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08 maggio 2025

il sacrificio secondo QUIET PLACE

 

A Quiet Place è un franchise solo cinematografico che resiste alle insidie dell’ovvio, con tre film di qualità intorno all’invasione di alieni brutti e feroci e invincibili (sono allergici solo all’acqua), capaci di percepire ogni possibile suono/rumore e di fare a pezzi chi lo fa: il primo (il più bello) ha una tensione e un tessuto narrativo molto potenti, con recitazioni e regia di livello; il secondo è un sequel più d’avventura, che per fortuna non ricalca gli schemi del primo.

Il terzo è un prequel, lo dichiara anche il titolo: Quiet Place - Giorno Uno (anche in inglese). I protagonisti sono solo due: una lei, malata terminale di cancro, interpretata da un’ottima attrice che sa alternare film profondi con altri di evasione; un lui, educatissimo studente di legge, interpretato dal ragazzo che veste le panni dell’outsider in Stranger Things (lo ricordate perché si riscatta morendo per la causa).

Subito dopo che gli alieni cattivissimi hanno spappolato Manhattan e sbudellato migliaia di umani (dalle urla che fanno, non dev’essere una morte piacevole), i due ormai fuggitivi si incontrano per caso, complice un dolcissimo gatto randagio.

Con poche e azzeccate pennellate di sceneggiatura, tra i due nasce una casta amicizia, forse romantica, forse occasionale, che commuove e rende partecipe il pubblico, anche le mogli che avete forzato a vedere il film.

Dopo una serie di peripezie, i due intravedono i barconi che stanno portando in salvo gli umani superstiti. Ma la distanza fino al porto è minata dalla presenza degli alieni. E qui accade qualcosa che spariglia le carte: lei si sposta lontano da lui, e per farsi notare percuote alcune automobili facendo scattare gli allarmi. Gli alieni si buttano a capofitto verso la fonte di quei suoni, lasciando libero il passo verso la salvezza. Lui è titubante perché ha capito che lei morirà sicuramente; poi, per non rendere vano quel sacrificio, corre come un forsennato e si butta in acqua, nuotando disperatamente verso le barche dei marines… col gatto in braccio, tranquilli.

Perché lei si è sacrificata? Il cancro le ha lasciato pochi mesi di vita, lo sappiamo: visto che comunque sarebbe morta, ha preferito farsi sbudellare per salvare una persona, un perfetto sconosciuto. In condizioni analoghe, lo avrei fatto? Lo avreste fatto?

28 settembre 2024

la terribile domanda di 28 SETTIMANE DOPO

In questi giorni, è ritornato in auge il raffinato franchising nato con 28 giorni dopo (2002), perché l’imminente e attesissimo terzo film è stato girato esclusivamente con una serie di iPhone 15 Pro Max adattati per l'occasione.

Ne approfitto allora per raccontarvi una scena del sequel, perché pone un interrogativo potente.

28 settimane dopo (2007) inizia con tre famiglie rinchiuse in un cottage tipicamente inglese, con le finestre sbarrate e oscurate, e la paura asfissiante di fare una brutta fine. Là fuori, infatti, c’è la rabbia: basta un minimo rumore per attirare le persone infette, violentissime, affamate, feroci e crudeli.

Il tempo di accogliere un bimbo fuggito da chissà dove, che uno dei mostri sfonda la porta d’ingresso, portando con sé altri mostri. Subito le famiglie si sparpagliano in disordine, annientate dal panico, ma senza speranza: ognuno viene sopraffatto con una rapidità - e un’estetica filmica - che lascia lo spettatore senza fiato.

Resistono solo una coppia e il bimbo. Il marito fugge nel fienile, passa in un bagno e finisce in una stanza da letto; la moglie e il trovatello, invece, sono riusciti ad arrivare in quella stessa stanza da letto, ma dall’entrata principale. Tra l’uomo e la donna si intromette un infetto, seguito da molti altri. L’uomo potrebbe provare a salvare almeno la donna, ma sicuramente morirebbe… e allora scappa, abbandonando l’amata moglie e il piccolo al loro destino: una scena terribile che fa veramente male, in cui Robert Carlyle dimostra eccellenti qualità recitative, rendendo palpabile la battaglia interiore tra la viltà dimostrata e lo spirito di sopravvivenza.

Per quanto sia una scena breve, utile per introdurre un elemento fondamentale per il prosieguo della trama, io l’ho vissuta e la vivo da una prospettiva realistica, ponendomi sempre la stessa domanda: io, cosa avrei fatto?

06 luglio 2024

DONALD SUTHERLAND, tre ricordi

In Italia, di alcuni scrittori americani non conosciamo i libri, ma le trasposizioni cinematografiche: uno di questi è Jack Finney; leggendo la sua scheda su Wikipedia, vi farete un’idea.

Una delle sue opere più riuscite è Gli invasati (1955), la cui prima trasposizione cinematografica, L’invasione degli ultracorpi (1956), fu affettuosamente descritta da noi italiani come “il film coi baccelloni”. La regia è di Don Siegel, regista controcorrente noto soprattutto per i suoi duri film con Clint Eastwood.

La trama ricalca quella del libro (tranne che per il finale): per invadere la Terra, gli alieni mantengono un basso profilo, iniziando da un’isolata tipica cittadina della provincia americana. E lo fanno tramite questi ciccionissimi baccelloni, che contengono in nuce un abbozzo di copia del nostro corpo: come ti addormenti, ZAC!, vieni sostituito da una copia identica a te, ma priva di sentimenti e di empatia. La parte dolente è che chi è stato sostituito farà di tutto per farvi sostituire, approfittando della nostra fisiologica necessità di dover dormire; oltretutto, non è facile reagire violentemente contro chi somiglia perfettamente a un nostro caro. Chiara denuncia contro il maccartismo, vede un finalone buonista, poco amato dallo stesso regista.

La terza traduzione cinematografica (1993) è di Abel Ferrara, dimenticabile quanto noiosetta. La quarta, invece (2007) vede tra i protagonisti la plastica amimica di Nicole Kidman e un distratto Daniel Craig, appena rinfrancato dal suo primo 007; ed è poco sopra l’asticella del trascurabile.

Non mi sono dimenticato della seconda trasposizione (1978, remake dichiarato del primo film): Terrore dallo Spazio profondo, un gioiello. A mio avviso, mantiene la tensione dell’originale, con la sapiente aggiunta di una certa alienazione tipica dei film anni ‘70, che rende la visione angosciante dall’inizio alla fine. Al contrario del libro (dove i baccelloni scappano via, verso lo Spazio) e degli altri film (dove comunque l’Umanità se la cava), qui il finale fa male, malissimo. Ed è perfettamente rappresentato da Donald Sutherland, recentemente scomparso: anche senza conoscere la trama nel dettaglio, guardate questo frammento.

E visto che ci piacciono i gradi di separazione (la cui traduzione cinematografica vede come protagonista sempre Sutherland)…
- lo scrittore Robert Heinlein aveva scritto qualcosa di simile agli Ultracorpi qualche anno prima: Terrore dalla Sesta Luna (1951). Ora, è vero che il timore che qualcuno controlli le nostre menti e le renda remissive è frequente nella narrazione moderna, ma è curiosa la quasi contemporaneità dei due testi, come anche la “novità aliena”
- la coincidenza incredibile è che Sutherland reciterà anche nella traduzione cinematografica del libro di Heinlein (1994)
- a questo, aggiungiamo che proprio il testo di Heinlein ispirerà il 29esimo episodio della prima stagione di Star Trek TOS (1967), in cui recita anche Leonard “Spock” Nimoy. Indovinate? Nimoy apparirà accanto a Sutherland in Terrore dallo Spazio profondo
- il protagonista del romanzo di Heinlein beve solo Martini “agitato, non mescolato”… chi vi ricorda? Già, Ian Fleming: ne farà tesoro, infatti, quando dovrà caratterizzare il suo James Bond (1953)

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Quando uscì sulla mia rassegna settimanale l’aneddoto che chiude questo post, mia moglie mi propose di andare a visitare Bomarzo. 

