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03 settembre 2025

LA MIA VITA di Friedrich Nietzsche (Adelphi)

Fin dalla prima giovinezza, Nietzsche cominciò a raccontarsi a sé stesso, quasi provando quello strumento che, all’apice della sua vita, avrebbe dato i prodigiosi accordi di Ecce homo

Non avendo pregiudizi nei confronti di Nietzsche, ho letto il primo libro di questo mirabile cofanettone: nonostante l'intento esplicitamente autobiografico, è già possibile incontrare pensieri, parole e opere del filosofo, veramente dense e interessanti. 
A latere, si percepisce subito quanto Nietzsche abbia influenzato il pensiero di Roberto Calasso, il papà di Adelphi cui ho dedicato una dozzina delle mie recensioni. Un conto è averlo letto nelle interviste del compianto editore, un conto è assaporarlo direttamente.
Sicuramente, questo La mia vita non è un'operazione onanistica o egocentrica, ma la leva ideale per entrare con una certa "naturalezza" nel pensiero di Nietzsche, senza doverlo interpretare, senza cioè arrovellarsi dentro gli aforismi dei suoi saggi. 
Uno specchio è la vita
Riconoscer sé stessi
In questo specchio riflessi
È la cosa più ambita
Tralasciando la breve parte dedicata alla sua infanzia, ho trovato illuminante il lungo raccontare il percorso di studi che lo porterà a diventare un accademico stimato e apprezzato.
Spaventa e sgomenta quanto le generazioni come la sua - a un'età in cui il cervello maschile generalmente vaga senza meta - abbiano studiato e assorbito saggi e lezioni con una profondità e intensità che le nostre al massimo potrebbero abbozzare giusto all'università.
Certo, c'è anche un influsso caratteriale (Fin da bambino, io cercavo la solitudine, e mi trovavo meglio là dove potevo abbandonarmi indisturbato a me stesso), ma i programmi scolastici erano quelli; non ci sta niente da fare.
Tra le tante descrizioni e narrazioni, risalta la passione di Nietzsche per la musica: Dio ci ha dato la musica in primo luogo per indirizzarci verso l'alto. La musica raduna in sé tutte le virtù: sa essere nobile e scherzosa, sa rallegrarci e ammansire l'animo più rozzo, con la dolcezza delle sue note melanconiche [...] La musica rallegra scaccia i pensieri tristi [...] Con le sue note, l'arte musicale è spesso più eloquente della poesia con le parole.
L'ottica religiosa di Nietzsche sopra accennata, è costante: Ho vissuto ormai tante esperienze, liete e tristi, che mi hanno rasserenato e afflitto, ma in ogni cosa Iddio mi ha guidato sicuro [...] Ho preso nel mio intimo la salda decisione di dedicarmi per sempre al suo servizio.
Questo esser sempre così rigorosi si riscontra persino quando descrive la fine delle vacanze, con questi versi:
Svanir deve la vita
E la rosa appassire
Se vuoi vederla un dì
Gioiosa rifiorire
Versi che mi hanno ricordato la lapide che Rilke scriverà per sé stesso: Rosa / pura contraddizione / La gioia di essere sonno di nessuno / sotto tante palpebre.
Prendendo come spunto proprio le vacanze, ecco un pensiero rivolto ai più giovani: Giovane, usa bene il tempo delle tue vacanze, non studiando, bensì in giubilante riposo, cosicché, quando la tempesta si avvicina e la rombante voce del tuono annuncia la fine del tempo delle rose, tu parta di buon animo - ma zitto! Non sono uno che veda fuggir la primavera senza piangere, e stento a comprendere come si possa tornare volentieri a imprigionarsi nei propri ceppi. Ma ormai la mia massima è: goditi la vita così come ti si offre, e non pensare alle fatiche future.
C'è, poi, un passaggio che mi ha colpito più di tutti gli altri, perché rende nobile e strutturato un pensiero che ho scritto in questo libro, ma senza la stessa accuratezza. Nietzsche è convinto che non esista l'inedito, il non creato: I concetti astratti sono da considerarsi i creatori di ogni essere? No, al di là della materia, dello spazio, del tempo, si ergono le fonti originarie della vita, che debbono essere più alti e spirituali, la capacità vitale dev'essere infinita, la forza creatrice illimitata.
Generalmente, suggerisco se leggere o no certi libri: in questo caso, il testo in sé mi ha appassionato molto, ma non saprei dirvi se sia "obbligatorio" farlo. Sicuramente, di Nietzsche vanno letti ben altri testi. Tanto, entro il 2026 avrò sicuramente finito il cofanettone. Seguitemi: ne riparliamo.

11 febbraio 2021

LA TAVOLETTA DEI DESTINI di Roberto Calasso (Adelphi)

