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04 settembre 2024

LA BARONESSA [Nica Koenigswarter] di Hannah Rotschild (Neri Pozza)

Mi riesce difficile parlare di questo libro senza scadere nel miele e nella retorica: nutro uno spontaneo affetto per Nica e per tutto quello che rappresenta; e questa biografia così lucida e morbida, dolce e sincera, ha soddisfatto appieno il mio palato così condizionato.
Scritta dalla nipote, con uno stile asciutto e preciso, questa biografia racconta Pannonica dagli inizi fino alla sua morte, passando per il dramma della Shoah (che colpirà direttamente anche la famiglia Rotschild), per un'Europa umiliata dal nazifascismo, per un'America liberatrice ma ancora provinciale e razzista, per il mondo del jazz sempre in bilico tra fascino e autodistruzione.
Pannonica era una donna fuori dal suo tempo, ma, sotto molti aspetti, fuori da tutti i tempi. Femminile e indipendente, mamma distratta ma affettuosa, imprenditrice istintiva ma non cinica, appassionata delle novità e delle cose belle, maestra di vita ma nel contempo infantile e spregiudicata.
Ovviamente, non mancano le pagine dedicate alla sua casta storia d'amicizia con Thelonious Monk, i suoi incontri con geni del persempre come Charlie Parker e come cento altri nomi che farebbero tremare i polsi anche all'esperto più navigato.
Un libro che può piacere sia al critico aperto e bendisposto, come anche a chi non ama le biografie e preferisce la classica forma-romanzo.

26 marzo 2021

l'amore per il jazz

Velletri, estate 1988. Con quei pochi soldi che avevo, potevo giusto permettermi un paese a pochi chilometri da casa, in un appartamento scrauso, sotto un fornaio che mi svegliava ogni notte alle 4:00 per servire mezzo paese. 15 giorni di licenza, perché anche chi svolgeva Servizio Civile ne aveva diritto.
Il paese era quasi privo di turisti, di gente estranea a quel costante viva vai che neutralizza la provincia nell'eterno presente delle ritualità quotidiane, dove tutti si conoscono e si sopportano e magari si supportano.
Conoscevo poco di jazz, pochissimo. Forse perché in quel periodo navigavo dentro il progressive, forse perché le mie scoperte musicali erano occasionali, tutt'altro che incentivate da fratelli o amici o parenti. Ma forse è stata un fortuna, perché almeno ho potuto meravigliarmi di ogni scoperta sonora sempre con candore, con innocente entusiasmo e anche con un pizzico di sana ingenuità.
Per trattenere quel poco di estranei che bazzicavano da quelle parti, era stato organizzato una sorta di festival del cinema all'aperto nel cui cartellone figuravano un paio di film musicali e niente più. Lo schermo era un telone dozzinale tenuto da quattro corde improvvisate, piazzato sulla parete di un palazzo illuminato alla volemosebene. La platea era una rampa di scale di marmo che davano su un palazzo vetusto, tra i pochi sopravvissuti ai palazzinari
foraggiati dagli allora imperanti DC o PCI.
Eravamo tre-spettatori-tre, più un ubriaco spalmato sotto lo pseudoschermo. Faceva freddo, perlomeno per i vestiti estivi che facevano finta di coprirci: tirava quella dolce brezza laziale che trasporta odori e profumi e un po' di umidità campagnola. Silenzio, se non il proiettore che brontolava come un diesel parcheggiato sotto casa.
Parte un rullante, leggero e misurato, entra un pianoforte contrappuntato nitidamente da un contrabbasso vellutato, ecco una voce che rincorre una melodia complessa, complicata, ma che all'orecchio sembra una dolce sinfonia, un racconto di uomini di notte, che fumano con passione sigarette fatte a mano e sorseggiano alcol dozzinale come fosse nettare degli dèi. Senti il profumo di donne affaticate dal destino, che abbracciano le spalle nodose di uomini di fortuna. La polvere in penombra galleggia tra pensieri e parole piene di dignità.
E poi arriva l'assolo di Herbie Hancock, che gira intorno alle crome quadrate di Monk e alla metronomica precisione di Bach, passando per Evans, Bley, Debussy e una negritudine colma di storie africane e di riscatti in sottovoce.
Il film è bellissimo, dolente e sornione, una dichiarazione d'amore per il jazz e per gli uomini che l'hanno suonato, per la cultura che l'ha generato, per il coraggio che ci vuole a mettersi sempre in dubbio, a esplorare note nuove, a vivere dentro la passione fino a uccidersi lentamente e consapevolmente.
Mi ero innamorato all'istante del jazz, di Parigi, del regista, di Monk, di tutto quello che questo immenso capolavoro conteneva in sé o indicava con tremante amore.
Il film era "'Round Midnight", uscito due anni prima. 
Il regista era Bertrand Tavernier, morto ieri a 79 anni.