Durante il tragitto, dal suo Spotify uscì una canzone che gli appassionati della serie Stranger Things (2016) conoscono molto bene: “Running Up That Hill” (1985), dolce capolavoro di Kate Bush.

Se la serie ha consentito alla mia generazione di incontrare quelle attuali, quelle attuali hanno potuto conoscere una delle voci più incantevoli della nostra adolescenza, scoperta e aiutata insospettabilmente da David Gilmour, chitarra e voce dei Pink Floyd.

Di Kate Bush ricordiamo tanti piccoli gioielli, non ultimo “Cloudbusting” (uscito sempre nel 1985), il racconto commosso ed empatico di un inventore incompreso che avrebbe escogitato un marchingegno per far piovere là dov’è necessario, ma cui nessuno dà credito se non il giovanissimo figlio. 

E chi è il protagonista del video ufficiale? Sempre lui, Donald Sutherland, all’inizio riluttante, ma poi partecipe ed entusiasta

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E veniamo a Bomarzo.

Un'altra curiosità che mi è venuta in mente pensando a Donald Sutherland, riguarda anche un luogo magico dell’infanzia, almeno per i romani della mia generazione.

La prendo alla lontana. Se vi chiedessi chi sono Anthony M. Dawson, Bob Robertson, Hank Milestone, George Eastman e Joe D'Amato, forse impieghereste qualche minuto per darmi una risposta. Ma se vi dicessi che sono i nomi d’arte di Antonio Margheriti, Sergio Leone, Umberto Lenzi, Luigi Montefiori e Aristide Massaccesi?

Era una prassi quasi scontata che registi italiani alle prime armi - o di film di basso costo - firmassero le proprie regie con nomi stranieri, per dare quel non so che alle loro opere. Eravamo ai confini dell’impero: per quanto il nostro cinema fosse migliore di quello USA (fino agli anni ‘80; poi, da “Nuovo Cinema Paradiso” è iniziato il declino), si sentiva il bisogno di darsi un tono.

Raramente, è capitato il contrario: con l’americano Warren Kiefer, per esempio, che usò il nome Lorenzo Sabatini per le sue regie in Italia. Il film per cui lo conoscete inconsapevolmente è “Il castello dei vivi morti” (1964), perché girato in b/n soprattutto tra i mostri di Bomarzo. È un inquietante gotico all’italiana, sicuramente datato, che vede al suo esordio proprio il nostro Donald Sutherland, addirittura interpretando tre personaggi diversi (tra cui una vecchina cattivella).

Da lì, l’attore canadese prese il volo, diventando l’eccellente e poliedrico interprete di numerosi classici. Ma non dimenticherà quel suo esordio, tanto da chiamare uno dei suoi figli con il cognome del regista, Kiefer: Kiefer Sutherland

06 febbraio 2024

IL MONDO DIETRO TE

La trama de Il mondo dietro di te è ansiosa e ansiogena, anche se non ha guizzi o cali. Poi, dopo un’ora e poco più, sembra arenarsi in attesa del non-finale.

Una coppia con due figli passerà un weekend fuori New York, affittando una villetta d’élite poco lontano dalla Grande Mela. Proprio mentre salta la connessione internet, apparentemente per banali motivi tecnici, si presentano alla porta il presunto proprietario dello stabile e la figlia adolescente. Mentre la realtà intorno alla villetta comincia a perdere pezzi, il rapporto tra le due famiglie subisce continui strappi e connessioni, arrivando a un finale in levare che volutamente non risolve il dramma tecnologico (e militare) che si sta prospettando all’orizzonte.

A differenza di altri film sul tema, la regia e la direzione della fotografia puntano moltissimo sulla forma, tanto che in alcuni momenti è così bello il come viene raccontata la trama, da farci perdere di vista il cosa. Non è una colpa, per carità; però il film dura troppo e tanta bellezza formale sembra più un riempitivo che una cifra stilistica.

La scena da salvare è quella con le Tesla (non aggiungo altro), mentre qualche taglio qua e là avrebbe limitato al minimo il sospetto di approccio semplicistico a temi invece allarmanti che ci riguardano tutti e molto da vicino.

Se sulle scene con i cervi stenderei un velo pietoso, sulla scelta del regista di usare Friends come MacGuffin, Wired ha scritto questo (leggetelo dopo la visione)

14 dicembre 2023

THE CLONE WARS da vedere è

Il fanciullino che cerca di sopravvivere in me trova avvilente questo proliferare di serie tv intorno la saga di Star Wars.

Già il trittico prequel e quello sequel cinematografici sono stati fastidiosi da digerire, figuriamoci le trame e sottotrame televisive da inseguire per ritrovare sensazioni che in realtà dovrebbero restare nell’eterno passato.

Certo, Mandalorian è “carino”, Ahsoka regge bene, Andor è potenzialmente intrigante; ma l’insieme è diventato la sag(r)a della porchetta, ammettiamolo.

Un bel giorno, mentre registravo un mio intervento per Digital World, il tecnico del suono mi ha parlato molto bene della serie animata The Clone Wars: per chi conosce poco il franchising, è l’ideale prosecuzione delle vicende narrate nel cinematografico Guerra dei cloni.

A suo tempo, ne avevo già assaporato qualche frammento, ma avevo trovato i disegni fastidiosi. Però ho deciso di riprovarci: resta un prodotto difficile da accettare, ma ha dalla sua alcuni elementi narrativi che trovo stimolanti.

Anakin/Dart Fener acquista molte più sfumature, rendendo corposo e credibile il suo futuro passaggio al lato oscuro; i cloni sono “buoni”, eroici, coraggiosi, ti ci affezioni (del resto, benché identici, ognuno di loro ha una cifra nel vestiario che li rende individuabili); Kenobi, invece, diventa sapientino e antipatico, ben lontano dall’aura di Alec Guinness nel “nostro” Guerre Stellari.

Niente di eccezionale, per carità, ma guardandolo da questa angolatura, l’intera saga cinematografica vi si ripresenterà poi in una forma diversa.

Una curiosità che riguarda trasversalmente l’intero franchising: il personaggio del pilota “buono” Wedge Antilles è interpretato da Denis Lawson; nel mondo reale è lo zio di Ewan McGregor, che a sua volta interpreta Obi-Wan Kenobi da giovane; nel mondo reale è il marito di Mary Elizabeth Winstead, che a sua volta interpreta Hera Syndulla…

08 luglio 2022

James Caan, Jonathan

Le operazioni nostalgia costano troppo, perché spendi tempo a far finta che non lo siano, sprechi il tempo di chi non le sopporta. Fatto sta che la mia è una delle ultime generazioni che può ancora lavorare su un tipo di nostalgia materica, tattile, odorosa, pesante, pedante, rumorosa, faticosa.
Ogni nostro ricordo è fatto di movimenti del corpo, oppure di un corpo seduto da qualche parte che però per arrivare lì si è dovuto muovere. Ogni nostro ricordo è fatto di volti fisici con cui si condividevano le esperienze fisiche.
Che fosse giocare o litigare o andare al cinema o andare al mare/campagna/montagna o la scuola o il nuoto o le letture o i fumetti o qualsiasi altra cosa facciate voi oggi digitalmente, noi l'abbiamo fatta con il corpo.
Meglio o peggio di voi, non me ne frega nulla di sottolinearlo.
Ma io ricordo bene, benissimo, quando vidi per la prima volta James Caan. O meglio: quando ricordo di aver ricordato il suo nome, perché magari lo avevo già visto altrove ma non avevo capito che fosse lui.
Ed è la premessa che conta, perché le operazioni nostalgia hanno delle premesse. La mia sorella più vicina a me di età già andava la cinema da sola con le amichette. Quando tornava a casa, immancabilmente mi raccontava la trama dei film che aveva visto. Tutti! Del resto, era così brava a farlo che io Psyco di Hitchcock l'ho visualizzato nella mente prima ancora di vederlo in sala; e mia sorella era stata così brava nei dettagli che mi spaventai due volte, al suo racconto e alla visione del film.
Insomma, un bel giorno mi racconta Rollerball, uno Squid Game prima di Squid Game, sicuramente più intriso di ideologia e con una regia più sapiente e un montaggio leggermente statico. Tale, però, era l'emozione che aveva provato mia sorella nel vederlo, che una volta tanto non me lo raccontò in maniera dettagliata ma in maniera "emozionale" (come direste oggi voi strategist di neanche 25 anni). Mia sorella mi aveva raccontato il pathos e non la trama.
Andai di nascosto da mia madre a vederlo al Labirinto, una sala indipendente che tanto ha fatto per la mia formazione cinematografica. E lì, proprio lì, incontrai James Caan... in un film distopico, violento, moralista, doloroso, ma anche propedeutico, perché il personaggio interpretato da Caan resta coerente a se stesso e va contro le convenienze e le falsità dei suoi capi, rimettendoci - forse - la vita.
La scena finale è epica, straordinaria, intensa, con un sottofondo di voci che inneggia al suo nome: Jo-na-than! Jo-na-than! Così epica che mi alzai in piedi anch'io urlando il suo nome. Per fortuna, c'erano poche persone in sala... tutte addormentate.
Quando vidi uccidere James Caan in uno dei vari Padrino, ci restai male, malissimo, perché stavano uccidendo Jo-na-than! Jo-na-than!
Ora che James Caan è morto sul serio, quasi mi vergogno a rivedere quel film. Forse lo farò, forse lascerò perdere.
Ma quel Jo-na-than! Jo-na-than! resterà sempre a mezz'aria nella stanza del mio cuore.