Ultimo pannello dell'endecaopera di Roberto Calasso, questo breve quasi-romanzo ha almeno tre caratteristiche che lo differenziamo radicalmente da tutte le opere precedenti: è totalmente privo di bibliografia; ha i tempi narrativi apparentemente in progress; non risente di alcuna digressione. La domanda che viene spontanea è: perché?
Non essendo nella testa dell'autore, e non amando le speculazioni, posso solo pensare che la trama possa aiutarci in qualche modo. 
Che poi, parlare di "trama" non è del tutto appropriato. 
In realtà, infatti, è il racconto dell'incontro tra due figure mitiche e mistiche decisamente distanti tra loro, sia sul piano culturale che su quello gnoseologico: Utnapishtim e Sindbad; il salvatore degli uomini (e quindi premiato con l'Eternità e un'isola tutta per sé) e il primo esploratore.
Ma anche un uomo di acqua dolce e un giovane di acqua salata: «Sei venuto dal mare, Sindbad, non dalla laguna. Sei incrostato di acqua salmastra. Io vivo nel punto dove sgorgano le acque dolci del profondo e si uniscono alla confluenza dei fiumi. Parliamo due lingue di ceppo diverso, ma entrambi veneriamo ciò che è liquido. Tu hai viaggiato per giungere qui, senza saperlo. Io ti ho sempre aspettato».
Un incontro in cui, come da tradizione orientale, si dipana un racconto di racconti, a loro volta figli di altri racconti, di origine incerta, poco chiari nella forma e nella sostanza.
Il vero protagonista è sicuramente Utnapishtim, padre e figlio di una quantità incommensurabile di storie, che esordisce raccontando le differenti anime dei primissimi dèi: «non erano tutti uguali. C'erano dèi superiori e dèi inferiori. Quelli superiori si erano ritirati in cielo: avevano lasciato quelli inferiori a penare sulla Terra. Era inevitabile che un giorno si rivoltassero. Gli uomini avrebbero imparato da loro». Un po' come possiamo leggere in Cadmo e Armonia, mi sembra.
Questo comportamento contraddittorio (quasi sprezzante) con gli uomini, inevitabilmente avrà libero sfogo nel Diluvio. In un primo momento, gli dèi vogliono liberarsi totalmente degli uomini, ma poi grazie a una serie di complicate eccezioni, tipiche di queste leggende così lontane, all'ultimo momento uno di loro dispone che proprio il nostro oratore potrà costruire un'arca per salvare se stesso e gli animali.
Quello che è più evidente, quasi costante nel libro, è che tra gli dèi sussistano contraddizioni e differenze di ogni tipo: la più interessante riguarda la figura di Ishtar, un prototipo di donna cui viene concesso ogni possibile affronto nei confronti degli stessi dèi, e ogni possibile confronto con gli uomini. 
Ishtar sa come esprimere la sua forza; forza che in parte le viene dal possesso delle regole (affini a quelle di cui si parla ne L'ardore); regole che seguono il flusso di una serie di narrazioni che si intreccia e i infittisce. 
Ishtar, insomma, è donna e dea e anche involontaria demiurgo di un modo di concepire il potere divino così potente e arrogante da non temere la Morte.
Ma qui commette il suo errore, perché proprio nel provare a discendere negli Inferi perché crede di poterne uscire incolume, subirà una condizione di perenne sospensione, dissimile dalla morte ma non certo vicina alla vita.
In una delle sue rare narrazioni, Sindbad risponde raccontando una delle origini del Cacciatore celeste; non certo quella raccontata da Calasso nell'omonimo testo, ma una precedente ad essa, più violenta e tutt'altro che romantica; storia che comunque sposta l'idea di morte verso una condizione astrale, in cui ci si trasforma in altro piuttosto che disvanire del tutto.
Inevitabile, quindi, pensare a figure che riescano a conciliare il vivere terreno con le contraddizioni degli dèi. E qui scorgiamo Gilgamesh, l'unico che oltre a Sindbad ha incontrato Utnapishtim. 
La figura di questo protoeroe è tra le più affascinanti che conosca, perché porta già in sé tutti gli archetipi sia degli eroi a venire che di una serie di punti fermi che incontriamo spesso, anche nelle narrazioni meno complesse: forza, etica, verginità, devozione alla Natura, rispetto dell'onore, amore per gli esseri umani.
Altra figura costante, in parte accennata all'inizio di questa recensione, è l'acqua, qui narrata tramite figure di dèi complesse e affascinanti.
Ma cosa rappresenta la tavoletta del titolo? L'ordine. «Finché era custodita dagli dèi superiori, si sapeva come celebrare i riti e attuare la legge. Se non era presente, tutto si dissestava [...] Comunque era qualcosa di esterno a loro, un talismano da tenere appeso al petto. Quindi qualcosa che si può smarrire da un momento all'altro. E allora anche i supremi tra gli dèi superiori precipitavano nel non sapere [...] Gli dèi superiori non erano l'ordine. E neppure avevano elaborato l'ordine».
La Tavoletta dei destini, insomma, «concentrava in un minimo spazio orizzontale l'asse che attraversava il cielo».
E come vivevano gli dèi superiori quando ancora non possedevano tale Tavoletta? «Non dominavano l'ordine. L'ordine li precedeva, li sovrastava. Erano dèi, ma non compiutamente sovrani». Come in Ka, insomma.
E perché "dei destini"? «La necessità non significa. Il destino significa. I destini sono un ordine che significa e si sovrappone alla necessità, punto per punto, passo per passo».
Siamo di fronte, insomma, a un libro che ricuce alcune speculazioni contenute in alcuni dei saggi nodali precedenti. Come in un cerchio magico, viene da pensare, dove gli dèi «che hai incontrato e che incontrerai, ovunque, di là da tutti i mari, sono fatti della stessa sostanza. C'è una grande matassa lucente che rotola e continuamente si lascia dietro qualche pezzo. E quei pezzi sono altre matasse lucenti, che continuano a rotolare e a loro volta si lasciano dietro altre più piccole matasse lucenti». 
E gli uomini, anzi Utnapishtim, anzi Calasso, non conoscono risposte: si sono disabituati a chiedere risposte, perché il mondo non è fatto per dare risposte.


01 febbraio 2021

IL LIBRO DI TUTTI I LIBRI di Roberto Calasso (Adelphi)

Decimo dei (per ora) undici pannelli della gustosa e multiforme opera in corso di Roberto Calasso, questo Libro di tutti i libri è denso, ricco, evocativo: tra tutti quelli del progetto, forse è il più lineare, senza quelle digressioni, quelle variazioni sul tema - o al di fuori di ogni schema, che intarsiano i pannelli precedenti. 
Non è "solo" un racconto della Bibbia, ma anche il manifesto di un modo di raccontare la religione in una maniera tutt'altro che dogmatica o laica, e nemmeno da studioso asettico: porta in sé, insomma, un metodo di approfondimento che si evolve nel suo stesso approfondire; un libro che cerca se stesso mentre lo leggi, insomma. 
La mia non è solo un'affermazione funambolica: è lo stesso autore che in un'autointervista ha chiarito come questo libro - concepito subito dopo Ka, obbligava a una tale vastità di capitoli così complessi e vasti, che a loro volta meritavano pannelli a parte, più strutturati, che si realizzeranno a partire da K. per finire con L'innominabile attuale
Siamo di fronte, insomma, a una "libro cornice", sulla cui lettura grava (o aiuta) l'aver letto l'intera opera fin qui pubblicata. Se, quindi, Kasch è il dito che indica la Luna - e l'intero opus generato è il percorso tra il dito e la Luna - questo Libro è la Luna stessa, nel disperato tentativo di capire «cosa vi accade» da un punto di vista che non si lasci influenzare dagli altri punti di vista.
Sin dai primi capitoli, che trascendono dall'analisi biblica, sono protagonisti Iahvé (ben oltre il suo simbolo religioso) e il suo complesso rapporto con la futura Israele: dall'imposizione di un re iniziale - che di fatto trasforma gli ebrei da popolo sacerdotale a un regno (con tutti le contraddizioni del caso), al concetto di popolo "eletto" - dove quell'eletto è in relazione al saper «far procedere le storie e la Storia».
Dal "peccato" del censimento ai tempi di David - che di fatto espone i viventi anche al male, all'autentica soggezione provata nei confronti della sapienza degli egizi. Dalle incredibili similitudini con l'India vedica, all'idea di libero arbitrio che tale in realtà non è.
Dal fatto che Iahvé abbia scelto un popolo minuscolo per una gigantesca opera di espansione religiosa prim'ancora che militare, all'idea che la parola "ebreo" non delimiti solo i figli d'Israele. E che dire della potenza simbolica della circoncisione? Circoncisione che però è anche limite al piacere sessuale... E che dire dell'assenza di Giobbe, più che della sua presunta pazienza?
Incredibili, poi, sono le ri-letture di alcuni temi biblici così potenti: l'idea del figlio primogenito come ripetizione del rapporto tra Iahvé e il suo popolo; il peso specifico della Pesaḥ (la futura Pasqua, insomma); il vero significato dell'Esodo o del vitello d'oro o delle proverbiali tavole della Legge; il triste destino di Mosè, che a un'attenta lettura può non essere considerato ebreo ma egiziano!
E qui si apre il primo dei due capitoli che apparentemente escono fuori dalla base di questo saggio: una digressione su Freud e la sua visione di simbolico cannibalismo paterno, che in un suo saggio mira proprio a minare le basi dei postulati ebraici. La figura di Mosè viene dilaniata e riproposta in una versione che nulla ha a che vedere con la tradizione d'Israele. A questo si aggiunge l'idea che non sia stato il popolo ebraico il primo a forgiare il metallo del monoteismo. 
Il secondo dei capitoli fuori dal sentiero di questo testo fa cenno all'undicesimo pannello, che inizierò a leggere tra qualche giorno.
Il saggio chiude con l'inizio della Bibbia e la sua naturale conclusione nell'idea di Messia come necessità antropologica prim'ancora che cristiana.
Calasso, insomma, ha dato l'ennesima prova della sua capacità di mettere in dubbio, di destrutturare, di risvegliare l'anima, ma senza lasciare macerie al suo passaggio o addirittura idee di plastica o convenienti: l'autore obbliga il lettore stesso a rivedere ogni possibile forma di conoscenza, non importa da quale prospettiva.



