato quel complesso indie", e via dicendo.
Fripp ha sperimentato quasi tutti i generi, ne ha inventati di nuovi, ne ha abbandonato uno ancor prima che uscisse il primissimo LP dei King Crimson (il rock progressivo), ha svincolato la musica non-colta da quella suprema rottura di coglioni che era/è il vetero discepolismo nei confronti di Bitols, ha raccontato strade elettroniche inusuali, ha addirittura regalato al cielo un irripetibile "jazz squadrato" ben prima che Sting facesse il fighetto con gli alfieri di Miles Davis, ha ucciso il liocorno della musica romantica per aggredire la modernità a testa bassa, ha aperto la strada a numerosi post-generi, ha addirittura suggerito musica per reading... ma, saggiamente - e umilmente (?), non si era mai cimentato con la cosiddetta musica colta, quella classica insomma; chiamatela voi come più vi aggrada.
Dicevo, appunto, che comunque pretendo sempre qualcosa. E le ultime frippate mi avevano inquietato, perché dopo Thrak (ma forse anche solo con l'ep Vroom), Fripp sembrava ripetersi, quasi stanco di essere se stesso; tanto che il suo quasi-ritiro dalle scene mi era sembrata l'unica giusta conclusione di un'èra, di un modo di essere musicista che oggi proprio non esiste più, per quanto ci si possa sforzare di credere il crontrario.
Ebbene, da giorni sto ascoltando questo The Wine of Silence, un'esperienza incredibilmente meravigliosa da cui non riesco proprio a staccarmi.
È la rielaborazione in forma orchestrale di alcuni dei soundscapes che Fripp ci ha regalato nel tempo (nove cd in tutto dal 1999; in realtà, il triplo se calcoliamo anche le edizioni flac/mp3). Orchestrazione affidata al compositore inglese Andrew Keeling, su fedele trascrizione di Bert Lams (già, quello del Californian Guitar Trio), ed eseguita nel 2003 dal vivo dalla Metropole Orkest diretta da Jan Stulen; naturalmente poi remissata da David Singleton, noto amico e co-produttore del nostro chitarrista.
L'avevo comprato due settimane fa giusto per buttarlo distrattamente nella mia collezione, ma niente di più. 
E, invece, è un'opera notevole perché non è "solo" un'orchestrazione, non è "solo" un giochetto per archi (e voci, in Miserere Mei), non è "solo" una serie di loop ben assemblati... è musica, musica fresca, bellissima, viva. 
È musica nuova.
 

06 febbraio 2014

frammenti di Dream Theater

Certo, penserete, questo è matto: ama il jazz, la bella musica, ma poi si spara anche i Dream Theater nelle orecchie. Sarà... ma non ne colgo la differenza. Ufficialmente, il loro si chiama metal progressive; io, affettuosamente (e romanamente) la chiamo musica cafona; anche se dubito che i cafoni sappiano andar oltre l'apparente casino della chitarra di Petrucci e delle tastiere di Rudess.
Eppure, fossi in voi, una capatina dalle loro parti la farei; specie se siete ex/già appassionati di Yes, King Crimson e Queen.
Per lustri, il gruppo ha girato intorno a un batterista prodigioso quale solo sa essere Mike Portnoy; da due uscite discografiche, però, gli è subentrato Mike Mangini. Nella prima (A Dramatic Turn of Events) si sente che pativa cotanta eredità: il suo batterismo è di mestiere (e che mestiere, ovviamente), e molto attento a non strafare.
In questo nuovo lavoro (che, guarda caso, porta il nome del complesso), Mangini dice la sua in maniera veramente interessante, con un'identità e una verve che anche il meno esperto di drumming saprebbe percepire con un superficiale ascolto.
Intendiamoci, Dream Theater non è la migliore opera del complesso (siamo a dodici): sa molto di già sentito, e in più di una circostanza risulta stancante e faticoso. Però è su Mangini che vi consiglierei di concentrarvi, perché fa un lavoro eccellente e probante di rara qualità.
Certo, si capisce quanto Rudess soffra l'assenza di Pornoy (notoriamente tastierista e batterista hanno un'intesa quasi simbiotica), tanto che i suoi solismi sono poco indaginosi e a ridosso delle partiture di Petrucci. Però il gruppo c'è, e potrebbe dire ancora qualcosa.
Se non volete acquistarlo integralmente, vi consiglio di provare la lunga suite Illumination Theory. Per i fan puri è poca cosa (l'incipit ricorda Sheer Heart Attack dei Queen, e il resto si divincola tra Octavarium e Six Degrees of Inner Turbulence), però funziona. 
Specie per i due minuti abbondanti della parte III (quella centrale) dal titolo The Embracing Circle: si apre con effetti synth sovrapposti a un didgeridoo con un leggero delay, e poi...