05 gennaio 2022

DON'T LOOK UP, ma neanche di sfuggita

Una stagista con la frangetta-ammazzabellezza scopre per puro caso che un enormissimo asteroide polverizzerà la Terra tra sei mesi e qualche giorno.
Il suo capo, goffo e sudaticcio come pochi, prova quindi a segnalare l’allarme a una plasticosa presidentessa statunitense, più trumpiana di Trump. La tipa, però, prima non capisce la portata del dramma, poi prova a scagliare ennemissili distruttivi contro il supersasso, poi ci ripensa seguendo consigli vanesi e speculativi di un suo scemissimo grande elettore che sembra un incrocio tra Bezos, Jobs e un calzolaio di Velletri.
Intanto, i due scienziati dimostrano un balordo approccio con media e social, generando equivoci e casini abbastanza scialbi.
Alla fine, il tipo ricco e scemo fallisce nella sua missione e la Terra si becca il previsto ceffone pietroso. Muoiono tutti, tranne quelli scappati nella scialuppona del “velletrano”, che, dopo ennemigliaia di anni, atterrano su un pianeta rigoglioso ma poi non tanto accogliente.

Confesso di averlo prima abbandonato dopo mezz’ora, e poi di averlo visto integralmente a velocità doppia: comunque, una noia infinita. Sceneggiatura stropicciata e piena di buchi come crateri. Tempi narrativi incoerenti. Dialoghi presi dal cestino del Mel Brooks peggiore. Montaggio da prima elementare, con alcune imperdonabili “capocciate” che neanche un b-movie di Corman avrebbe consentito. Regia inesistente. Direzione della fotografia di prassi. Attori da nomi fumanti ma fumosi e senza perno: la Lawrence si annoia tantissimo, Di Caprio propone gli scarti degli scarti dei suoi scarti, la Streep non vede l’ora di andare a casa e la Blanchette sembra sempre più una copia sbiadita dello pneumatico di una jeep.
Ma il vero problema di questa operazione senza senso è il successo di pubblico che ho percepito in giro. I gusti sono gusti, per carità: sono io il primo a dirlo e a difendere questo diritto con il mio stesso sangue. Ma questo film è brutto pesante!
Potrà pure essere “di denuncia” quanto vi pare, ma è il come che andrebbe valutato: non è che se fai polemica contro la crisi ambientale, sei automaticamente un fico! Altrimenti, giriamo venti minuti di puzzette della mia gatta costretta a mangiare cibo di dubbia provenienza, e facciamo prima.
Certo, se poi questa sarà la sintassi con cui vogliamo coprire i prossimi anni di contenuti polemici contro il sistema, contro i media, contro l’inquinamento, alla fine l’asteroide arriverà sul serio e neanche ce ne accorgeremo, visto che saremo troppo concentrati a dirci “bravi” per aver girato ca@ate come questa.
E poi, perdere tempo e danaro ed entusiasmo dietro questo tipo di lavori così sbracosi, fa male alla “causa” e alla sua credibilità.
E non mi parlate di linguaggio “da capire” e di nonsense brillante e geniale, perché questa modalità aveva forza e credibilità tra gli anni 60 e 70: adesso suona stonata e ridicola, oltreché esaurita e senza più una visione originale che sia una.
Aridatemi 2022:i sopravvissuti, che almeno aveva i piedi per terra e una visione distopica credibile e ben raccontata.

17 dicembre 2021

UNDERWATER, il film

Una multinazionale ricchissima sta trivellando nientepopodimenoché il fondale della Fossa delle Marianne, ma qualcosa va storto, si rompe tutto e muore quasi tutto l'equipaggio
.

La trama di questo film è Alien incontra Cloverfield, con un pizzico di altre citazioni che è facile recuperare dal taccuino della propria memoria cinematografica. 
Lei è biondarasa Kristen Stewart, costantemente con le labbra socchiuse da un evidente problema alle adenoidi; ma fa bene la sua parte. 
Gli altri sono attori che incitano a raffica il canonico mulierico "dove l'ho visto?", con qualche punta di meraviglia e molte espressioni accondiscendenti.
La trama è meravigliosa fino al 35esimo minuto: ricchissima tensione, tempi meravigliosamente precisi, attori tutti nella parte, regia-montaggio-fotografia serrati e convincenti.
Poi, ci dev'essere stato uno sciopero generale e tutto è andato a fondo, letteralmente (considerata la location).
Si parte dalla scena in cui SPOILER uno dei protagonisti porta nella base subsubsubacquea un piccolo mostro marino... e non succede nulla. Credo che lo sappiano persino i NoVax che a quelle profondità qualsiasi essere vivente esploderebbe se entrasse nella nostra atmosfera. Eppure, non accade nulla di nulla.
E questa è la parte più facile da dettagliare. Tutto il resto è una trama confusa, impossibili impossibilità scientifiche, una fotografia da iPhone in mano a un babbuino, una regia da "Chiquito e Paquito" e un montaggio di quelli da telegiornale di ReteA dei tempi d'oro.
La domanda che vi state ponendo è: ma perché lo segnali se fa così pena?
Perché fino a quel fatidico 35esimo minuto vale proprio la pena.

10 dicembre 2021

WAR OF THE WORLDS (2021), la seconda stagione

ATTENZIONE AGLI SPOILER
A dispetto della prima, che elogiavo senza freni, qui siamo di fronte a una mediocre seconda stagione. Lo stile sospeso e la tensione emotiva che tanto avevano reso prezioso l'inizio di questa avventura, qui diventano di mestiere e quasi un mascheramento di una storia tirata per le lunghe, con dinamiche interpersonali stucchevoli e una trama che arranca verso un finale comunque nobile.
Ammetto che già il colpo di scena del finale di prima stagione mi aveva un po' disorientato, visto che fa "vedere" gli alieni in maniera quasi banale; il rischio di cadere nel macchiettistico c'era. Ma il "come" mi ha addirittura sorpreso, perché è stato immediato e repentino: la magia sinuosa e pervasiva degli inizi si è subito persa per strada con frettolosa facilità. E non è solo un problema di sceneggiatura: regia, montaggio e recitazioni si sono subito adeguati a questo stiracchiamento generale.
A latere, colpisce come la legge non scritta dei paradossi temporali sia stata disattesa con smaccata evidenza.
Seguitemi.
Gli alieni sono come noi; anzi, sono noi del futuro che tornano nel passato; anzi, sono i pronipoti dei due ragazzi (lei inespressiva come un palo della luce, lui antipatico come un provinciale col borsello e la tuta acetata). 
Bene: se il megascienziato torna indietro nel tempo solo grazie alla tecnologia aliena che aliena non è, come può farlo se poi nel passato ucciderà proprio la ragazza da cui nascerà l'invasione aliena che aliena non è?
Nella sceneggiatura c'è un buco grosso così, insomma, che poteva essere risolto con qualche guizzo creativo. Ma che diventa una voragine se pensiamo che restano funzionanti la corrente elettrica e internet, in un contesto in cui gli alieni-non-alieni ci hanno sterminati proprio con una ennepotentissima radiazione elettromagnetica.
Per carità, è un difetto ormai ricorrente: per esempio, nella tri-saga di Walking Dead le benzina verde mantiene le sue proprietà anche dopo anni, i walkie-talkie funzionano sempre (ma come fate a ricaricarli, benedetti figlioli?), le auto - pulitissime! - si accendono al primo colpo, anche dopo lustri di immobilità. 
Il finalone comunque si salva, perché "redime" e "punisce" il megascienziato: da una parte, può chiedere finalmente scusa per i suoi errori di marito/padre alla moglie e al figlio; dall'altra, però, viene arrestato per l'omicidio della ragazza. E quindi, in questo bailamme di trame smozzicate, abbiamo salvato almeno l'etica.
Ah, dimenticavo: stanno girando la terza stagione...