31 dicembre 2020

L'INNOMINABILE ATTUALE di Roberto Calasso (Adelphi)

Nono pannello di un'opera tutt'ora in corso, questo breve ma entusiasmante saggio di Roberto Calasso andrebbe forse interpretato come capitolo aggiunto (ma indipendente) del primo pannello. Infatti, questo titolo così folgorante, innominabile attuale, compare come riga isolata tra i paragrafi isolati de La rovina di Kasch, quasi come fosse un avviso, una sentenza, un'analisi, un ossimoro, un'incredibile quantità di significati costretta dentro un articolo determinativo, un aggettivo e un sostantivo che quasi lo contrasta.
Già, solo su questo titolo potremmo discettare per ore, tale è la sua capacità di evocare argomenti, pensieri, suggestioni e filosofie, anche indipendenti dalle intenzioni di Calasso stesso. 
Premesso ciò, il saggio è suddiviso in soli tre capitoli, che suggerisco di leggere singolarmente e senza pause, e che qui racconto partendo dall'ultimo.
Il terzo è una chiosa quasi disarmante, racchiusa in due sole pagine, velatamente allusiva a un momento del sesto pannello, quelle Folie Baudelaire che tanto ci avevano portato nella profondità oscura ma non ombrosa del poeta francese. Chiosa che rimanda al presente, all'attuale insomma, innominabile o no che sia. Non posso certo citarne qualcosa, anche per non rovinarvi la sorpresa insita nella sua conclusione.
Il secondo capitolo è un ordinato quanto devastante elenco di eventi collaterali al lento procedere della Seconda Guerra Mondiale, all'annientamento del popolo ebraico, a una serie di rimandi più o meno concettuali a buona parte dei pannelli più teorici di questa opera incredibile di Calasso.
Letto senza fermarsi mai, è un capitolo che elenca la debolezza insita dell'Homo saecularis, ormai ben lontano da quelle nobili suggestioni che avevamo incontrato negli altri testi di Calasso.
Durante la descrizione delle ignominie tedesche, compare già un ipotetico link tra il precedente Cacciatore Celeste e il prossimo Libro di tutti i libri, quando cioè scrive: "I nazisti erano la tardiva rappresaglia del mondo animale verso la specie che ne aveva violato l'ordine; e gli ebrei erano i rappresentanti eletti di quella specie". È un passaggio che resta fermo su se stesso, perché la sospensione narrativa e quella emotiva sono tali che passa quasi inosservato.
Il primo capitolo è folgorante: non c'è paragrafo, riga, parola, spazio, che non siano condivisibili, che non costringano a una lettura-rilettura, sia per la densità che per l'acume con cui viene raccontato questo momento attuale, questa volta decisamente innominabile: "La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere ogni giorno dove sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee si sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano. Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell'«innominabile attuale»".
E l'idea di come proceda questo mondo non è decisamente un complimento: "È un mondo frantumato anche per gli scienziati. Non ha un suo stile e li usa tutti".
A forzare la mano, un'affermazione del genere fa venire in mente che in una parte consistente della biblioteca adelphiana, la frantumazione - la quantizzazione, insomma - sia una costante editoriale, e non solo della Biblioteca Scientifica. Come se da sempre Calasso abbia sentito e senta l'esigenza di ricomporre questa frantumazione, di darle un senso, un'origine e un significato.
Altro elemento nodale dell'attuale è il terrorismo: "Fondamento del terrore è l'idea che soltanto l'uccisione offra la garanzia del significato. Tutto il resto appare labile, incerto, inadeguato [...] Come ogni pratica sacrificale, il terrorismo islamico si fonda sul significato. E quel significato concatena ad altri significati, tutti convergenti verso lo stesso motivo: l'odio per la società secolare".
Società secolare che "ha una paura tremenda di quella che è stata la sua più grande scoperta: l'alleggerimento, lo svincolarsi dagli obblighi rituali e confessionali. Invece di apprezzare questa situazione sospesa e prenderla come possibile inizio di nuove mosse, si precipita a ingabbiarsi nelle cause, buone o pessime che siano. E quelle cause sono innanzitutto palliativi".
Cause che sono palliativi. Come questa: "I secolaristi si accorsero che non erano soli. E che non occupavano tutto il mondo. Le procedure si applicavano ovunque, ma i secolaristi vivevano solo in una certa parte del pianeta - e neppure la maggior parte. Si sentirono improvvisamente assediati da stranieri, che chiamavano migranti. I quali volevano usare le loro procedure, ma continuavano a guardarli con l'occhio infido di chi si sente altrove".
Non resta che rivolgersi alla religione, alle chiese, alla Chiesa: "Homo saecularis applica precetti di eredità cristiana, ammorbiditi e edulcorati. Soluzione tiepida e pavida, si combina, in senso inverso, con il movimento in corso nella Chiesa stessa, che cerca sempre più di assimilarsi ad un ente assistenziale. Il risultato è che i secolaristi parlano con una compunzione da ecclesiastici e gli ecclesiasti ambiscono a farsi passare da professori di sociologia".
Il pensiero della società secolare, insomma, "è ciò che rimane dopo un processo di svuotamento progressivo, operante da un certo numero di millenni".
Non se la passa bene neanche la democrazia: "Rispetto a tutti gli altri regimi, la democrazia non è un pensiero specifico, ma un insieme di procedure, che si pretendono capaci di accogliere in sé qualsiasi pensiero, eccetto quello che si propone di rovesciare la democrazia stessa. Ed è questo il suo punto vulnerabile, come si dimostrò in Germania nel gennaio 1933 [...] La democrazia formale è senz'altro la più perfetta versione della democrazia, ma anche la più inapplicabile. Soprattutto quanto è stato superato un certo meridiano della Storia e le pressioni demografiche, etniche, psichiche diventano sopraffacenti. Allora risorge la chimera della democrazia diretta. Suo fondamento è l'odio per la mediazione, che facilmente diventa odio per il pensiero in sé, indissolubilmente legato alla mediazione".
L'innominabile attuale è anche (nella) tecnologia: "All'inizio del nuovo millennio, quando si stabilizzò l'impero digitale, divenne chiaro che controllo significava innanzitutto controllo dei dati. E la situazione si rovesciò. Quei dati non venivano più estratti a forza dall'alto, ma spontaneamente offerti dal basso, da innumerevoli individui. Ed erano la materia stessa su cui esercitare il controllo". Chissà se abbiamo capito quello che ho appena trascritto, perché è esattamente quello che andrebbe detto.
Bellissimo l'apologo sugli hacker, che ho citato anche in questa puntata di WikiRadio, andata in onda su Rai Radio3 l'11 novembre 2020: "La traduzione di hacker come «pirata informatico» è imprecisa e sviante perché ignora l’aspetto di operazione sulla forma che è insito nel termine inglese. Hacker è qualcuno che taglia, intacca, e - eventualmente - smonta, ricompone, frantuma una forma. Senza questa azione sulla forma non si dà hacking; la pirateria invece è un puro atto di aggressione e sottrazione […] Ogni software richiede operazioni di codifica universale e onnilaterale, Ogni codifica è una sostituzione. Ma anche la codifica può essere sostituita. E magari da un «codice maligno», come si usa dire nel gergo informatico. È questo il karman della digitalità. Chi di sostituzione ferisce, di sostituzione può facilmente perire".
Potrei scrivere decine e decine di citazioni vere e attuali; ma preferisco congedarmi con quelle due che ci riguardano da vicino, a noi pionieri della tecnologia, ma soprattutto ai ragazzi che sono cresciuti e cresceranno circondati da questo impalpabile attuale: "Un immane sconvolgimento psichico, che nessuno sarebbe in grado di circoscrivere, è stato provocato - e continua ad esserlo - dalla confluenza fra il digitale e il digitabile. Il sapere assume la forma di una singola enciclopedia, in perenne, proliferante espansione e in linea di principio digitabile. Enciclopedia che giustappone informazioni impeccabilmente veritiere e informazioni infondate, ugualmente accessibili e sullo stesso piano. Ciò che è digitabile appartiene a ciò che è famigliare, perché trattabile con affettuosa noncuranza. Il sapere perde prestigio e appare come fatto di voci - nel senso di voci di un'enciclopedia e di voci vaganti, incontrollabili".
L'affondo finale è disarmante (che poi spettacolizzare questa citazione con una premessa simile, conferma il postulato della citazione stessa): "C'è poi un altro aspetto, non meno dissestante, della disponibilità informatica. Chiunque si è trovato a poter produrre, senza alcun vincolo, parole e immagini, virtualmente divulgabili ovunque, per un pubblico illimitato. Tanto è bastato per suscitare un diffuso delirio di onnipotenza, ma non più come fenomeno clinico. Al contrario, come arricchimento della normalità. La mitomania è entrata a far parte del buon senso".