17 dicembre 2013

metti che tua moglie ti regali un megacofanetto dei King Crimson...

La profonda bellezza della musica regala spesso sospiri senza fine, specie se d'un tratto ti viene regalato un piccolo gioiello "commerciale" che porta con sé la storia di un periodo tra i più fecondi e strutturati della biografia discografica dei King Crimson: The Road to Red.
In molti considerano Red un'opera minore, dimostrando perlomeno un'ignoranza oggettivamente storica, visto che i nostri presentarono prima dal vivo i pezzi che finiranno in Red, spesso con formule musicali e testuali ben diverse dal risultato finale. 
Anzi, è proprio questo spontaneo e disinvolto percorso di continui ritocchi esteticotecnici che consente a Red di essere forse il gioiello più strutturato dei tre Lp del periodo più intenso dei KC (quello con la formazione Fripp, Wetton, Bruford, che nel tempo perse per strada Muir, Cross, e che riuscì a far incontrare rock, hard rock, jazz, indie e qualcosa di grunge, ben prima che qualcun altro iniziasse a far finta di inventarlo con nuove forme).
Anzi, è interessante constatare quanto alcuni momenti sonori decisamente più corposi proposti con Larks' Tongues in Aspic, diventino sempre più asciutti e risoluti, quasi arroganti nella loro veemenza.  
Questo Road to Red, insomma, è un'opera che racconta in maniera nitida e precisa quanto già era stato vagamente accennato dal già pregevole tetracofanetto The Great Deceiver, cui però aggiunge numerose chicche per appassionati ma anche rigorosi strumenti di studio per chi crede che la musica dei KC non sia solo quanto si ascolta al momento, ma quanto viene indicato.
A differenza dell'altro supercofanetto dedicato alle "lingue di allodola in aspic", questo su Red si preoccupa di evidenziare letteralmente le intuizioni a venire, il progresso (ma non progressive; troppo riduttivo) della musica di Robert Fripp, che proprio in Red ucciderà definitivamente la chitarra acustica (di cui era grande maestro) per poi riproporla solo nell'esperienza dei Crafty Guitarists due lustri più in là.
Tra i memorabilia, anastatiche di qualche scaletta appuntata su foglietti d'albergo, le quasi-parole di Starless buttate su un foglietto, le copertine di USA e di Red... Qui trovate il dettaglio di tutti i 24 tra cd, dvd, blue-ray contenuti. Il resto sta nel vostro portafogli.
Ah, dimenticavo: sapete perché il tachimetro della copertina segna una mezza tacca oltre il 7?