13 ottobre 2021

WAR OF THE WORLDS (2019)

C'è qualcosa di speciale in questa serie televisiva anglofrancese, qualcosa che forse riguarda più l'infanzia di noi boomer che quella dei ragazzi di oggi. Per carità, non è una frasetta antigenerazionale: è che nelle serie attuali manca totalmente l'understatement, il non detto, l'allusione; mentre, invece, in questo piccolo gioiello sono proprio queste chiavi che ne fanno assaporare la trama, l'andamento quasi ipnotico, la quasi lentezza (che la fa sembrare in "tempo reale").
Sembra di stare dalle parti dei Sopravvissuti o dei tempi narrativi oziosi di UFO o dentro certi ambiti tipicamente ottocenteschi e british del romanzo originario. Se leggete il libro, provate a non sorridere quando una delle astronavi si schianta su un prato durante l'ora del tè: la flemmatica reazione del britannico testimone è tutta un programma.
È vero anche che il discettare sulle differenze tra libro e film tratto da questo libro sia un gioco inutile e quasi dannoso. Secondo me, il nesso tra libro e film dovrebbe essere più un restituirne un sapore che proporre una narrazione filologica, quasi esatta. La sintassi letteraria e quella filmica sono due universi totalmente diversi. Del resto, per fare un esempio estremo, il film Paziente inglese si ispirava vagamente a solo una ventina di pagine del corposo romanzo omonimo, che invece si soffermava su ben altro.
Insomma, questo War of the Worlds restituisce alcuni aspetti del mood di H. G. Wells, ma soprattutto ha il gran pregio di non far vedere nulla: gli alieni non ci sono, ma la paura e l'angoscia che generano sì. 
La Morte è costantemente presente, sorniona quanto asettica. La Natura non è neanche spettatrice: si fa i fatti suoi e nulla più (del resto, il bosco francese non fa paura).
L'unica aliena veramente presente e costante è la musica, anzi i suoni. Sembrano lavori tipo Tangerine Dream o Popol Vuh. Suoni eccellenti e puntuali, che appena possono lasciano spazio al silenzio o ai rumori, senza generare suspense a buon mercato, ma mantenendo costante angoscia e partecipazione.
E i protagonisti si appigliano disperatamente al sopravvivere, senza perdersi, senza cedere alla rassegnazione della fine, con fragile dignità, credibile e tutt'altro che filmica.
C'è forse un reiterato indugiare sui drammi dei singoli - che di fatto sono un secondo livello narrativo. Ma è anche vero che se un disastro del genere dovesse accadere, sicuramente anche noi indugeremmo su tali comportamenti. 
Paradossale, poi, il fatto che l'unica a vedere qualcosa sia la londinese cieca. Ma qui mi fermo per evitare spoiler.
Non è un capolavoro assoluto, per carità, ma è una serie che merita di essere vista, almeno la prima stagione, possibilmente in originale. 

14 luglio 2021

LA GUERRA DI DOMANI, con tante patatine e birra

Durante la finale dei prossimi Mondiali del Qatar, dal Futuro si presentano alcuni soldatoni rigorosamente trentenni per dirci che proprio tra trent'anni l'Umanità verrà spazzata via da bestiacce immonde. 
E, quindi, tutti quelli dai quarant'anni in su devono partire per dare una mano, combattendo per soli sei giorni - sempre che sopravvivano - per poi tornare e farsi dare il cambio.
Chris Pratt, padre di una bimba dolcissima e marito di una moglie amimica, parte per una missione dove accadono un po' di cosette truculente ma divertenti... tanto è un film!

A dispetto dei criticoni nostrani, sempre con la schiena aggattata quando si parla di un filmone americanissimo, io mi sono divertito: in fondo, è una caotica abbuffata di luoghi comuni, ben congegnata almeno fino all'epilogo.
La regia è sempre puntuale; la fotografia ogni tanto si perde nel CGI, dimostrandosi sensata nell'unica scena quasi reale, quella lungo la tromba delle scale (ben fatta, almeno finché non si palesano i mostri); il montaggio è sapiente. 
L'unica cosa che non funziona è la sceneggiatura: nel sin troppo lungo e noioso epilogo sui ghiacci fa un errorissimo, ignorando il postulato di partenza. 
E qui, scusate, ci scappa lo spoiler
Seguitemi: abbiamo stabilito che un warmhole collega Presente e Futuro, e che può essere percorso in avanti solo dai quarantenni in su e indietro solo dai trentenni in giù, così non si creano paradossi; abbiamo stabilito che dal Futuro ci vengono a chiedere aiuto contro 'ste bestiacce puzzone; abbiamo stabilito che lui nel Futuro incontra la figlia cresciuta e laureata e tozzissima (se credete di averla già vista, era l'unica donna che Dexter non uccide e di cui si innamorerà) e che con lei trova il coso per annientare i malvagioni... 
E cosa mi fai? 
Mi fai che lui torna nel Presente con l'arma scoperta nel Futuro e va ad ammazzare le bestiacce prima che invadano la Terra?!?!
Scusate, ma si crea un paradosso temporale che l'accuratezza della finzione voleva chiaramente evitare. Paradosso peraltro improbabile perché poi ci si chiede: ma se tu dal Presente annienti chi farà casino nel Futuro, vuol dire che nel Futuro non accadrà nulla - e quindi subito dopo non puoi più sapere cosa dovevi fare per annientare la minaccia! Non solo: ma dal Futuro non potrà più venire nessuno a dirti di fare quello che hai appena fatto!
Considerato che nei piccoli spiegoni sparsi non si cita mai la possibilità di più futuri possibili, mi manca comunque un tassello! Insomma, o trovavano un modo per mantenere il circolo temporale oppure scrivevano un passaggio in cui fornivano un valido escamotage.
Signori, la forza della fantascienza è di inventare cose impossibili: ma queste cose impossibili hanno comunque delle regole da seguire! 
Citazioni colte al volo: quando lui si sta per tuffare per salvare la figlia grande, l'inquadrature totale ribadisce una delle locandine più riuscite di World War Z; alcune inquadrature dell'astronave nei ghiacci sono quasi identiche a quelle delle due Cose da un altro mondo (1951 e 1982); i mostriciattoli sono un incrocio tra Alien, Tremors, La guerra dei mondi e i Trifidi; a proposito, nell'epilogo qualcuno ipotizza che i mostri siano un'arma di distruzione di massa, esattamente come ipotizzato nel primo prequel di Alien, Prometheus; le celle in cui dormicchiano i mostri ricordano quelle di Matrix.
A latere, se i mostri non li facevano vedere, era meglio: il non-visto è un elemento più avvincente.
Ah, dimenticavo: ogni sei giorni, i mostri carnivorissimi si prendono una pausa di 24 ore, si chiama shabbath. Qualcuno della comunità ebraica se n'è accorto?