09 gennaio 2018

Umbria Jazz Winter #UJW25, poche luci, molte ombre (con affetto)

È ormai la sesta edizione che mi vede tra i fedeli spettatori della versione invernale di Umbria Jazz Winter
Rispetto a quella estiva - più famosa e più antica - soffre di almeno due limiti oggettivi: il periodo, notoriamente breve e forzatamente dedicato ai propri affetti; la collocazione, tutt'altro che agevole, penalizzata peraltro da un'accoglienza limitata e limitante.
In più, non passa anno in cui non si parli di difficoltà economiche, nonostante poi successivamente vengano sempre vantati dei sold-out pressoché totali (anche se io ho l'impressione che siano mischiati turisti occasionali con gli spettatori veri e propri).
Certo, il cartellone sembra soffrire sempre più di qualità, ma all'apparenza: al di là dei gusti, e delle performance, infatti, i nomi di grido e quelli di nicchia non sono mancati.
Però quest'anno troppe performance hanno lasciato a desiderare. 
Quelle al Teatro Mancinelli, poi, hanno tutte sofferto anche di un mixer tutt'altro che professionale: musica impastata, strumenti primari quasi inascoltabili, equalizzazione delle percussioni non all'altezza del blasone.
Ma procediamo con ordine.
Il duo Danilo Rea e Gino Paoli non ha mai avuto nulla a che vedere con il jazz. Attenzione, non sto parlando di una mia personale idea di jazz: da sempre, Rea e Paoli fanno i gigioni, alla ricerca dell'applauso facile e di un pubblico più poppeggiante che jazzistico
Per carità, non ci sta niente di male, anzi. Però - qui a Orvieto - da Danilo Rea mi aspettavo più rispetto per la sua figura. Poche note, ma giuste, diamine! 
E, invece, ha vorticosamente girato le fettuccine sui tasti bianconeri, sciorinando quei quattro soliti e prevedibili trick che vent'anni fa erano innovativi, ma che oggi sanno solo di stanca ripetizione di se stessi. Lo accetto da Allevi, ma non da Danilo Rea. 
Si è salvato giusto Flavio Boltro, guest in un paio di pezzi, sempre capace di prendere affettuosamente per i fondelli la sua tromba, limitata ma audace e sorniona.
Jason Moran ha proposto un Monk inutile, cerebrale e borioso, quale invece non era il grandissimo pianista. Troppi intellettualismi stucchevoli e appiccicati, accompagnati peraltro da una sorta di installazione risicata e ripetuta più volte, che se soffrivi di epilessia rischiavi veramente brutto.
Marc Ribot ha fatto un casino con un suo modo molto arrogante di raccontare l'armolodia di Coleman, penalizzando i già timidi Young Philadelphians con un uso strafottente e ostinato del wha wha, per oltre un'ora di bordello sonoro; tanto che tre quarti di Teatro è scappato via a gambe levate dopo soli dieci minuti di fracasso. 

Da chi ha nobilitato David Sylvian, Tom Waits e Vinicio Capossela, mi aspettavo più rispetto per se stesso, per il pubblico e anche per i giovani musicisti coinvolti.
Il Merry Christmas Quartet di Fabrizio Bosso ha fatto la sua striminzita performance con l'aiuto di una voce senza mantice ed estensione (quella di Walter Ricci). Scaletta già dimenticata per un live veramente deludente. Certo, Bosso è dio, Mazzariello è il suo profeta, ma la scelta dei brani è stata micidiale.
Sul trio Guidi, Bearzatti, Rabbia non riesco a pronunciarmi più di tanto. Il pianismo di Guidi è acquoso di suo, contrapposto al batterismo di Rabbia decisamente più professionale. Quando entravano nel jazz mainstream riuscivano bene (troppo ECM, va detto); ma quando hanno abbozzato un free jazz di maniera, mi è venuta voglia di scappare.
Si sono salvati: la bella lettura di Joni Mitchell da parte di di De Vito, Pietropaoli e Mazzariello e la brava e promettente Jazzmeia Horn (teniamola d'occhio!). 
Però è stato troppo poco.
Oltretutto gli organizzatori insistono nel dire che quello invernale è sempre stato un Umbria Jazz per "addetti ai lavori". Cosa diamine voglia dire, è un mistero. Resta il fatto che anche e solo l'elenco dei nomi presentati dimostra una volontà di essere invece eterogenei e curiosi.
La vera domanda da porsi, invece, è un'altra: come mai il livello è stato complessivamente così basso?
A parte le due benvenute eccezioni, perché la qualità di Umbria Jazz 25 è stato così bassa e precaria?
Non ho la risposta, ovviamente; anche se temo che la visione dei due estremi (Rea da una parte e Moran dall'altra) lasci intravedere un'italica volontà di mantenere separati due mondi (jazz banana e jazz colto) che nel significato stesso del jazz non dovrebbero nemmeno essere ipotizzati.