13 settembre 2012

il ritiro di Robert Fripp, la fine di un'era

La  notizia è doppiamente dolorosa, sia per il fatto in sé che per il motivo: il 3 agosto scorso, Robert Fripp ha annunciato il suo ritiro.
Partiamo dal secondo motivo: il tentativo (eroico e disperato) da parte di Robert Fripp di tutelare le sue creazioni, di stabilire l'esatto significato di diritto e di autore, di riconoscere agli artisti il pregio del loro impegno, si è scontrato con una major non di poco conto: la Universal Music Group, che di fatto detiene i diritti di pubblicazione di buona parte del suo corpus discografico, e che fa un (bel po') di testa sua.
Da tempo, ormai, Fripp non si sente più vicino alla musica: l'impegno psicologico e fisico profusi contro questa lotta non solo giudiziaria, lo hanno allontanato dal gusto e dalla passione. Il passo è stato quasi una naturale conseguenza.
E il fatto che abbia rilasciato un'intervista (cosa già eccezionale) al Financial Times piuttosto che a riviste specializzate, dimostra sia la mentalità aperta della rivista che le intenzioni concrete del nostro piccolo eroe della chitarra. 
Lo so, adesso vi aspettate la battuta contro i fighetti nostrani. Be', va detto che hanno sottovalutato la notizia, ridicolizzandola, sia perché non conoscono la Storia della Musica, sia perché il mondo che sta uccidendo l'arte è anche il mondo che dà spazio ai mediocri.
È in gioco non solo un destino di un singolo musicista/compositore, ma la mentalità che dovrebbe riconoscere agli artisti i giusti meriti: invece di pretendere tutto (e gratis), bisogna sempre ricordare che dietro un brano musicale bello (quindi Allevi è fuori) c'è un impegno che va premiato e riconosciuto.
Robert Fripp ha sempre lottato per i singoli diritti dei singoli musicisti che hanno lavorato per/con lui. Tant'è che buona parte dei brani dei King Crimson (nelle loro differenti line-up) segnava come autori i singoli musicisti che avevano contribuito anche con una minima idea alla riuscita del brano. Attenzione, non un mero stratagemma per evitare liti interne (usato dai Pink Floyd e dai Queen con modalità differenti), ma un modo pragmatico (e romantico) di riconoscere i meriti dei singoli.
Per quanto Bruford si sia sforzato di "parlar male" di Fripp (le virgolette sono volute, perché sono stato grossolano), nella sua autobiografia gli riconosce sempre questo disperato tentativo di rispettare la musica e i suoi musicisti.
Il (mio) dolore per motivi artistici, invece, parte da mille rivoli della mia memoria di musicista e/o di amante della musica. 
Devo chiarire che amo Fripp non per afflato isterico o da fan senza ratio: chi mi legge da sempre sa che non amo gli ultimi King Crimson (almeno da The ConstruKction of Light in poi, Scarcity incluso), e che mai ho sopportato certe scelte musicali di stanca routine.
Io amo Fripp perché "dice" le cose esattamente come avrei voluto dirle io. E usa esattamente quel suono e quelle note che avrei usato io, se solo fossi stato alla sua incomparabile altezza (la caccoletta che è in me sta ridendo per queste frasi in stile CarmeloBeneappareallaMadonna).
In più, la sua poliedricità, il suo continuo sperimentare, il suo sapere esattamente quando stare zitto (Islands è un suo brano, e non c'è traccia di chitarra), quando accennare (Book of Saturday) e quando sublimare (The Night Watch), quando corcare di botte (Fracture) e quando ridere (tutto Beat, se vogliamo), quando sperimentare in maniera oscura (frippertronics, prima; soundscapes, poi) e quando in maniera diretta (i vari Lark's)... 
E le collobarazioni? Sylvian, Bowie, Gabriel, Byrne, Eno, Porcupine Tree, No-Man. Non esiste stanza musicale che Fripp non abbia perlomeno visitato in questi ultimi 40 anni. Non esiste genere, musicista, complesso, giornalista, che non debbano qualcosa alla sua inventiva e alle sue idee.
E l'approccio? Fripp ha scritto tonnellate di parole. Ma a me restano sempre impresse due pietre miliari del suo pensiero. La prima ("Discipline is never an end in itself, only a means to an end"), è un aforisma laico e potente. La seconda (i King Crimson sono "un modo di fare le cose"), cozza inevitabilmente con i superficiali che lo ricordano solo per l'ellepì con il faccione, dimenticando che la Storia della Musica dice molto altro.
Ragionando fuori da ogni schema, avrei preferito una dipartita drastica, piuttosto che saperlo lì, seduto davanti alla sua chitarra, in solitaria meditazione.