22 giugno 2021

CHAOS WALKING, la recensione

Gruppi di coloni umani vivono su un pianeta chiamato Nuovo Mondo (quando si dice l'originalità), contrastati blandamente dagli Spackle, alieni che alieni non sono, visto che stanno a casa loro - e gli intrusi saremmo noi, semmai.
C'è un piccolo problema non di poco conto, anzi due: per uno strampalato fenomeno, i pensieri dei maschietti sono visibili e ascoltabili da chiunque (lo chiamano il "rumore"); quelli delle donne, invece no; che, però, non ci sono perché uccise in massa dagli Spackle. 
Insomma, i coloni sono solo maschi.
Un bel giorno dallo Spazio arrivano altri coloni, preceduti da Viola, che anche per la sola presenza crea molto turbamento sia al protagonista che ai restanti maschi, soprattutto al capo di tutti, che, guarda caso, è l'unico capace di non far vedere i pensieri. E allora scopriremo che le cose non sono come sembrano.

Io partirei da un banale presupposto: su un tema così avvincente e profondo (il vedere i pensieri) non mi puoi fare un film quasi-western di avventure fintamente condite da una costante parapsicologica che non c'è.
Voglio dire che o la prendi alla lontana, come Il pianeta proibito e i suoi "mostri dell'id", oppure fai un bel film serissimo stracciapalle, di quelli che durano una vita e che piacciono ai saputelli al cashmere di casa nostra.
In un film di sola avventura, un fenomeno così complesso diventa sporadico, quasi ridicolo. Valga per tutti la ripetuta scenetta di lui che guardando lei pensa solo "quant'è carina", quando invece anche vostro figlio penserebbe cose leggermente più hard.
Ma non è solo questo: è che ovviamente durante tutta la visione questo "rumore" va e viene in maniera scostante per ovvi motivi di comprensione filmica, non restituendone il potenziale veramente disturbante e alienante.
Ma mettiamo caso il film comunque funzioni: be', funziona fino alla scena delle rapide; ma forse fino a poco prima, quando c'è la scazzottata con l'"alieno" (dove non si capisce neanche chi-abbia-picchiato-chi). Poi, secondo me, gli sceneggiatori si sono alzati per la pausa pranzo e hanno detto allo stagista di finire il compitino, tale è la pochezza narrativa degli ultimi dieci minuti.
Un film, insomma, che fa acqua da molte parti, e che per quanto sia anche godibile, quasi non vedi l'ora che finisca per poter poi indossare la mascherina e farti una passeggiata tra gli zombi del tuo condominio.
Tom Holland è bravino, ma ormai gioca troppo sullo schlemiel che invece apprezziamo nei terzi Spider-Man. Daisy Ridley conferma il vecchio adagio che a essere nodale in Star Wars ci rimetti comunque la carriera a venire. 
Va detto che la produzione è stata un disastro: troppe volte rimandata e troppe volte riveduta e corretta. Premesso ciò, la sceneggiatura latita, la regia un po' meno. Bella la fotografia, ridicoli gli effetti speciali, passabile la musica.
Un 5+ non glielo toglie nessuno. Se volete vederlo, solo in originale, con birra e olive ascolane.

18 giugno 2021

OXYGÈNE, il film

Una giovane donna si ritrova dentro una cella criogenica. Non ricorda chi è, né tantomeno perché e come sia finita là dentro; sa solo che l'ossigeno sta per esaurirsi. L'unico che la può aiutare è M.I.L.O., un'intelligenza artificiale di supporto. Una donna, una voce metallica, un mistero che si dipana coerentemente lungo tutta la trama del film.

Per essere girato da un geniaccio degli splatter di ultima generazione, è un film adulto e pulito, con una sceneggiatura di ferro ben strutturata, che fino alla fine regge il confronto con tutte le domande che lo spettatore più smaliziato si fa durante la visione. 
Non c'è espediente fantascientifico che non trovi una sua chiusura: ogni possibile variazione sul tema o incidente di percorso sono credibili e plausibili.
Pur restando sempre e solo l'unica protagonista inquadrata (a parte qualche rapido flashback, ovviamente), Mélanie Laurent sostiene egregiamente il suo ruolo senza mai strafare, senza gigionismi e senza nevrosi; come se tutto stia realmente accadendo e come se veramente fosse rinchiusa dentro uno spazio così angusto e claustrofobico.
Musica e montaggio reggono benissimo la lenta ascesa verso la verità, mantenendosi ben distanti da soluzioni di comodo o ripetizioni dissimulate. 
Ad essere pignoli, è leggermente lungo: parte come un episodio del primissimo Ai confini della realtà, sfiora leggermente - e temporaneamente - il virtuosismo fine a se stesso, ma poi prende il giusto binario del film cinematografico; ecco, questo leggero traballare iniziale si sconta a metà del film, quando ad un certo punto tutte le spiegazioni cominciano a dipanarsi.
Insomma, più che qualche taglio studiato, avrei cercato di rivedere l'inizio oppure di rivedere le pagine che portano al quasi-spiegone.
Un film da 7, che va visto rigorosamente in lingua originale (è francese, pazienza 😀).
Ah, dimenticavo: attenzione alla cicatrice... e non dico altro.

10 giugno 2021

AWAKE, una recensione (con spoiler)

Uno schiccherone micidiale del Sole fa saltare la corrente della Terra (tutta?) e sconvolge il cervello dei suoi abitanti, impedendogli di dormire. Solo pochissimi fortunati possono continuare a dormire, tra cui una bambina, la cui mamma farà di tutto per proteggerla. L'umanità soccomberà, tranne...?

Protagonisti: Mamma con passato oscuro, Figlio imbambolato, Figlia che può dormire, Assistente che butta giù lo Spiegone, Scienziata Incazzata, Carcerato Redento, Prete che la butta sull'etica religiosa.
Un film che parte bene, benissimo, ma che dal 18esimo minuto in poi la tira per le lunghe per oltre un'ora. Il bello è che il tutto dura 90', ma sembrano almeno il doppio.
Altro difetto, non di poco conto: generalmente, le storie di fantascienza hanno mille e uno sbraconi che però accetti perché comunque o la storia o l'insieme funzionano; qui è tutto così noioso che ti accorgi subito quanto le contraddizioni cozzino troppo tra di loro, generando solo domande e non il gusto per un'avventura che comunque poteva funzionare.
Procediamo con ordine: la Mamma è una guardia giurata che arrotonda svendendo medicinali scaduti. Che senso ha sfiorare questo reato, senza dare poi uno sviluppo a quei medicinali? 
Durante la notte, quando ancora non è accaduto nulla, il Figlio osserva il cielo e spiega alla Mamma che quella luce che vedono transitare tra le stelle è la Stazione Spaziale. Poi, è ovvio, resta il sospetto che sia invece il flare solare che causerà il drammone. Ma non ha senso, perché accade di notte - e comunque la luce solare impiega 9 minuti scarsi per arrivare sulla Terra, mentre invece l'incidentone accade ore dopo quell'avvistamento. Comunque, non c'è alcun sviluppo alla frase del ragazzo.
Durante lo Spiegone, ci viene detto che dalla privazione del sonno si sopravvive per un massimo di quattro giorni; alla fine del film, scopriamo che sono passati almeno sette giorni. Come la mettiamo? Attenzione: è vero che ai militari sono stati iniettati degli eccitanti, ma alla Mamma, al figlio e al carcerato, no. E quindi? 
Durante l'intera anabasi dalla città al laboratorio (salvifico ma anche cattivone), i tre protagonisti incontrano: un gruppo di persone nude intento ad osservare/venerare il Sole (ma non porterà nessuno sviluppo o variazione); due criminali che riescono ad avviare un'auto (per quanto ne sappia io, dopo un EMP di tale portata, l'induzione elettrica è impossibile anche a distanza di tempo, ancorché stimolata con espedienti meccanici di fortuna); un gruppo di carcerati che potrebbe fare un casino incredibile e invece si dissolve nel nulla, visto che servono solo a introdurre il Carcerato Redento; una barriera notturna, presidiata da sadici incazzosi, che viene superata dopo qualche schiaffone alla volemosebene, ma nulla di più.
Gran finale delle contraddizioni. Al 18esimo minuto, la Scienziata Incazzata aveva detto che è stato il Sole a causare i due drammoni - elettricità che salta e privazione del sonno; quindi, un fenomeno elettromagnetico. Bene, nel prefinale, la bambina spiega che il fratello è tornato in vita - e può di nuovo dormire - grazie alla scarica elettromagnetica del rianimatore. Domanda: ci vuole una scienza per capire che bastava schiccherare un po' di persone per restituire loro il sonno? Voglio dire che il film semina questo tipo di indizi e poi non li usa!
Ripeto: questi buconi potrebbero essere ignorati se in cambio funzionassero la sceneggiatura (da 5+), la fotografia (un bel 4), gli attori (si salva il Prete), la musica (da 4 pure lei). E, invece, è tutto troppo dozzinale, amatoriale, improvvisato. Che peccato!

