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06 aprile 2024

C'È ANCORA DOMANI?

C’è ancora domani è un film naif. In un contesto “normale” avrebbe ottenuto un successo standard e una moderata attenzione da parte dei media: in questo momento complicato per l’Italia, invece, è diventato il simbolo di una riscossa autoriale e sociale che, spiace dirlo, è esagerato.

Il punto debole più evidente è la sceneggiatura: una sequenza di quadri narrativi collegati senza criterio, con rari momenti surreali, altri didascalici, altri montati in maniera illogica.

Quelli surreali potevano funzionare e diventare una chiave narrativa, ma perdono di forza sia per la modestia attoriale sia per un’evidente disomogeneità con la sintassi filmica nel suo insieme. Peccato, perché la “danza della violenza” è un’idea meravigliosa.

I momenti didascalici (sicuramente necessari) cercano di aggrapparsi al neorealismo italiano migliore, ma sono fiacchi perché mal recitati (la costante di questo film: attori poco convinti).

L’idea di alternare i formati della pellicola, poi, avrebbe un suo senso se collegabile a dei leit-motiv; ma se alcuni momenti in 4/3 puntano all’oblio dei bei ricordi che furono, quello con lo schiaffone li contraddice. Schiaffone che peraltro apre il film, e che posto così non significa nulla.

Tra i momenti non-surreali, quello che proprio fa esclamare “embè!” è l’esplosione del bar (andateci nella vita reale, perché fanno gelati strepitosi!): improbabile, insensata, proposta con una sintassi ordinaria anziché surreale. Considerato la trama, andava sceneggiata in ben altra maniera. Così com’è, invece, sembra un rimedio frettoloso.

La fotografia in b/n, poi, segue almeno tre linguaggi: a volte è evocativa, a volte è narrativa, a volte è onirica; ma senza ratio. Anche qui, colpa della sceneggiatura.

Sceneggiatura che si dimostra debole anche nel montaggio, visto che ogni transizione viene rappresentata meccanicamente, senza sorprendere, senza accompagnare, senza incrociare i quadri (se non con dei totali ingenui).

L’unica idea vincente è il parallelo finale: tutti pensiamo a una fuga programmata con Marchioni, mentre invece Cortellesi vuole andare “solo” a votare.

La musica, invece, è convincente: Marchitelli propone autori e canzoni modernissimi, apparentemente stridenti con il contesto storico; ma, proprio per questo, funzionano benissimo.

Insopportabile, invece, l’epiogo, quando la canzone di Silvestri entra nella trama, sminuendo la necessaria e sacrosanta retorica del momento: è uno stratagemma alla Moretti che non ho mai amato.

A mio avviso, a questo film è mancato un produttore, uno che sapesse dire i giusti “no”, valorizzando con forza, invece, le parti nobili di un prodotto che alla fine appare confuso e poco al di sopra della sufficienza. Purtroppo, in Italia quella del produttore capace è un figura che manca da molto tempo, così come mancano autori e registi veramente bravi e coraggiosi.

Per essere un’opera prima, brava la Cortellesi, perlomeno per il tentativo. Ma non parliamo di miracolo né di capolavoro, per favore. Oltretutto, l’accusa di aver semplificato un tema forte e radicato quale la violenza maschile (non solo fisica) diventa più consistente proprio perché il linguaggio filmico nel suo complesso non funziona: è ingenuo, didascalico e friabile.

A latere, con quasi 5 milioni e mezzo di biglietti staccati, viene da chiedersi: ma dov’è ‘sta gente? Chi vota? Voglio dire che con questa desertificazione dell’etica, della morale, meraviglia una fame civica così apparentemente diffusa.

Post scriptum La premier non ha partecipato alla proiezione in Senato: eppure, i diritti di cui parla il film sono anche i suoi e dei componenti il suo partito, e sono frutto del sangue versato dalle donne e dagli uomini di PCI, DC, PRI, PLI, PSI… antifascisti, ricordiamolo

03 dicembre 2021

STRAPPARE LUNGO I BORDI che deve piacere per forza

Serie d'animazione a tecnica mista, in sei puntate da 14/20 minuti l'una, basata sui personaggi di Zerocalcare (al secolo Michele Rech).
Il protagonista viaggia dentro se stesso e le sue contraddizioni, con una trama godibile e spumeggiante, raramente noiosetta, per concludersi nell'imbuto di un lutto prematuro e doloroso
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Ecco, fossi un critico di altri tempi, l'avrei riassunta così, perché è così che andrebbe raccontata. Sicuramente, la forma che ho scelto è desueta e antipatica, ma non lo è la sostanza.
Oltretutto, si è troppamente celebrata questa opera prima - con termini esagerati se non addirittura inappropriati, delegando all'autore meriti pedagogici, sociali e generazionali, che - ammettiamolo - lui ha fatto ben poco per schivarli. E un po' mi ha meravigliato, perché lo facevo almeno coerente, forse anche un po' maturo.
Certo è che troppa diffusa approvazione, spesso fotocopiata e sovrapponibile, ha sovraccaricato sia la reale qualità artistica che l'effettiva visione del prodotto. Insomma, siamo di fronte al solito ricatto sociale per cui una cosa ti deve piacere e basta.
Io sono partito svantaggiato, non solo perché non sopporto questo approccio stereotipato, ma perché non ho mai amato lo stile ostile di Zerocalcare. Per quanto non creda che esista un modo di fare fumetti, il suo è uno stile rancoroso, aggressivo e dai tratti scuri e oscuri, tanto che non sono mai riuscito a terminare i suoi albi, abbandonando dopo poco tempo l'acquisto delle sue nuove uscite.
Ammetto, però, che in questo caso "animato" l'ho trovato ammorbidito, forse perché supportato da un'eccellente grammatica cinematografica, forse perché le musiche e il montaggio hanno attenuato la altrimenti stucchevole pesantezza stilistica di Zerocalcare.
Se provassimo a seguire la trama con un po' di distacco, senza la pistola buonista che ti suggerisce come pensarla, l'elenco delle contraddizioni generazionali rappresentate è decisamente ingenuo e prevedibile: sfiducia, insicurezza, immaturità, ipocondria, misantropia, timidezza, presunzione, supponenza, attendismo.
Per carità, sono ben calibrate e credibili; oltretutto, funzionano anche come "vestito" dei vari personaggi. Ma tutta 'sta sfiga dopo un po' annoia. Alla fine diventa divertente vedere come verrà rappresentata piuttosto che apprezzare l'indubbio coraggio di ammetterla.
Veniamo al romanesco. Come romano - ma anche come amante del buon parlare, tutte quelle consonanti così pesanti e ammiccate sembrano una caricatura, e di quella antiromana. Voglio dire che Mastandrea (bravissimo!) parla romanesco, ma ha una fluidità stilistica e romantica che restituisce la bellezza di un dialetto oggettivamente fatto comunque di salumi e protervia. La romanità è anche salumi e protervia, ma Rech la forza, quasi fosse una sfida.
Onestamente, mi sfugge perché Zerocalcare sia sempre più amato - e quindi mi sfugge anche perché un'opera del genere stia trovando così tanta approvazione.
Spero solo che da parte della mia generazione, e di quelle intorno alla mia, sia solo una prova di temporanea nostalgia e niente più.
Le giovani generazioni, invece, non le conosco, e quindi non so come potrei capire i loro gusti. Certo è che da 55enne mi viene da augurarmi che escano in fretta da questi panni di autocompiaciuta viltà.