07 luglio 2011

scarcity of Crimson

Scarcity Of Miracles dei "quasi King Crimson" suona nel mio iPod da giorni, e non so ancora dire se mi sia piaciuto o no.
Premetto che ho trovato bruttini assai gli ultimi lavori dei Crimson: da ConstruKction in poi, mi sono sempre più sentito a disagio, quasi ascoltassi dei vecchietti reprobi che si ostinavano a portare avanti una Ferrari, ma al centro dell’autostrada, a tre all’ora, senza voler far passare nessuno, se non l’ombra dei ricordi.
Intendiamoci: in linea generale ha senso che un musicista termini fisiologicamente la sua parabola (Gabriel è finito da almeno quindici anni, come anche David Bowie - dai tempi di Outside); però te lo aspetti, lo accetti, e continui a comprare i suoi dischi più per affetto che per reale convinzione.
Però per Fripp è stato diverso. Per motivi storici, non affettivi: quando lo davi per finito, BUM!, tirava fuori dal suo cervellone qualcosa di nuovo, di diverso, di innovativo. Difficile elencare, cioè, quante volte il megaFripp sia passato dalla polvere all’altare, ma ogni volta è accaduto con rara eleganza, con un senso della misura veramente esaltante, con una capacità di rinnovare tutto quanto toccava, pur restando ormai dentro quelle sue scale, quei suoi suoni, quegli accordi e quei ritmismi che ti fanno dire “questo è Bob, il Re Cremisi di sempre... ma anche di più”.
Difficile, insomma, essere all’avanguardia, saper pure invecchiare e nello stesso tempo continuare ad innovare un panorama musicale mondiale veramente sciapo e asfittico da almeno dieci anni (se non di più). Eppure Fripp ci è sempre riuscito; eppure in questo Scarcity ci son cose che non mi tornano.
La prima, è la voce di Jakko: insopportabile. Sembra quasi l’acido ascorbico: rende i sapori tutti uguali, che sia dentro una lattina di buona birra o in un succo di frutta; alla fine, hanno sempre lo stesso sapore. Voce che peraltro manca totalmente di elegia (come quella di Lake), di locale fumoso (Haskell), di cazzone passato per caso (Burrell), di perfezione assoluta (Wetton, dio lo benedica sempre), di strafottenza illuminata (Belew).
La seconda, è il bassismo stralunato di Levin. Per carità non mi aspettavo il suo solito slapping: ma ogni tanto va dove Harrison non arriva, oppure non lo completa come sapeva solo fare con Bruford (non parlo di Mastellotto, perché per me non è stato un batterista, ma uno scaricatore di porto… con tutto il rispetto…).
La terza è Harrison: sembra che Fripp lo abbia piazzato solo per dargli un po’ di spazio. Non c’è il mistico e canonico batterismo Crimsoniano, che assume il ruolo di vero e proprio strumento musicale. Harrison sa fare cose egregie, per carità (cfr i Porcupine Tree); qui, però, si limita a una presenza professionista ma non professionale.
La quarta è Fripp stesso: non c’è un solista in linea che sia uno. Bob ci ha sempre abituati a chitarre perfette, perfettamente messe in asse dentro strutture perfette (a dirla pesante: è quadrato com'è quadrato Bach... ma che quadratura!). A differenza di tutti i slasher, Fripp era così slasher da non farlo mai capire fino in fondo (forse in Larks parte III lo si percepisce totalmente; altro che Schizoid o Starless). E proprio per questo sapeva quando zittire la sua chitarra e quando farla parlare. Qui, Fripp sembra voler evitare la sua perfezione, dando troppo spazio a soundscape e poco al suo suono-sega, ai suoi temporanei periodare così intriganti.
Last but not least, il sopranino di Collins. Insopportabile. Te lo trovi ovunque come il prezzemolo. Ora, secondo le note di copertina, il progetto sarebbe frutto di continue improvvisazioni (come, in fondo, è sempre stato l’approccio crimsoniano): ma qui qualcuno doveva dire a Collins di darsi una calmata; oppure in fase di postproduzione, il buon Fripp doveva tagliuzzarlo a dovere (per dirne una: il Clemons di Jungleland è frutto di postproduzione, altroché). Macché, è un continuo giochicchiare di scalette insopportabili.
Paradossalmente, dopo tutte queste mie mazzate, il cd va bene per chi cerca il Sylvian meno serioso (la title track è un ottimo esempio, ed è l'unica cosa che salverei), per chi ama il pop più sofisticato e ricercato, per chi ama quell’insostenibile mondo dell’inutile chiamato “meditazione”. 
Ma per chi ama il Fripp che sa sempre guardare oltre, il Fripp che osa, il Fripp, insomma, che atterra e suscita, che affanna e che consola… meglio lasciar perdere. 

