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31 dicembre 2015

il troppo del duo Steve Wilson Lewis Nash a #UJW23

Li avevo apprezzati due Winter fa, trovandoli eccellenti, interessanti e proposti nell'ambiente giusto e nella misura giusta. 
Questa edizione, invece, quelli di Umbria Jazz hanno esagerato, proponendoli sempre e solo sul palco del Teatro Mancinelli, sempre e solo in apertura di eventi di un certo peso (Bosso, Fresu, Elling, Lawson), costringendo anche il pubblico meno avvertito a "sorbire" un difficile duo sax + batteria che potrebbe legittimamente stancare chiunque.
Oltretutto, tale era l'incrocio di date e orari, che chiunque avesse voluto godere questa edizione, li avrebbe incrociati almeno due volte.
Ora: non appartengo a chi dice che l'arte vada spiegata, perché è un'affermazione idiota; non credo all'arte "alta" e "bassa", anche se ovviamente trovo Allevi dannoso per ogni forma possibile di espressione; non ritengo il pubblico "stupido" per antonomasia. Però difendere a tutti i costi una formula così complicata significa solo dare segni di debolezza. Oltretutto: seguire Umbria Jazz Winter è più oneroso rispetto al Summer; il pubblico è notoriamente meno giovane ma anche più abitudinario. Di ricambio generazionale e di toccate e fuga se ne vedono ben pochi: tirare troppo la corda potrebbe essere controproducente.
Premesso ciò, io ho assistito a due dei quattro concerti: quello del 30, decisamente annodato e autoreferenziale; quello del 31, istrionico ma anche - e finalmente - rispettoso nei confronti del pubblico.
In quello del 30, stanchi e spigolosi omaggi a Domino, Ellington, Monk e Coleman.
In quello del 31, briosi riconoscimenti a Silver, Monk, Gillespie, Giuffrè, Carter, Coleman e Ellington. A questi, va aggiunto un terrificante drum solo in cui Nash ha dimostrato che gli alieni sono tra noi, e suonano la batteria.
Già: Nash si conferma un dio dello strumento, capace di sparare nel giro di pochi secondi palle di fuoco e delicatissime piume; Lewis, invece, resta un eccellente sassofonista, ma con una cifra opaca e priva di guizzi.

30 dicembre 2013

Lewis Nash e Steve Wilson a #UJW21 (recensione da #Orvieto, #jazz)

Un'operazione rischiosa quanto affascinante che non ha tradito le aspettative, anzi: i sax di Wilson e la batteria di Nash hanno regalato un concerto memorabile e ricco di bellissima musica.
Sicuramente è stato un set dall'ascolto impegnativo; in più, è sempre più evidente come tra i due il più dotato e personale sia Nash: ma sono stati novanta minuti di altissima musica come raramente si era ascoltata negli ultimi Winter di UJ.
Scaldate le mani con un Fats Waller in stile Coltrane (con un raffinato Jitterbug Waltz), omaggiato a dovere il vate Silver, i due hanno raccontato Monk alla grande, con una suite di venti minuti che ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza, rispettando i rigorosi ma fluidi canoni di Monk.
Se mai voleste ritrovare le radici profonde del Monk più vero e più genuino, dovreste trovare e provare questa suite magistrale.
Si è passati poi per un Ellington meno noto per finire dentro i due momenti solo: Wilson ha cercato Coltrane con ogni singola nota, mentre Nash ha dimostrato di essere più intraprendente, dando anche del filo da torcere a Roach e Williams cui sembra riferirsi a più riprese.
Gran finale con una Caravan molto suggestiva in cui i due sembravano più rincorrere  con disinvoltura la ritmica originale di Sonny Greer che la nota melodia.
Bis rapido ma sornione, e un disco promesso di imminente uscita.

29 dicembre 2013

3Clarinets a #UJW21 (recensione da #Orvieto, #jazz)

Si possono conciliare New York, New Orleans e la cultura ashkenazita? Sì, si può, ma solo se hai a disposizione i clarinetti di Ken Peplowski (il canonico), di Evan Christopher (il guascone) e di Anat Cohen (un crescendo di bravura insospettabile).
Omaggi doverosi al migliore Bechet, un pizzico di Ellington e molta tradizione, hanno regalato un concerto divertente (e anche commovente) dove si sono alternate le visioni dei carri di nomadi ebrei della primissima Europa con i ritmi solari degli schiavi dai campi di cotone dei film anni '50; un gioco musicale di continui rimandi, pieno di tante cose sempre più incalzanti.
Da segnalare la mostruosa batteria di Lewis Nash e il chitarrismo zigano di Howard Allen, che hanno saputo guarnire perfettamente l'impegno dei tre musicisti. Greg Cohen suona il basso per quel che serve, dimostrandosi eccellente metronomo ma limitato solista.
Una parola per la Cohen: nonostante la comparsata televisiva da Fazio (che per me è quasi una condanna), nonostante un inizio stentato, nonostante il clarinetto non sia una strumento "femminile"... si è dimostrata sempre più brava e coinvolgente, rasentando la perfezione nel bis finale.