21 dicembre 2020

IL CACCIATORE CELESTE di Roberto Calasso (Adelphi)

Ottavo pannello della mirabile opera in fieri di Roberto Calasso, questo Cacciatore Celeste ha dei momenti di raro romanticismo, altri di una profondità intellettuale che inebria, altri ancora in cui l'autore indugia su alcuni momenti delle sue opere precedenti.
Libro straordinario e pieno di vita propria, in cui ogni tanto, però, sembrano entrare in conflitto il tema trattato e lo stile tipicamente "calassiano".
L'autore, infatti, procede per campate (come direbbe Rilke), ponendo sub-paragrafi dentro capitoli decisamente sistemici, costringendo il lettore a un gioco vorticoso di avanti/indietro tra una pagina e l'altra, tra un paragrafo e l'altro, tra un capitolo e l'altro. Non è un male, visto che poi è - appunto - lo stile cui ci ha abituati. Ma in questo contesto si corre il rischio di perdere l'insieme.
E in un certo senso, è Calasso stesso ad ammetterlo quando dice: "Si scrive un libro quando si  precisato qualcosa che si deve scoprire. Non si sa cos'è né dov'è, ma si sa che si deve trovarlo. Allora comincia la caccia. Si comincia a scrivere". ≪Comincia la caccia≫, appunto, sia per chi scrive che per chi legge; e come suggerisce anche l'idea filmica del cacciatore che abbiamo un po' tutti, molte volte ci aggiriamo tra frasi e concetti rovistando troppo nello stesso punto.
Sul perché si soffermi sull'idea del cacciatore, Calasso ne aveva già parlato in alcune delle sue opere precedenti - e che riassume così: "La caccia nasce come atto inevitabile, finisce come atto gratuito [...] Non si sa che cosa avviene fra il cacciatore e la preda quando si affrontano. È certo, però, che prima della caccia, il cacciatore compie gesti di devozione. E, dopo la caccia, sente l'esigenza di scaricarsi una colpa".
Il cacciatore come esempio di umanizzazione, di Homo (come dirà spesso in questo libro), come lenta e inesorabile negazione del suo rapporto con la Natura: "Quando si compì il distacco da qualcosa che si sarebbe chiamato animale da qualcosa che si sarebbe chiamato uomo, nessuno pensò che la sapienza - la vecchia e la nuova sapienza - potesse trovarsi se non in qualcuno che partecipasse alle due forme di vita".
Chi presidia, quindi, la relazione tra uomo e Natura? Chi riesce a mantenere il giusto equilibrio tra le due parti? Qui interviene una lettura interessante di una figura anch'essa vittima di una certa banalizzazione filmica: lo sciamano. "I mondi sono tre e gli uomini normalmente stanno in quello di mezzo. Lo sciamano, invece, in tutti e tre [...] Cacciatori e sciamani sono gli esseri più affini. Spesso parlano lo stesso linguaggio segreto, che poi è quello degli animali [...] Essere sciamani era un'altra vita che presupponeva l'offerta e la scomposizione del proprio corpo, così simile a quella che subivano gli animali sacrificati".
Ora, c'è un elemento che dobbiamo tenere a mente: l'oralità. Il ciclo di ogni evento si mantiene integro solo attraverso l'eredità orale: "Gli uomini diventano metafisici durante la caccia. L'agricoltura avrebbe aggiunto al pensiero soltanto un dato essenziale: il ritmo, l'alternarsi tra fiorire e appassire". Ma quando si arriva alla storicizzazione, questo equilibrio tra Homo e Natura viene meno: "Finché non venne inventata la scrittura, era impossibile fissare in una forma di storia ciò che accadeva". Chiaramente, anche i luoghi segnano la sconfitta di questa ciclicità, perché ogni forma di ritualizzazione (lo strumento attraverso cui sopravvive un'idea di ciclo) perde la sua forza naturale: "La città è il luogo ideale dove l'animale guida viene abbattuto".
Escluso lo sciamano, che comunque è Homo, la prima vera cultura europea istituzionalizzò l'idea del cacciatore attraverso una delle dee più interessanti del variegato panorama mitologico greco: Artemide, che "non si curò mai della caccia come opera civilizzatrice, che mirava a sterminare belve e mostri, bonificando la natura strapotente. Anzi, la avversava. Per la dea la caccia era un gioco che ricominciava ogni volta, monotono e invincibile".
In un solo caso, Artemide uccide senza volerlo, ma per colpa di un brutto tiro di Apollo: la vittima è l'amato Orione. Sarà la dea stessa a consegnare poi Orione al cielo, insieme al suo fido Sirio (il ≪cane maggiore≫), perché per gli dèi greci "Quando qualcuno non può più essere trasformato, ma va salvato, diventa astro".
Artemide è nodale perché condiziona anche la storia d'amore comunque travagliata tra Procri e Cefalo. "Figlia del re di Atene, innamorata di un giovane che veniva da un porto minore dell'Attica, Procri aveva vissuto in un periodo di guerre, quando per la prima volta gli Ateniesi si erano dati il nome di Ateniesi. Ciò che si tesseva in lei, sin dall'infanzia, era una ragnatela di emozioni: un giorno si sarebbero chiamati sentimenti. Ebbe a che fare con sovrani e con dee, ma la sua vicenda, da un capo all'altro, fu totalmente privata [...] Polignoto dipinse Procri offesa dalla gelosia e recriminante anche negli Inferi. L'arte di quei greci non compendiava soltanto il passato, ma già sbrogliava, filo per filo, la matassa di ciò che si sarebbe chiamato letteratura".
Inevitabilmente, con questo passaggio nel mondo greco, Calasso è quasi costretto ad affrontare anche la breve età degli eroi, cacciatori sotto altre spoglie, entrando dentro storie che hanno fatto parte anche del nostro immaginario collettivo, tra cui Giasone e il Vello d'Oro. Eroi cui va inserita in qualche modo, quasi incastrata, anche la figura di Odisseo, di quel suo essere ucciso dal figlio che aveva concepito con Circe; ucciso proprio all'indomani del suo ritorno ad Itaca, dove aveva trovato ad aspettarlo Penelope e Telemaco. E nonostante questo omicidio, sarà proprio Telegono a recarsi in Italia con il fratellastro e Circe.