31 dicembre 2015

il troppo del duo Steve Wilson Lewis Nash a #UJW23

Li avevo apprezzati due Winter fa, trovandoli eccellenti, interessanti e proposti nell'ambiente giusto e nella misura giusta. 
Questa edizione, invece, quelli di Umbria Jazz hanno esagerato, proponendoli sempre e solo sul palco del Teatro Mancinelli, sempre e solo in apertura di eventi di un certo peso (Bosso, Fresu, Elling, Lawson), costringendo anche il pubblico meno avvertito a "sorbire" un difficile duo sax + batteria che potrebbe legittimamente stancare chiunque.
Oltretutto, tale era l'incrocio di date e orari, che chiunque avesse voluto godere questa edizione, li avrebbe incrociati almeno due volte.
Ora: non appartengo a chi dice che l'arte vada spiegata, perché è un'affermazione idiota; non credo all'arte "alta" e "bassa", anche se ovviamente trovo Allevi dannoso per ogni forma possibile di espressione; non ritengo il pubblico "stupido" per antonomasia. Però difendere a tutti i costi una formula così complicata significa solo dare segni di debolezza. Oltretutto: seguire Umbria Jazz Winter è più oneroso rispetto al Summer; il pubblico è notoriamente meno giovane ma anche più abitudinario. Di ricambio generazionale e di toccate e fuga se ne vedono ben pochi: tirare troppo la corda potrebbe essere controproducente.
Premesso ciò, io ho assistito a due dei quattro concerti: quello del 30, decisamente annodato e autoreferenziale; quello del 31, istrionico ma anche - e finalmente - rispettoso nei confronti del pubblico.
In quello del 30, stanchi e spigolosi omaggi a Domino, Ellington, Monk e Coleman.
In quello del 31, briosi riconoscimenti a Silver, Monk, Gillespie, Giuffrè, Carter, Coleman e Ellington. A questi, va aggiunto un terrificante drum solo in cui Nash ha dimostrato che gli alieni sono tra noi, e suonano la batteria.
Già: Nash si conferma un dio dello strumento, capace di sparare nel giro di pochi secondi palle di fuoco e delicatissime piume; Lewis, invece, resta un eccellente sassofonista, ma con una cifra opaca e priva di guizzi.

29 gennaio 2015

Solo Piano - Portraits, l'eterna giovinezza di Chick Corea

Arioso e gustoso questo Solo piano di Chick Corea, dove potete scegliere di perlustrare colte note profondissime oppure di lasciarvi cullare in superificie da sorridenti movimenti sonori. C'è tutto lo scibile musicale di questo immenso pianista che proprio perché non se l'è mai tirata più di tanto, forse non viene apprezzato il giusto.
I dischi sono due.
Il primo è dedicato agli standard più evocativi, presentati accuratamente dall'artista sempre con una dolce vena ironica: si spazia da Bill Evans a Thelonious Monk, passando per Bud Powell fino a Stevie Wonder, concludendo la cavalcata con un brano di Corea stesso inspirato/dedicato a Paco De Lucia (la cui versione originale sta nel contraddittorio Touchstone - 1982).
Il secondo disco è meno jazz, forse più contemporaneo: parte con opere di Scriabin e Bartók, poi riassapora alcuni momenti coreani dei Children´s Song più noti (purtroppo manca il bellissimo 6, quello che diventerà Song to the Pharaoh Kings), finisce con dieci improvvisazioni decisamente fascinose.
Grande interazione col pubblico e azzeccata sequenza dei brani. Unica nota dolente, un missaggio a volte distratto. Da comprare assolutamente. 