A latere.
Su un fenomeno extraterrestre che causa casini sulla Terra si era già soffermato il capolavoro L'invasione dei mostri verdi (1963, il cui romanzo originale, intitolato Il giorno dei trifidi e uscito nel 1951, è un vero gioiello, credetemi): un passaggio di meteore fa diventare tutti ciechi e trasforma delle piante in mostri assassini. Era di una debolezza imbarazzante, ma funzionava perché puntava sull'emozione, trattenendo il pubblico fino alla fine. 
Sul sonno come leva di destabilizzazione, come non citare L'invasione degli ultracorpi (film del 1956, basato sull'omonimo romanzo uscito l'anno prima - e che vanta almeno altri quattro remake). In questo caso, però, sono dei non meglio identificati alieni a sostituirci mentre dormiamo: se stai sveglio, resti umano; se t'addormi, ti risvegli anaffettivo e alienissimo. 

Consiglione: 
NON fatelo guardare ai ragazzi da soli.
Prima di ritrovare il sonno, infatti, la Mamma deve essere affogata dai suoi stessi figli. 
Come ca@@o possano passare leggerezze simili, mi sfugge. 
Il rischio di emulazione c'è, e va scongiurato col presidio di un adulto attento.

04 maggio 2021

ESTRANEO A BORDO, una recensione (spoiler)

In mezzo allo Spazio, i tre dell'equipaggio HARP con destinazione Marte devono fare i conti con l'inaspettata presenza di un tecnico, svenuto a bordo a sua insaputa: significa maggior peso, uno stomaco in più, maggior anidride carbonica da smaltire, minor ossigeno a disposizione.
Più che una questione di sopravvivenza, è una lotta disperata tra etica e senso di responsabilità di ognuno dei quattro - ciascuno nel suo ambito, dove anche la scelta più leggera può diventare motivo di dibattito (o di sospiro rassegnato).
Finale un po' prevedibile, ma nell'insieme è un film che si fa vedere.

La trama ricalca molto da vicino Le fredde equazioni di Tom Godwin, racconto uscito nel 1954 in cui la clandestina è una donna, consapevole però della sua infrazione.
L'inquietudine che sottende il titolo italiano è sicuramente più efficace di quello originale, Stowaway - clandestino, che invece rovina la sorpresa, svelando di fatto la specie con cui si avrà a che fare: umana, umanissima.
E di inquietudine parliamo almeno finché non viene svelato chi è l'estraneo. Il pathos c'è e funziona, le citazioni non mancano ma sono eleganti, fino a quel momento l'equipaggio è simpatico (ma non troppo).
Il politically correct si fa sentire pochissimo: comandante donna, medico ragazza, scienziato coreano. Stranamente, il clandestino è nero, ma le legittime rivendicazioni del blacklivesmatter non si fanno sentire perché non è responsabile dell'infrazione: è rimasto intrappolato suo malgrado.
Certo, però, è un film inutilmente lento. La sceneggiatura viaggia sempre alla stessa velocità. Sarebbe stato sensato descrivere l'"indifferenza" delle macchine mantenendo quelle belle inquadrature transitorie (ci sono Kubrick e Scott che sorridono), quei lentissimi zoom out, quelle panoramiche circolari; mentre, invece, la foga degli uomini (che rischiano la morte ogni pié sospinto), andava raccontata con tempi più serrati.
Anche la musica non aiuta, perdendosi dentro un freddo autocompiacimento che nulla a che vedere con la trama.
Buona la fotografia, anche se pastosa e tutt'altro che differenziata tra il dentro e il fuori l'astronave.
Al netto che è un film che usa la Fantascienza come pretesto, sulle leggi di Fisica che sembrano così fluide e valide, ho qualche dubbio. Purtroppo non ricordo più nulla dei miei trascorsi liceali, ma mi sembra strano che il cilindro di ossigeno d'emergenza possa girare in sincrono con l'astronauta che lo tiene con una corda, a sua volta in sincrono con quello strano sistema di propulsione. Anzi, se qualcuno di voi ci capisce qualcosa, mi scriva per favore.

28 dicembre 2020

THE MIDNIGHT SKY di George Clooney

È un film strano questo di (e con) George Clooney, perché ha molti difetti e pochi pregi; eppure resta appiccicato nella mente per più tempo rispetto alla media dei film di media qualità.
La trama, a grandissime linee (evito spoiler, tranquilli). La Terra non se la passa così bene, tanto che la gente viene evacuata per chissà dove. Lui è uno scienziato totalmente dedito alla scienza, con un grande avvenire dietro le spalle e un mucchio di rimorsi che lo erodono nel presente: minato da un cancro all'ultimo stadio, anziché partire con tutti, decide di restare in un non meglio identificato osservatorio (una sequenza fuori campo lo colloca in Artide, mentre alla fine del film lui stesso dice di essere in Antartide). Parallelamente a questa storia, un'astronave in missione su una luna di Giove sta tornando sulla Terra. E qui mi fermo, altrimenti vi rovino tutto.
La trama sa di già visto, così tante volte che ho perso il conto delle numerose citazioni più o meno volontarie. Sicuramente il sottotesto ecologico è meno noioso del solito, senza corollari nevrotici alla Greta insomma.
Lui è bravo, indiscutibilmente bravo, sia perché non gigioneggia mai, sia perché riesce a rispettare il suo ruolo senza presidiarlo con una regia invece discreta e collettiva.
La bambina è fenomenale, soprattutto perché fa la bambina senza esagerare, con un autocontrollo decisamente "adulto" ma non stucchevole.
La sceneggiatura è il suo punto debole. È come se avesse sempre un frame in più, quasi ridondante: rende l'insieme lento, inutilmente lento. Si può fare fantascienza adulta senza rompere le palle allo spettatore come appunto accadeva con il Solaris originale.
Le musiche di Alexandre Desplat non sono poi così ficcanti: ricordano troppo il Sakamoto di Bertolucci come anche l'Hans Zimmer della Sottile Linea Rossa.
La fotografia è netflixiana: pastosa, appiccicata, digitale e quindi senza profondità. Ottime le inquadrature e le scelte di campo, ma rese vane da luci spesso plastificose. Nulla da dire sulle evoluzioni spaziali, forse inutili ma pregevoli... e debitrici della lezione di Gravity, cui Clooney per primo ammette di dovere qualcosa. A latere: tranne la scena dell'acqua, gli esterni sono stati veramente girati al freddo (in Islanda).
L'idea proposta nel finale sarebbe verosimile nonostante nel resto del film alcuni espedienti siano tutt'altro che scientifici, inaccettabili per un film dichiaratamente "adulto": i rumori nello Spazio (dove, invece, non si può sentire niente); asteroidi grossi come una sedia che causano danni trascurabili (chiedete a quelli dell'ISS i danni che può causare una briciola di metallo); il tempo di latenza delle comunicazioni tra l'astronave e la Terra è pari a zero (solo con la Luna il ritardo è di oltre tre secondi; figuriamoci con Giove o dintorni).
Chiaramente non posso aggiungere almeno altre quattro incongruenze perché svelerebbero il finale; una quinta (decisamente imbarazzante) verrà in mente a chiunque appena svelato il destino dei quattro astronauti.
Incredibile, invece, le due invenzioni standardizzate, che vanno quasi a braccetto: le pareti "morbide" dell'astronave e una stampante 3D usata per fabbricare al momento strumenti utili alla bisogna.