Ecco, è su questi strappi narrativi che si rischia di perdere per strada il tema principale del saggio. Per fortuna, ci viene in soccorso il capitolo successivo ≪Sapienti e predatori≫: "La caccia è il luogo dove si svolge lo sdoppiamento primordiale, la divaricazione da cui tutte le altre discendono. La preda diventa cacciatore nel momento in cui uno sguardo si posa su un essere distinto da sé. In quello sguardo sorge il cacciatore, che fino a quel momento era stato un animale in mezzo agli altri. Era l'animale. Ora, diventando lo sguardo che osserva l'animale, era tenuto anche a ucciderlo".
All'inizio di questa recensione, e anche quindi del saggio, abbiamo incontrato la parola ≪colpa≫, che è quasi strumento di espiazione per l'essere diventati Homo: "Ci furono due peccati capitali: la separazione e l'imitazione. La separazione avvenne quando Homo decise di opporsi al continuum zoologico, prendendo alcuni animali al suo servizio e considerando gli altri come materiale potenzialmente utile per i suoi fini. L'imitazione quando Homo si avvicinò, nel suo comportamento, ai predatori. Una volta compiuto il passaggio alla predazione, Homo non sapeva come trattare quella nuova parte della sua natura. Scelse di circoscriverla nel suo significato letterale e di espanderla indefinitamente come metafora Inventò la caccia come attività non indispensabile, gratuita. Fu la prima arte per l'arte".
E dopo questa chiosa disarmante e anche "logica", Calasso aggiunge un corollario che diventa la pietra angolare della citazione precedente: "Nel regno animale, gli esseri continuavano a vivere come avevano sempre vissuto. Ripetevano immancabilmente gli stessi gesti. Quando Homo si trasformò in predatore, inferse una lesione in questo ordine delle cose. Da allora ogni uccisione fu anche un segnale che ravvivava il ricordo di quel passaggio. E intorno a quel ricordo si elaboravano altri gesti, ripetuti con regolarità. Il rito permetteva di non discostarsi troppo dagli altri viventi".
Interessante, quindi, stabilire il peso psicologico dell'essere diventato cacciatore: "L'uomo non è un predatore nato, ma un predatore acquisito [...] I predatori sono indifferenti agli animali che non uccidono. Non così Homo, che intendeva trarre profitto da tutti gli animali [...] Homo non era un carnivoro per costituzione, il passaggio alla dieta carnea fu un evento nella sua storia. Anzi, il primo evento precisabile".
Che l'Homo non sia all'altezza del ruolo che sta acquisendo, viene spiegato in questo modo: "Homo apprende più difficilmente e più lentamente rispetto agli altri animali [...] Se non disponesse di una radicale indeterminazione, Homo non potrebbe sviluppare le sue enormi capacità di imitazione. Il ritardo dello sviluppo accresce la potenzialità di sviluppi".
Ma cosa resta della Natura? "Da Descartes in poi, i grandi filosofi che si incontrano nei manuali hanno dato una prova meschina nel trattare degli animali. Più che un modo per pensarli, la filosofia era una strategia per difendersi dal doverli pensare".
Il saggio procede a grandi passi verso un momento a metà tra il mito e la filosofia. Per farlo, bisogna passare per Eracle, cacciatore ma anche figlio di un dio, eterno ma mortale, invincibile ma non indistruttibile: "Spesso gli eroi erano innanzitutto cacciatori. Al contrario di loro, per diventare eroe Eracle dovette rinnegare in sé il cacciatore [...] Anche se gli eroi erano figli o discendenti di Zeus e di una mortale, e questo li avvicinava nella vita agli dèi, al pari degli uomini incontravano la morte". Il secondo concepimento di Eracle è struggente e doloroso al tempo stesso. Mentre Zeus vi assiste, si rende conto che quel compromesso con l'Homo lo porterà dentro al mito, e quindi alla fine del suo ciclo.
L'altro baluardo della resistenza alla modernità è la metamorfosi. Di conseguenza, Calasso dedica un intero capitolo a Ovidio: "Le Metamorfosi sono storie dentro storie, incastonate, autosufficienti. Nella loro immediatezza, tutte potrebbero fare a meno delle altre. Ma ciascuna è illuminata dalla sua cornice e solo dalla cornice trae un significato ulteriore". Se non è lo sciamano, se non sono gli dèi, forse la lettura di Ovidio potrebbe salvarci dal nostro essere diventati Homo? Evidentemente no, come si evince in questo passaggio: "Durante il regno della Metamorfosi si diventa ciò che si era. Più tardi, un velo di opacità si era steso progressivamente sul mondo. Era venuto a cadere ogni rapporto tra ciò che si era e come si appariva".
Uno dei fari intellettuali cui Calasso sembra identificarsi, è la figura di Plotino, cui viene dedicato un capitolo che apparentemente si discosta dal tema del saggio. La sua fuga del solo verso il solo nasce dalla sua conoscenza diretta di quelle culture che abbiamo incontrato noi "calassiani" leggendo sia Ka che L'ardore: la non-conoscenza è superiore alla conoscenza; l'Uno è un non-essere, non è sostanza, non è vita. Il pensiero deve andare oltre se stesso, abolendosi, annientandosi, rifiutandosi. 
Il capitolo successivo affronta una cultura cui sia i greci che Plotino devono molto: gli egizi. Calasso li ricorda per quel loro incredibile rapporto che avevano con gli animali, vera e propria origine dei misteri greci. Erano "barbari", ma non nella accezione che crede la vulgata comune: "I barbari erano civiltà più antiche della Grecia, che avevano raggiunto una sapienza altissima e immobile". E qual è il nesso con il saggio che stiamo leggendo? "Mentre gli egizi cercarono di raggiungere la massima animalizzazione dell'uomo, la vita dei greci ruotava attorno a un cardine: il riconoscimento degli dèi". 
E quindi torniamo allo schema originario del saggio: "All'inizio: non c'era caccia senza il divino; non c'era il divino senza caccia. Poi venne un momento in cui la caccia non ebbe più nulla a che fare con il divino e ciò che veniva chiamato divino non aveva pressoché nulla a che fare con il divino".
Resta un'ultima chance, quindi, quando Calasso riconduce ai Misteri - mutuati proprio dagli egizi - l'ultima possibilità dell'Homo di ricongiungersi al ciclo, alla Natura: "I Misteri non sono una cosa che si possiede, come un pensiero; non sono qualcosa che si applica, come una formula. Sono un luogo che offre qualcosa di ulteriore ogni volta che vi si torna. Ma per tornarvi occorre allontanarsene, rientrare nella vita comune - e poi lasciarla di nuovo".