30 dicembre 2013

Aaron Diehl racconta il Modern #Jazz Quartet a #UJW21 (recensione da #Orvieto)

John Lewis fu un genio: riuscì a trovare il jazz dentro l'anima di Bach e Debussy, ma soprattutto seppe inserirli nel mondo dell'improvvisazione pura, accontentando - e sfidando - le menti puriste di allora (e di sempre).
Il Modern Jazz Quartet è stato molto più che un combo elegante e sofisticato, e provare a omaggiarlo è un'impresa quasi impossibile.
Ma il bellissimo pianismo di Aaron Diehl c'è riuscito, accompagnato da un ottimo Warren Wolf al vibrafono (sempre musone, però), da un preciso David Wong al basso, e da un affidabile Pete Van Nostrand alla batteria.
Un concerto memorabile che ha visto l'esecuzione di quasi tutte le "città" di Lewis, una Round Midnight da brividi, una Bag's Groove ironica e smaliziata e un Concierto de Aranjuez che avrebbe fatto un baffo a quello più noto di Davis ed Evans.
Insomma, una perla di rara bellezza, impreziosita dalle installazioni video discrete ed evocative di Massimo Achilli.
Diehl è un pianista eccellente, che mi auguro possa raggiungere le vette che merita: speriamo solo che qui da noi riesca a convincere i critici che si accontentano degli zuccherini prevedibili di Brad Mehldau.

Lewis Nash e Steve Wilson a #UJW21 (recensione da #Orvieto, #jazz)

Un'operazione rischiosa quanto affascinante che non ha tradito le aspettative, anzi: i sax di Wilson e la batteria di Nash hanno regalato un concerto memorabile e ricco di bellissima musica.
Sicuramente è stato un set dall'ascolto impegnativo; in più, è sempre più evidente come tra i due il più dotato e personale sia Nash: ma sono stati novanta minuti di altissima musica come raramente si era ascoltata negli ultimi Winter di UJ.
Scaldate le mani con un Fats Waller in stile Coltrane (con un raffinato Jitterbug Waltz), omaggiato a dovere il vate Silver, i due hanno raccontato Monk alla grande, con una suite di venti minuti che ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza, rispettando i rigorosi ma fluidi canoni di Monk.
Se mai voleste ritrovare le radici profonde del Monk più vero e più genuino, dovreste trovare e provare questa suite magistrale.
Si è passati poi per un Ellington meno noto per finire dentro i due momenti solo: Wilson ha cercato Coltrane con ogni singola nota, mentre Nash ha dimostrato di essere più intraprendente, dando anche del filo da torcere a Roach e Williams cui sembra riferirsi a più riprese.
Gran finale con una Caravan molto suggestiva in cui i due sembravano più rincorrere  con disinvoltura la ritmica originale di Sonny Greer che la nota melodia.
Bis rapido ma sornione, e un disco promesso di imminente uscita.

29 dicembre 2013

Christian McBride a #UJW21 (recensione da #Orvieto, #jazz)

Prendete l'Hancock di Cantaloupe Island e il Gary Burton della migliore ECM, e avrete il concerto di Christian McBride che ha aperto l'edizione numero 21 di Umbria Jazz Winter.
Buona parte dei brani proposti proviene dal suo ultimo lavoro People Music, con l'aggiunta di una ellingtoniana Sophisticated Lady, suonata dal buon pianista Peter Martin con un voicing simil monkiano.
Nel loro insieme gli Inside Straight funzionano a meraviglia, con il batterismo di Carl Allen che demolisce il metronomo con un afflato ritmico di rara bellezza.
McBride conferma il suo stato di grazia, superando - e di molto - i tecnicismi alla Clarke, suonando il contrabbasso con stile caldo e coraggioso.
Limitato, invece, l'impegno mentale del sassofono di Steve Wilson, forse perché coinvolto in troppi progetti nello stesso Festival.
A sua parziale colpa va detto, però, che anche il vibrafonista Warren Wolf lo è (anzi, ieri è stato impegnato in tre set pressoché consecutivi), ma che comunque ha detto la sua con maggiore impegno.
C'è di più: è stata proprio la sua Gang Gang - molto Modern Jazz Quartet, va detto - ad aver regalato le emozioni più intense.
Insomma, come inizio di Festival ci siamo. È mancato forse il guizzo, ma c'è ancora tempo...

26 novembre 2013

MONK, la biografia necessaria (minimum fax)

Se il jazz fosse un solido, sarebbe una tavola; non particolarmente complessa, né vistosa. Ci penserebbero i musicisti a darle i toni e i colori appropriati, magari temporanei, sicuramente estemporanei, comunque intrisi di fugaci bellezze anche per l'ascoltatore più esperto.