Io sono convinto che se decidi di fare un film in streaming, sei quasi costretto a ragionare in maniera diversa, tenendo conto cioè che il pubblico si distrae facilmente, tra chi beve qualcosa, il salotto illuminato così così, il pigiama comodo e la coperta calda, la telefonata, le coccole, la domanda di troppo... tutti elementi che tolgono il senso del cinema "tradizionale", quello silente, quello di partecipata arte collettiva; elementi che suggeriscono invece l'utilizzo di una maggiore attenzione alla sensazione, che a volte deve sfociare anche nel sensazionalismo (senza strafare, ovviamente: i parametri a disposizione sono numerosi e non per forza "americani").
Bisogna scendere a compromessi, insomma, senza vendere l'anima al diavolo o produrre tramette stiracchiate: vedi Roma, guarda caso di Cuaron, concepito apposta per lo streaming e decisamente avvolgente dall'inizio alla fine.
Insomma, film come questo sono ancora necessari, ma vanno impostati in altra maniera, altrimenti resta tutto fine a uno scatolone che fa finta di essere qualcosa che questo film non è riuscito a essere.
Da vedere in lingua originale.

11 settembre 2020

AWAY su Netflix, ovvero: dell'inclusione obbligata

Ho visto Away su Netflix e non l'ho trovata un granché. Definirla una serie di fantascienza, poi, mi sembra una forzatura quasi ridicola. Certo, parla della prima missione su Marte, ha dei (rarissimi) momenti godibili extraveicolari, alcune soluzioni scientifiche dichiaratamente improbabili se non impossibili... però, e alla fine, insegue una trama prevedibile e scontata che sarebbe identica a se stessa anche al di fuori di questo contesto.
Devo dire che gli effetti speciali sono notevoli, puliti, così frequenti e lineari che lo spettatore quasi non si accorge che per un quinto di ogni episodio i personaggi fluttuano amabilmente nel cargo spaziale o fuori. Cargo spaziale che sembra più grande di San Pietro, con un'abitabilità e un rispetto della privacy che neanche un principe giapponese poteva vantare. Però la finzione prevede queste cose, che certo non danno fastidio.
Dà fastidio, semmai, la scelta della bibbia dei personaggi, che oscilla sempre tra l'inclusione parossistica e un dissimulato rispetto per l'ipocrita tradizione in salsa luterana. 
Certo, anche nelle serie del passato erano presenti alcune scelte coraggiose (dentro Star Trek, per esempio, abbiamo il primo bacio televisivo interraziale, un equipaggio multietnico, la prima donna comandante...), ma qui, dentro Away, sembra quasi che ci sia un ditone nascosto che indica ogni scelta per enfatizzarla in maniera quasi nevrotica, per accontentare ogni palato pronto a giudicare col ditino nella fondina.
Parentesi. Per evitare polemiche della solita attivista di passaggio: non sto contestando queste scelte, semmai la forzatura e ormai l'obbligo di dover rappresentare tutte, tutti e tutto, costringendo l'ingegno degli sceneggiatori a delle vere capriole narrative per eludere ogni polemica, a discapito della fluidità delle storie e anche - diciamolo - dell'inventiva. 
La comandantessa è donna, madre, moglie, scapigliata da giovane, integerrima da adulta. E questo è l'obbligo post MeToo. La parte luterana? Ebbene, passa il 90 per cento della sua attività a piangere e a ringraziare il marito per averla supportata.
Il marito della comandantessa, invece, è il suo faro etico e professionale, ma come dispetto del Fato ha una patologia congenita che lo costringe pressoché immediatamente alla sedia a rotelle. Quindi il "normale" diventa "handicappato", accettandone i contro con raro senso della dignità. La figlia dei due scopre l'adolescenza e l'amore proprio quando mamma sta in giro per lo Spazio, e il papà ne accetterà i colpi di testa con enorme fatica, ma sempre con un deciso puntiglio etico. Oltretutto, l'uomo è così d'un pezzo che fugge dal tentativo di corteggiamento della migliore amica della comandantessa.
La figlia dei due sta sempre legata alle amichette - com'è giusto che sia - e ai like dei social (in maniera accennata). Scopre l'amore (casto ma fino ad una notte in cui forse accade qualcosa), ma segue sempre i consigli di mammà-dallo-Spazio, almeno finché mammà-dallo-Spazio non sbrocca per una temporanea disidratazione, dandole qualche rigida direttiva di troppo. Avrà quindi un incidente di moto, il cui scampato pericolo la rimette - luteraniamente - dentro la carreggiata del vivere secondo l'etica quasi aperta dei genitori. A latere: al contrario di quanto suggerirebbe la genetica da salotto, non ha la patologia di papà.

Tale figlia si innamora di un ragazzetto - orfano di padre e di origine ispanica - che la porterebbe alla adultità, almeno finché non cede alle sue insistenze portandola ad avere l'incidente. Tanto poi si presenterà umilmente prostrato (in cravatta!) davanti al padre, una volta concluso l'iter dell'essere stato cacciato via a causa dell'incidente.
La figlia della migliore amica della comandantessa ha la Sindrome di Down. Per carità, non è la prima volta che viene "usata" tale figura; ma qui viene fuori il ditone cui alludevo prima, visto che in questo caso è un personaggio totalmente marginale, poco usato e poco valorizzato. Anzi, sotto sotto è innocentemente responsabile della rinuncia della mamma a diventare astronauta. Il luteranismo si fa sempre sentire: o fai la donna emancipata (ma frignona e debitrice di tuo marito) oppure fai la mamma.
E l'equipaggio?
Qui si scatena di tutto.

La prima persona che metterà piede su Marte è cinese, donna, madre, ma anche innamorata di un'altra donna (con cui, però, non ha consumato nulla).
Il biologo è nero, adottato, ebreo, religioso, passa il tempo a pregare, tanto che alla fine pregano tutti, anche il russo scettico.
Il russo è il più cinico tra tutti, ma dal suo passato scende una storia niente male: nonostante ardite promesse, dopo la morte della moglie abbandonò l'amatissima figlia ai suoi zii. E ovviamente la figlia non gliel'ha mai perdonato. Pagherà abbandono e altezzosità diventando cieco.
Il comandante in seconda è un indiano uscito da qualche slum non meglio identificato. Si atteggia da playboy, ma in realtà preferisce la solitudine. Ama, non corrisposto, la comandantessa.

Oddio, non corrisposto fino ad un certo punto: quando tutti e cinque devono salutare i cari prima di atterrare su Marte... di ammartare, insomma, è l'unico che non ha nessuno da salutare se non il fratello morto in gioventù. E mentre saluta il suo spirito, la comandantessa lo prende per mano... in mondovisione! Controcampo sul marito a Terra che deglutisce a fatica.
Mi rendo conto che la trama riportata possa nascondere le contraddizioni dei personaggi inclusivi, ma se gli sceneggiatori se ne fossero fregati di mettere tutto dentro, forse avremmo avuto un altro tipo di narrazione, o comunque non mi sarei messo a ridere quando magari una scena prevedeva un minimo di commozione.
Da appassionato so perfettamente che le narrazioni fantascientifiche (scritte o visive che siano) abbiano fisiologico bisogno di tanti e tanti tentativi, altrimenti poi non potremmo ammirare capolavori miliari. Ma qui siamo di fronte a un modello quasi collaudato di narrazione inclusiva che nulla vuole dalla trama se non il soddisfare ogni possibile requisito del passato e del futuro.