29 novembre 2020

L'ARDORE di Roberto Calasso (Adelphi)

Mirabile quanto ricco di pagine pastose, questo è il settimo pannello dell'opera eterogenea di Roberto Calasso, tutt'ora in corso (al momento conta undici titoli). 
E rappresenta forse il perno delle tesi di partenza presentate nel primo pannello, Le rovine di Kasch. Scrivo "forse", perché è una mia interpretazione; poi, magari, Calasso non sarà d'accordo.
Certo è che siamo di fronte a un libro molto complesso, spesso intriso di una sapienza rara e conturbante, tanto che a volte sembra quasi anti-etico andare avanti nella lettura anche se non si è capito "tutto" fino in fondo. Ma con questo libro bisogna fare così, altrimenti non si finirà mai di leggerlo: bisogna, cioè, lasciarsi cullare da certe descrizioni, da certe idee, da certe indicazioni, piuttosto che provare a comprenderle tutte, immediatamente, fino alla radice.
Del resto, l'uso di parole occidentali (quindi "non-vediche") per approfondire il pensiero vedico è già un problema, per chi scrive e anche per chi legge; figuriamoci poi a recensire un saggio che affronta anche questo dilemma. Lo sappiamo, per ogni singola cultura certi significati hanno un sottotesto ancestrale così potente e irripetibile, che inevitabilmente ci fanno ragionare dentro al solo nostro modo di intendere quel significato. 
Ed è, in un certo senso, anche il monito di Calasso, quando verso la fine del saggio scrive: "L'immanifesto è molto più vasto del manifesto. L'invisibile del visibile. Così anche per il linguaggio. Noi tutti dobbiamo sapere, quando parliamo, che del linguaggio «tre parti, depositate nel segreto, sono immobili; la quarta parte è quella che usano gli uomini». Soltanto perché la lingua proietta un'ombra ben più vasta di sé e inaccessibile la parola conserva e rinnova un tale incanto".
Dunque, si parla dell'India dei Veda, di trattati, inni e formule, scritti l'ottavo secolo prima di Cristo, in cui incontriamo anche archetipi ed echi che saranno anche tra i nodi fondanti dell'agire proprio e anche di Gesù. Più volte, infatti, nei miei appunti e sottolineature, ho evidenziato qualche impercettibile rimando a momenti del Vangelo. Del resto, non solo la vulgata comune - ma anche esperti di varie discipline, concordano sul fatto che lo stesso Gesù abbia frequentato - se non almeno conosciuto - le immensità delle culture asiatiche.
Quello che fa impressione è che la cultura vedica non abbia prodotto "cose" ma "idee", idee potenti. E tra queste, quella dell'uomo appare misera e fragile, frantumata e disgregabile di fronte alla potenza degli dèi e degli animali. Un uomo che attraverso il sacrificio riassesta un equilibrio che da precario può diventare solo instabile, e che non conosce altro che questo meccanismo costante e continuo: "L'uomo è l'unico essere che rifletta sull'uccisione [...] L'uomo è l'unica fra le vittime sacrificali che celebri anche sacrifici". Insomma, "L'uomo nasce in quanto persona con un debito dovuto alla morte: quando offre sacrifici riscatta la sua persona dalla morte". E di conseguenza: "Il sacrificio è l'atto con cui il male viene condotto alla coscienza". 
Questo L'ardore, insomma, indica nel distacco dell'uomo dalla sua essenza animalesca come il principio della fine, che proprio la techne - la tecnologia nel senso più ampio del termine - ha di fatto determinato. Ma oltre alla techne, per distaccarsi dal suo essere animale, l'uomo insegue la mimesi, imitando appunto l'animale stesso. 
Contemporaneamente, proprio l'essenza umana consiste anche nel porsi delle domande, l'uomo insegue (e delinea) la conoscenza. Conoscenza che, solo se viene praticata in relazione agli dèi, può portare all'ardore: "Per sapere bisogna ardere. Altrimenti ogni conoscenza è inefficace. Perciò bisogna praticare l'ardore. E il Sole è l'essere che più di ogni altro arde. A lui è necessario rivolgersi, per attingere la dottrina".
Come abbiamo visto, quindi, il punto di partenza è la presenza-non-presenza degli dèi vedici. Era stata già delineata in Ka ("chi", inteso come domanda eternamente senza risposta): gli dèi esistono nel momento in cui si chiedono essi stessi "chi" siano. Forse questo passaggio aiuta ad avere idee più precise a riguardo: "Il visibile agisca sull'invisibile e, soprattutto, che l'invisibile agisca sul visibile. Che il regno della mente e il regno di ciò che è palpabile comunichino continuamente".
L'altro convitato di pietra è un personaggio notoriamente molto amato da Calasso: Nietzsche. Lo si percepisce in maniera eclatante in passaggi come questo: "La vita è un bene che la morte ha lasciato a ogni uomo in deposito. Bene di cui la morte chiederà la restituzione, facendo rientrare l'uomo nella morte".
Le ultime 40/50 pagine possono essere lette per prime. E non è la prima volta che riscontro questa sensazione nei libri di Calasso; è come su chiudendo il cerchio del saggio, ritornasse al punto di partenza, consapevole che il lettore abbia "imparato" qualcosa di nuovo e quindi possa "rileggere" il punto di partenza con un'altra attitudine. 
Di queste pagine finali, mi ha colpito soprattutto questo passaggio; sembra quasi una premessa a L'innominabile attuale: "Ben poco di religioso, in senso stretto e severo, sussiste al mondo. E non tanto nei singoli, quanto nelle strutture collettive. Che si tratti di chiese, sette, tribù, etnie, il loro modello è un informe super-partito, che permetta di fare quanto e più di ciò che l'idea di partito già permetteva, in nome di qualcosa che veniva definito come identità. È la vendetta della secolarità. Dopo aver vissuto per centinaia e migliaia di anni in una condizione di sudditanza, come ancella di poteri che si imponevano senza giustificarsi, ora la secolarità - beffardamente - offre a tutto ciò che ancora nomina il sacro le modalità per agire nel modo più efficace, più aggiornato, più micidiale, più adatto ai tempi. È questo l'orrore nuovo che doveva ancora cristallizzarsi: tutto il secolo ventesimo ne è stato il lungo periodo di incubazione.
Perché si possa parlare di qualcosa di religioso occorre che si stabilisca un qualche rapporto con l'invisibile. Occorre che vi sia il riconoscimento di potenze situate al di là e al di fuori dell'ordine sociale. Occorre che l'ordine sociale stesso miri a stabilire un qualche rapporto con quell'invisibile".
Questo di Calasso, insomma, è un testo che prova disperatamente a presentare una cultura che non può essere compresa fino in fondo, ma solo perché la nostra ha graniticamente alterato l'idea stessa della percezione del reale e dell'invisibile. 
E non sono certi i riti tout court a poter restituire una visione del mondo ormai dimenticata: "L'incompatibilità tra le due visioni è totale. E incommensurabile è la disparità tra le forze: da una parte una concatenazione di procedure che è giunta per la prima volta a coprire, con una impercettibile maglia digitale, la totalità del pianeta; dall'altra un grumo di testi, in parte accessibili soltanto in una lingua morta e perfetta, che parlano di gesti e di entità che non sembrano avere più alcuna rilevanza". 
Ecco, forse leggendo questo libro si tiene viva una testimonianza, si mantiene viva una benché flebile fiamma, di una cultura decisamente all'avanguardia rispetto ai secoli in cui ha prosperato.

04 novembre 2020

LA FOLIE BAUDELAIRE di Roberto Calasso (Adelphi)