25 maggio 2011

la morte di Virginia Splendore

Tredici anni fa ebbi il privilegio di entrare alla corte di Piero Angela, uno dei miei padri spirituali. Era un periodo molto complicato per me: la pessima salute mi stava demolendo, la vita privata era un disastro (mia moglie ancora non "esisteva"), la tesi era imminente ma sempre lontana. In quelle stanze le redazioni erano almeno due, se non spesso tre. Il via vai di gente era comunque avvincente e coinvolgente: conoscevo di tutto e di più; e imparavo. Imparavo moltissimo.
Quando poi mi fu rinnovato il contratto per il successivo Quark (pomeridiano, questa volta) riuscii ancor di più a ritagliarmi uno spazio, a farmi sentire, a conoscere, capire, approfondire. Un'esperienza veramente unica, che mai dimenticherò... 
E proprio lì conobbi Virginia Splendore, schiva e taciturna ma profondamente spirituale. Sotto certi aspetti mi ricordava una delle mie sorelle; quella con cui ho maggiori affinità. Per carità, nessun afflato sentimentale, nessun subdolo interesse fisico: non sono il tipo io; non era il tipo lei. 
Però suonava lo stick, che non è un basso e che tutti confondono con le attitudini del basso. Ed è uno strumento che merita rispetto ed attenzione; uno strumento complesso e ricco di suggerimenti dissimulati, che solo una mente sensibile e aperta può suonare.
Virginia ed io ridevamo sul fatto che pronunciato alla siciliana lo stick significa ben altro, ma soprattutto discutevamo spesso su chi fosse il migliore tra Tony Levin e Trey Gunn (con cui poi ha suonato). In fondo ero la sua ancora di salvezza: in redazione ero l'unico che conosceva quei paesaggi musicali, quello strumento così fascinoso.
Virginia non era "bella", nel senso patinato del termine; ma non era nemmeno "brutta", nel senso maschilista del termine: giocava molto a coprirsi di una maschilità non sua, che però la faceva molto "personaggio"; in realtà, avrebbe potuto dare una pista a certe stratruccate del cavolo che ammorbano ogni dove. Quando sorrideva, cioè - se riuscivi a vederla sorridere, tirava fuori la parte migliore di sé, ricca di tante cose inesplorate e inesplorabili, che forse neanche lei sapeva riconoscere a fondo.
Tecnicamente ineccepibile, musicalmente stimolante, umile e risoluta al tempo stesso, con le dita sempre pronte a servire la sfera della Musica. Una volta che andai a sentirla suonare, guardò immediatamente il suo compagno musicale per variare il pezzo in esecuzione, e mi accolse con il noto passaggio iniziale di Frame By Frame dei miei amati King Crimson. Ero di frettoloso passaggio sul palco, e mi sentii imbarazzatamente onorato di tanta considerazione.
Schiva, pronta a contraddirti per un nonnulla, demolì pezzo per pezzo le mie composizioni, dandomi però dei suggerimenti pertinenti e ricchi di migliorie. Avessi voluto intraprendere la difficilissima carriera di cantante, avrei scelto sicuramente lei come produttore: da una ragazza così schietta ma precisa, non potevi che aspettarti grandi cose.
Ogni tanto ci siamo scritti. Niente di speciale. Niente di originale. Solo il gusto di lanciarci suggestioni musicali. Perché in fondo, in quelle redazioni, ero l'unico che conosceva lo stick, che lo sapeva apprezzare... e che non lo definiva banalmente "basso elettrico".
L'8 maggio scorso, Virginia Splendore è stata trovata morta dentro un'auto, poco fuori Roma: si è suicidata. Preziosa com'era, schiva, ricca di turbamenti delicati e insormontabili, non ha retto alla maleducazione della vita, non ha accettato il privilegio di essere intelligente e capace. 
Se c'è una cosa che non mi perdonerò mai, è di non averla coltivata come amica, di non averle dedicato quel minimo di tempo necessario per spegnere il motore dell'auto che la stava uccidendo, e mostrarle cosa era capace di donare a noi appassionati: la Musica, nostra eterna signora.
So long, Virginia, so long.

24 febbraio 2010

Bill Bruford o Braford o come diavolo si dice

Per andare avanti ho bisogno di scrivere un libro
Detta da un folle e sorridente batterista che ha suonato per 41 anni di fila, sembra quasi una provocazione.
Ma il fatto è un altro: esattamente un anno fa Bill Bruford ha appeso le bacchette al chiodo, dicendo basta alla sua carriera musicale, e come reazione psicologica ci ha regalato questa impeccabile autobiografia, ricchissima di informazioni storiche, tecniche, artistiche, sociali e aneddotiche.
Leggeremo della sua lunga carriera con mostri sacri come Yes, King Crimson, Earthworks e molto altro: nomi che farebbero tremare i polsi a chiunque e che hanno segnato la storia della musica non solo progressive, non solo rock, non solo contemporanea.
E lui, il biondoroscetto che non sai come si pronuncia, stava sempre lì, a raccogliere e a donare esperienze musicali e umane che hanno lasciato il segno e indicato percorsi in parte ancora inesplorati.
Una perla rarissima che dovete acquistare di corsa prima che sparisca nel limbo delle cose dette.