15 marzo 2020

Coronavirus, da un disastro, la Bellezza

Secondo voi, si può passare da un vulcano e arrivare a Kirk Douglas? 
E, soprattutto: perché?!
Aprile 1815, Indonesia. Il vulcano Tambora esplode, letteralmente, raggiungendo il livello 7 dell’indice di esplosività vulcanica; Pompei fu del 2, così vi fate un’idea. La sua attività dura fino all’agosto dello stesso anno, generando tsunami più o meno rilevanti - nonché una quantità incommensurabile di materiale vulcanico che raggiunge l’atmosfera e lentamente avvolge l’intero globo. Le vittime sono 12.000, ma non possiamo certo calcolare quelle successive al disastro ambientale che ne consegue, come inondazioni e siccità. L’anno successivo, infatti, è il celebre “anno senza estate”. 
In pochi mesi, progressivamente anche il cielo di tutta Europa diventa così terso da ispirare al pittore William Turner quei suoi magnifici tramonti.
Ma non è il solo artista a restare affascinato da quella situazione.
Infatti, nel 1816, nella Villa Diodati in Svizzera , si ritrovano tre letterati e un loro attendente: influenzati da quel clima così evocativo e appassionati da dozzinali racconti gotici tedeschi, vogliono scriverne di nuovi, scambiandosi idee ma anche sfidandosi a chi scriverà l’opera migliore.
Ne parla - molto a modo suo! - Ken Russell nel poco riuscito film Gothic (1986), di cui si salva giusto la colonna sonora di Thomas Dolby, già produttore dei Prefab Sprout e pioniere di un’elettronica senza frontiere e pregiudizi.
Il più noto tra questi è George Byron, immenso poeta, padre di Ada (già, proprio quella cui è dedicato l’omonimo algoritmo). Byron scrive Darkness, uno dei poemi più belli della Storia, non solo inglese. 
Se non siete influenzabili da temi così imponenti, vale la pena leggerlo; altrimenti, aspettate la fine di questa crisi. L’edizione italiana con la migliore traduzione è quella Einaudi, purtroppo fuori catalogo.
Il suo attendente, Jon Polidori, scrive un brevissimo libello dal titolo Il vampiro. Secondo l’elegante saggio dell’antropologo culturale Vito Teti, sarebbe stato lo stesso Byron ad avergli buttato giù una bozza dozzinale. Comunque sia, l’inquietante figura è chiaramente ispirata al sommo poeta… in maniera chiaramente sprezzante, visto che Polidori non amava certo il suo padrone.
Poi abbiamo Percy Shelley: scrive Il Prometeo liberato, forse l’unica datata tra le idee di quel simposio; per quanto bella, ha uno stile sin troppo ottocentesco. Shelley è seppellito nel Cimitero Acattolico di Testaccio, accanto a Keats (quello dell’Urna greca, per intenderci), Gramsci (cui Pasolini ha dedicato un bellissimo poema) e… Camilleri.
La vera sorpresa ce la regala sua moglie, Mary Wollstonecraft. Femminista ante litteram, bella, intelligente e colta, scrive Frankenstein. A seguire quel matto di Russell, la trama sarebbe condizionata da un presunto aborto spontaneo; fatto sta che quel capolavoro dovrebbe girare anche per i nostri licei, se solo in Italia crescessimo un pochino e la smettessimo di circoscrivere tutto in generi sprezzanti.
Fin qui, tutto bene, ma manca Kirk Douglas, peraltro morto recentemente a soli 100 anni.
Lo sappiamo, è stato protagonista di eccellenti pellicole, non ultima lo Spartacus di Kubrick, le cui difficoltà produttive vengono raccontate con rara ironia proprio da Douglas in questo simpatico testo.
Ma c’è un’opera meno nota che lo vede tra i protagonisti: Lettera a tre mogli (1949) di Joseph L. Mankiewicz (sofisticato regista di capolavori come Eva contro Eva, Cleopatra, Un americano tranquillo, per dire). Diciamo placidamente che la trama è stata alquanto abusata, non ultimo dalla serie Desperate Housewives (anche se qui la lettera è in realtà una voce fuori campo di una quarta amica ormai morta).
La trama è semplice, liquida e lineare: una donna invia una lettera, appunto, a tre mogli, scrivendo che ha avuto una relazione con uno dei mariti. La sua voce fuori campo è una sfida alle regole cinematografiche, visto che notoriamente è sinonimo di debolezza strutturale (Viale del tramonto è l’eccezione che conferma la regola): eppure è una formula vincente e accattivante, tanto da vincere l’Oscar per la regia e la sceneggiatura non originale.
Kirk Douglas interpreta un professore squattrinato, fiero della sua passione per la cultura, ma chiaramente messo da parte perché “intellettuale”. Ad un certo punto, verso la fine del film, quando scorge una delle protagoniste scendere lentamente le scale, così elegante e sensuale, declama: “She walks in beauty, like the night / of cloudless climes and starry skies…”, Ella cammina radiosa come la notte, di climi tersi e di cieli stellati… è una poesia di Byron, proprio lui. 
Ce l’abbiamo fatta: dal Tambora siamo arrivati a Kirk Douglas!
Dimenticavo. Per i malati di Star Trek: tale poesia viene declamata anche da Spock nel terzo episodio della terza stagione della cosiddetta Serie Originale.
Insomma, da un disastro come quello del vulcano Tambora, l’Umanità ha saputo reagire con la Bellezza. Basta volerlo.

08 gennaio 2019

BIRD BOX e la critica cinematografica

Ho visto Bird Box su Netflix e non saprei cosa dire. O meglio: mi è piaciuto "virgola ma", perché è intriso di riferimenti e citazioni e ammiccamenti di ogni tipo. 
Però è un buon film. 
Però sa di già visto. 
Però ha un'ottima fotografia. 
Però è leggermente lento. 
Però ha un finale ben congegnato. 
Però non finisce né bene né male.
Insomma, qual è il vero problema?
È che un critico cinematografico dovrebbe appendere al chiodo penna e taccuino appena ha toccato la somma di due generazioni: una sorta di quota 100 etica, oltre la quale non dovrebbe sputare sentenze. E da lì, poi, trasformarsi in storico puro.
Penserete che non ci sia differenza tra critico e storico, ma vi sbagliate per almeno due motivi: il critico deve saper ascoltare il contesto in cui si esprimono i film, magari lasciandosi anche trasportare dai languori del tempo in cui vive; lo storico, invece, deve allontanarsi dal contesto che analizza, restituendogli dignità o limiti di fronte alle insidie del tempo.

Tant'è che, se ci pensate bene, quando qualcuno parla di Via col vento o di Berretti verdi (presi a caso), aggiunge sempre il canonico "devi rifarti all'epoca".
Ecco, per vedere Bird Box bisogna rifarsi all'epoca, ignorando volutamente tutta la tradizione di film di fantascienza e di horror che lo hanno preceduto. Per me non è stato possibile perché gli allarmi della mia memoria ronzavano continuamente.
Quindi, se siete giovani, scoverete qualcosa giusto da E venne il giorno e da World War Z. Se, invece, siete curiosi come scimmiette - o vecchietti da me in su, allora andiamo nel dettaglio. 
Da qui in poi, spoiler.
Oltre al WWZ citato, la "preparazione" al drammone riprende La città verrà distrutta all'alba di Romero, mentre la donna incinta da salvare è sovrapponibile al suo remake del 2010.
L'idea che le persone si suicidino appena vedono le creature (che noi non vedremo mai: ottimo macguffin!), è decisamente simile al già citato film di Shyamalan.
Il modo di presentare la casa assediata dalla stessa paura dei suoi assediati - quindi più che da un nemico che si manifesti esplicitamente, ricorda molto la Suspense di Clayton (1961).
I "posseduti" che si insidiano tra i buoni, sono una chiara eredità de Il terrore dalla sesta luna, scritto da Heinlein nel 1951 e tradotto in film nel 1994. Sotto altri aspetti, sono anche parenti vicini delle due "Cose", quella da un altro mondo del 1951 e quella di Carpenter del 1982, entrambe tratte da un racconto del 1938.
Sotto altri aspetti ancora, ricordano L'invasione degli ultracorpi di Jack Finney (romanzo del 1954) in tutte le sue successive traduzioni cinematografiche (la seconda più di tutte).
Delizioso il doppio omaggio al supermercato: tra Zombie di Romero (1978) e The mist di King (1982), ce n'è per tutti i gusti.
I pappagalli salvifici ricordano terribilmente quelli buoni buoni nella gabbietta circondati dagli invece cattivissimi Uccelli di Hitchcock (1963): addirittura stessa specie.
Sull'idea del fiume come strada per la salvezza, sento di ricordare qualcosa, ma non riesco proprio a ritrovarmela nel capoccione.
Sul finale, scusate, ma se non siamo di fronte a Il giorno dei trifidi di Wyndham (1951; il film è del 1963), ditemi voi dove siamo. Insomma, dai ciechi la salvezza! Diamine!
Una sola domandona finale, che il film risolve alla carlona con un paio di rapide scene: ma se le creature si manifestano alla luce, perché non siete scappati di notte?