Sesto di un'opera in costante evoluzione (ad oggi di undici volumi), questo racconto/saggio/requisitoria di Roberto Calasso sembra una discesa nel lato oscuro della cultura francese, ormai orfana della Rivoluzione come anche delle gesta illusorie di Napoleone. Che poi usare l'aggettivo "oscuro" è totalmente fuorviante: a voler fare una similitudine semplicistica, è un po' come quella parte della nostra libreria che è sempre in penombra: per quanto i titoli possano essere illuminanti, quella collocazione forzata ne mortifica involontariamente la forza e il contenuto.
Il perché di questo titolo - e quindi l'ambito intrigante del significato del testo, lo scopriamo nelle ultime pagine, quando cioè Calasso ragiona su un ragionamento di Sainte-Beuve: "Baudelaire ha trovato modo di costruirsi, all'estremità di una lingua reputata inabitabile e al di là dei confini del romanticismo conosciuto, un chiosco bizzarro, assai ornato, assai tormentato, ma civettuolo e misterioso, dove si leggono libri di Allan Poe, dove si recitano sonetti squisiti, dove ci si inebria con hashish per ragionarci poi sopra, dove si prendono oppio e mille droghe abominevoli in tazze di porcellana finissima. Questo singolare chioso, lavorato a tarsie, di una originalità concertata e composita, io lo chiamo la folie Baudelaire. L'autore è contento di aver fatto qualcosa di impossibile, là dove si credeva che nessuno potesse andare".
Tornando indietro, agli inizi del saggio, Calasso si muove tra le scelte artistiche e private di Baudelaire (spesso commistiate tra loro senza soluzione di continuità), interpretando e rileggendo alcuni passaggi della sua vita che abbiamo sempre ritenuto assodati.
Per esempio, gli esatti confini del discusso rapporto con Jeanne Duval: "Non vi è traccia alcuna che Baudelaire aspirasse a una qualche vita familiare (neppure un sospiro come quello di Flaubert). Al più agognava una vita domestica tranquilla, ben assestata, ripetitiva: l'opposto di quella che gli si offriva ogni giorno".
Oppure il suo uso nascostamente strumentale della sua passione per Poe: "Cresciuto sotto il cielo quadrato delle Solitudini, Baudelaire mantenne sempre un qualcosa di adolescenziale, una certa turbolenza spavalda e desolata. Non raccontò mai quegli anni, ma ne accennò per interposta persona, come gli era consueto, attribuendo i suoi sentimenti di allora a Poe".
E quindi quello strano senso di autocommiserazione mai portata a estremo compimento: "Baudelaire fu un sommo perito dell'umiliazione. Nessun altro scrittore, per quanto travagliata la sua vita, può competere con lui nella pratica di quello stato". Che potremmo mettere accanto a questo passaggio: "Baudelaire fu il solitario, impavido sostenitore del diritto irrinunciabile di contraddirsi".
Interessante, poi, il porre la città come sfondo partecipe del suo approccio poetico: "La Parigi di Baudelaire è caos dentro una cornice. Essenziale è il riconoscimento del caos, del pullulare delle forze e delle forme, della benevola ospitalità data a tutte le varianti del mostruoso [...] Tutto ciò che avviene all'interno della cornice esalta gli elementi che vi sono circoscritti, li obbliga a ibridarsi in combinazioni mai sperimentate. Così nasce il nuovo".
Si respira poi una sorta di repulsione a classificare la presunta oscurità dell'artista dentro canoni freudiani: "Innumerevoli sono stati i tentativi di sottoporre Baudelaire a una qualche direzione psicologica. Immancabilmente maldestri e importuni. La psicologia si ferma prima della letteratura. E Baudelaire era andato oltre la letteratura. Ma rimane indubitabile che ad ogni sua frase si sprigiona il profilo di una persona, di un clima psichico, di un certo modo di sentirsi vivi".
E, come in tutti i libri di Calasso, è avvincente anche la cornice di altri pesi massimi della cultura, i cui pensieri spesso figurano come inconsapevoli coautori collaterali: Proust, Hölderlin, Gautier, Rimbaud, Flaubert, Nietzsche, Mallarmé, Valéry. Un profluvio di pensieri e annotazioni che inebria e coinvolge.
Ci sono, poi, artisti intorno ai quali si disvelano altri aspetti di Baudelaire. Artisti come il poco amato Ingres, "soltanto genio" come sottolinea l'autore stesso, la cui matita aveva sulla carta "la stessa delicatezza della mosca che erra su un vetro"; matita che trovava nel disegno "i tre quarti e mezzo di ciò che costituisce la pittura". Estraneo al proprio tempo, Ingres era incolto e refrattario alla cultura. Innamorato della figura femminile, eccelleva nell'esaltare le parti meno immaginabili dell'erotismo femminile raffigurato fino ad allora. 
Altra figura analizzata: Delacroix. Quasi ossessionato dalla sessualità, la sua figura viene usata come ideale utile fulcro per introdurci nel sogno quasi-erotico (e qui forse molto freudiano) di Baudelaire in un bordello in cui si sviluppa un gioco costante tra illusione, estasi, sogni e riferimenti personali.
Ma è con la lunga e dotta analisi sulle tecniche di Degas che Calasso dà il meglio di sé, disvelando una personalità non solo pittorica: il suo andare oltre le "inquadrature" classiche, cogliendo le figure raffigurate in pose eterodosse dove il loro sguardo non si posa verso l'altro o verso lo spettatore, ma altrove, con un'espressione e una mimica facciale imperscrutabile se non conflittuale. Sono pagine magnifiche, quelle di Calasso, dove finalmente si coglie la potenza di un artista di cui spesso conosciamo solo le ballerine e poco più.
Un libro incredibile, che conferma quanto quest'opera senza fine di Calasso sia una delle poche isole intellettuali ancora vive e fiorenti, intorno alle quali vale la pena soffermarsi per poi trovarvi rifugio.

15 ottobre 2020

IL ROSA TIEPOLO di Roberto Calasso (Adelphi)

Quinto di un'opera in undici volumi - diversi ma interconnessi tra loro, questo Tiepolo è uno splendido libro in cui ci si possono perdere con dolce voluttà gli appassionati di diverse discipline dello spirito: Arte, Storia, Letteratura, Mitologia, Esoterismo, infatti, si amalgamano e si rincorrono senza soluzione di continuità; Roberto Calasso, insomma, dà veramente il meglio si sé.
Diviso in tre corposi capitoli (che suggerisco di leggere uno per volta, o comunque senza interromperli dentro pagine a caso), è un saggio che analizza lo stile del pittore e soprattutto i suoi riferimenti culturali, anche quelli meno pensati. Forse questo passaggio chiarisce meglio la mia eccessiva sintesi: Tiepolo "non mise mai i simboli in posa [...] Non c'è negli Scherzi alcun senso obbligato, ma una scansione fisiologica, un'alternanza di climi psichici, dove nessun elemento prevale sugli altri. Anche quando i significati si addensavano nelle sue immagini con furia insolente, Tiepolo non rinunciava mai alla sua aria di chi fa senza fatica e senza pensarvi. Riuscendoci così bene da lasciar credere che pensiero in lui non vi fosse, E così proteggendo quel pensiero stesso dagli intrusi".
E poi: "Tiepolo lasciava accadere qualcosa che presto sarebbe diventato una componente insopprimibile di ogni esperienza: la trasformazione della Storia - e di tutto il passato - in fantasmagoria, materiale adatto ugualmente a fornire le quinte di uno spettacolo da fiera o a diventare immagine ossessionante, pura potenza della mente".
Un altro elemento interessante è quando sottolinea che nella sua quotidianità, Tiepolo non "attirava l'attenzione sotto alcun aspetto. Né sono stati tramandati aneddoti o incidenti significativi che costellino la sua vita". Al contrario di uomini assoluti come Caravaggio, che peraltro vedeva nella pittura di Tiepolo un "non condividere la sua smania di verità".
E come si pone il suo stile dentro l'alveo dell'arte del Settecento? "Tiepolo esorbita da ogni cornice della pittura settecentesca e diventa del tutto opaco se interpretato all'interno di uno sviluppo storico". In realtà, insomma, "Tiepolo è un esempio estremo di scioltezza taoista nell'arte. Qualità inconcepibile prima di lui, mai più raggiunta dopo [...] La Storia giustamente lo percepì come un intruso, mentre si operava tenacemente per rendere la sensibilità più spessa, più grezza".
Forse in questo passaggio troviamo uno dei motivi per cui Calasso provi così tanta attrazione per l'artista veneziano: "Tiepolo corrispondeva a un tracciato fisiognomico, a un timbro che l'Europa era giunta a sprigionare da sé, quasi senza accorgersene, dopo secoli di oscura elaborazione. Ed era il cielo d'Europa - l'unico cielo che sapeva abbracciare, con equanime benevolenza, tutte le immagini, degli dèi e degli uomini, dei santi e delle Ninfe, dell'Olimpo e di Betlemme. La scepsi e la mistica: Tiepolo accoglieva tutto, ma riducendo ogni volta la dipendenza delle figure dalla gravità. Il passo diventava appena un po' più leggero, più fluido. Però nulla veniva dimenticato, dai nani e dai Pulcinella fino agli angeli e ai draghi [...] Nessuno sospettò che con lui fosse scomparso l'ultimo punto di equilibrio nel visibile. Elusivo, precario e ammaliante. Eppure così era. In seguito, si dimenticò persino che quel punto esistesse".
Una delle opere su cui si sofferma l'autore sono gli Scherzi, peraltro analizzati e raccontati (grazie anche a riproduzioni in pagina) con inarrivabile pathos: "come tutti gli esoterici, Tiepolo non disse nulla del suo segreto. Lo mostrò soltanto. Sapeva che con ogni probabilità non sarebbe stato riconosciuto. E non lo fu".
Nel suo raffigurare i suoi Scherzi, "Tiepolo si faceva scortare da quella compagnia orientale ed extratemporale, pronta ad assumere tutti i ruoli, dall'antichità biblica e romana alla favola tassesca. Ma soltanto negli Scherzi quella compagnia è in libertà. Soltanto qui i personaggi ci lasciano spiare che cosa fanno quando stanno da soli. Soltanto qui si capirà perché i loro volti sono così severi e seducenti. Soltanto qui si svelerà perché gli Orientali hanno quelle fisionomie solenni e terrorizzanti, arcaiche e cifrate". Prima che qualcuno si indispettisca: "gli Orientali (raffigurati negli Scherzi) sono coloro che agiscono e guardano [...] Il loro ruolo è sempre cruciale, la loro presenza indispensabile".
Ma perché Calasso si sta soffermando in maniera così dettagliata e arguta proprio sugli Scherzi? "Sono una composizione-fantasma. Senza di essi, l'opera di Tiepolo avrebbe una sua ammirevole compiutezza, priva di lacune. Ma, in presenza di essi, il significato dell'insieme cambia, in modo radicale".
Ognuno di questi Scherzi raffigura anche simboli e citazioni simboliche che per un profano potrebbero sembrare di mero abbellimento allusivo. Invece, "Tiepolo scelse di raffigurare il momento in cui l'invisibile sta per apparire - o forse è appena apparso e sta prendendo forma [...] Tiepolo non era incline a mettere simboli in scena, ma intendeva mostrare che cosa accade quando un simbolo si scopre, talvolta al di fuori della scena raffigurata". 
Tiepolo non esclude nulla, "neppure Morte, che viene accolta tra i suoi personaggi e non si fa troppo notare. La felicità che Tiepolo emana non necessariamente abitava in lui stesso. Può darsi che le abbia detto in molte occasioni di ripassare più tardi, perché al momento doveva finire un lavoro ed era in ritardo". 