Miles Davis starebbe fermo al centro. Non si muoverebbe di un millimetro. Per lui la tavola non esiste. I suoi suoni andrebbero solo in alto, arrampicandosi all'infinito.
Quando la gente cammina - o sta ferma - non si guarda mai intorno; Miles Davis, invece, ha sempre avuto la rara genialità di non curarsi dell'ambiente, ma di esplorarne il non visibile, il non immaginabile.
Keith Jarrett penserebbe solo a se stesso: suonerebbe guardando uno specchio che riflette uno specchio che riflette uno specchio che riflette uno specchio che riflette uno specchio... passerebbe ere e ore alla ricerca del suo io, convinto che sia così incommensurabile da non essere quantificabile se non dal suo pianismo.
Chick Corea correrebbe sopra questa tavola, come un eterno bambino, spensierato e un po' saccente, inseguito da Bollani, a loro volta osservati con sorniona pazienza da Mingus e dai due Evans (Gil e Bill), gli eterni maturi di una genìa di monumenti insormontabili...
La lista è lunga, infinita: ogni musicista jazz avrebbe il suo spazio e il suo modo di interpretarlo.
E poi ci sarebbe Monk. 
Dico "sarebbe", perché Monk si metterebbe lì, con incosciente leggerezza, a raccontare gli spigoli. Ogni solido ha uno o più spigoli, anche una sfera se vogliamo. La tavola del jazz ne ha quanti ne volete: ognuno dei quali, però, già sperimentato da Monk. 
Anzi, Monk aveva il coraggio di camminare un po' di qua e un po' di là i confini di questa eterna tavola. Sapeva, cioè, che era impossibile raccontare l'oltre di questa tavola: ma era altrettanto consapevole che poteva mettersi di spalle all'ignoto e osservare attentamente ogni singolo spigolo, minuzie di angoli e controangoli, per poi raccontarli a noi avidi ascoltatori tramite un'unica e perfetta capacità di risolvere ogni possibile enigma.
Monk suonava rispettando l'essenza tribale del pianoforte, così ritmico nella sua natura da essere invece usato forzatamente come strumento melodico, forse orchestrale, ma mai nella sua essenza più ancestrale. Il pianoforte ha sempre cercato Monk, e quando poi l'ha trovato si è seduto soddisfatto da una parte, ormai sazio. 
Esiste un prima e un dopo 'Round Midnight, ma niente che riesca a sfiorarlo. Esiste un prima e un dopo le musiche di Monk, e poi ci sono solo quelle di Monk; questo libro è la sua storia, questo libro è la biografia di quegli angoli.


19 giugno 2009

il libro che non t'aspetti

La famiglia Marsalis ha tanti componenti quanti sono gli strumenti basilari di un'orchestra jazz (basso escluso, ma poco importa): Branford (sassofoni), Jason (batterie), Delfeayo (trombone), papà Ellis (piano) e Wynton, trombettista di cui parlerò brevemente in questa sua curiosa veste di saggista.
Come il jazz può cambiarti la vita è uscito qualche mese fa. Ma finché non era uscita la recensione entusiasta di Musica Jazz non mi ero azzardato ad acquistarlo, tanti sono i saggi scritti da jazzisti notevoli che poi però si rivelano essere pessimi scrittori.
Qui, invece, siamo di fronte a un testo che oserei definire addirittura essenziale dal punto di vista musicale, sociale, e della cultura più in generale. Non solo per la ricercatezza dei termini usati (vivaddio passati indenni da una traduzione curata male), ma per la pertinenza delle critiche e delle analisi, sia sui grandi musicisti di sempre che su alcuni elementi fondamentali del jazz. È veramente una gioia dello spirito intrattenersi con questo umile ma consapevole artista, veramente una gioia.
Non manca un capitolo dedicato ai grandi maestri verso i quali Wynton sente di avere più di qualche debito: Louis Armstrong («Il suo suono ha il potere di guarire»); Duke Ellington («Un tocco della sua mano sul pianoforte e la luna entrava in una stanza»); Billie Holiday («Se metti del sale in una bevanda dolce la rendi più dolce, ma se aggiungi zucchero all’amaro diventa ancora più amaro: così era Billie»); John Coltrane («Qualcosa nel suo suono ci penetra con la compassione della bellezza più pura e sublime»).
Grande riconoscenza anche per Ornette Coleman, per John Lewis e per Thelonious Monk, ma nessun cenno verso il gigante Charles Mingus.
Qualche spigolo verso Miles Davis, cui Wynton riconosce grande genialità, ma anche l'essere un carnefice «dell’adulazione e del mercantilismo». Insomma, il Davis del grande ritorno non dice nulla, anzi è addirittura deleterio e poco esemplare Il meglio, quando è corrotto, diventa il peggio»).
E - diciamolo - ci vuole coraggio a saper cogliere un aspetto così visibile di Davis ma che in pocchi hanno avuto l'onestà intellettuale di dire apertamente.