12 ottobre 2020

K. di Roberto Calasso (Adelphi)

Quarto di un'opera in undici volumi, questo saggio-racconto di Roberto Calasso è totalmente incentrato su Kafka. A differenza, però, dei primi tre, è quasi obbligatorio conoscere l'opera omnia dello scrittore praghese, altrimenti non si apprezzano allusioni, riferimenti e interferenze.
Certo, potreste farmi la sana e sensata obiezione che i saggi precedenti avevano comunque lo stesso "limite" (sempre che di limite si possa parlare); ma qui le cose sono decisamente differenti. 
I riferimenti dei precedenti, infatti, o erano alla portata di tutti anche e solo in superficie (Cadmo e Armonia), e quindi le analisi di Calasso diventavano almeno accessibili, seppur profonde e complesse; oppure venivano raccontate, quasi spiegate, prima ancora di essere analizzate (Ka), aiutando quindi il lettore ad orientarsi.
Stiamo comunque parlando di Calasso, uomo colto e di rara sapienza, con l'invidiabile capacità di saper spaziare ovunque, senza strafare o senza forzare la mano; ma in questo caso mi sono spesso perso nello sforzarmi di ricordare la bibliografia di Kafka, che onestamente avevo affrontato solo in età scolastica e quasi svogliatamente.
Persiste, comunque, questa sensazione che Kasch sia una sorta di tesi - e che i testi successivi siano uno sviluppo analitico e circostanziato di ogni aspetto di questo punto di partenza. 
Cadmo e Armonia racconta come e quanto sia importante la comprensione del senso della perdita del mito; Ka ammonisce sulla perdita dell'idea del nulla come senso della creazione e del sacrificio.
Il senso di fondo di K. sono il peccato e la punizione, visti dal praghese come soluzione preventiva e interconnessa, anziché come premessa a un processo vero e proprio, con diritti equamente suddivisi tra accusatore e accusato.
Io non credo che chi scrive questo tipo di saggi debba essere al servizio di tutti; per cui - e alla fine - il limite della comprensione sta tutta in chi legge. Insomma, scegliere di leggere volumi simili implica una necessaria conoscenza di base che io non ho.
Però, nonostante questo mio limite, confesso che mi sarebbe piaciuto godermi tanta sapienza inseguendo il doppio passo dei testi precedenti. 
Una cosa è certa: mi è venuta voglia di rileggere Kafka.

25 settembre 2020

KA di Roberto Calasso (Adelphi)

Terzo dell'opera di (per ora) undici volumi di Roberto Calasso, questo Ka conferma la mia deduzione di partenza: La rovina di Kasch era una sorta di "piano dell'opera", di prolusione su temi eterogenei che portavano a una serie di tesi sviluppate nello stesso testo; i volumi successivi, rappresentano l'analisi e lo sviluppo di ognuno degli elementi probanti.
L'argomento è affascinante: il racconto della mitologia indiana senza scadere nell'agiografia e nell'ideologia, ma soprattutto senza indicarne ragioni o torti, o comunque pregi. Il che rende la lettura molto più avvincente e in qualche modo anche "divertente". Più che un viaggio dell'anima, è una prova intellettuale, proprio perché abbiamo di fronte una cultura e un linguaggio lontanissimi dal nostro modo di concepire i rapporti di forza dei miti. Tanto che, quando nelle ultime pagine mi sono imbattuto in Buddha (il "risveglio", che invece "i pavidi traducono in illuminazione"), mi sono chiesto come diamine sia venuto fuori quel para-movimento pseudo-religioso praticato da noi occidentali (con tutte quelle contaminazioni cristiane che i buddhisti fanno finta di non avere nel proprio tessuto di credenti).
"Ciò che avvenne prima della nascita degli dèi fu tutto una guerra della mente, qualcosa che, anche se già molti erano i nomi, avveniva sempre e soltanto fra due attori: la mente e il suo esterno". L'idea di principio, insomma, si perde totalmente (così come quello di ciclicità coerente, tipica della cultura scientista; ma non è il caso di approfondirla, perlomeno in questo post). Del resto, il brahman non ragiona per alto e basso: "il brahman si incontra a tutte le altezze".
"Il mondo è come un manto che va indossato, altrimenti si impolvera". E prima di questo cosa c'era? "Circolava un'immagine prima che l'oggetto esistesse. Un soffio prima che ci fosse una carne da animare. Un desiderio prima che ci fosse un corpo". È come se Calasso ci dicesse che prima è nata l'esigenza, poi l'oggetto che le dava un senso. 
E fuori, cosa c'è fuori? "Il firmamento è una tenda che copre il mondo. Noi vediamo l'interno della tenda. Ma cosa vedremmo se fossimo stesi sul suo rovescio? Vedremmo lo spazio di luce che non ha mai fine".
Ma è in questo passaggio che credo di aver trovato la tesi che caratterizza questa mitologia: "Morte e duplicazione procedono insieme. L'una non appare senza l'altra. La scienza del riflesso e della scissione, lo sprigionarsi dei doppi, la sostituzione sistematica, gli sguardi simultanei verso di sé e verso l'esterno: sono opere della duplicazione. Ma la duplicazione è accompagnata da Morte. E soltanto la conoscenza può sconfiggere Morte. Questo è il cerchio".
E quindi arriviamo al nodo del saggio: "La conoscenza non è una risposta ma un'interrogazione che sfida: Ka? Chi? La conoscenza è l'ultimo sotterfugio che permette di non essere uccisi, che permette di ottenere una dilazione - provvisoria - perché la propria testa non venga tagliata". Del resto, ogni forma di comunicazione si basa sul parlato. E lo strumento del parlato è la Parola: "Seguiremo la Parola per poterla abbandonare".
Insomma, una lettura intrigante e di gran valore.