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27 aprile 2021

I MAESTRI DELLA LUCE di Dennis Schaefer e Larry Salvato (minimum fax)

La storia della Fotografia nel Cinema attraverso le interviste di alcuni tra i più grandi maestri di sempre, ovvero: 
Néstor Almendros, John Alonzo, John Bailey, Bill Butler, Michael Chapman, Bill Fraker, Conrad Hall, László Kovács, Owen Roizman, Vittorio Storaro, Mario Tosi, Haskell Wexler, Billy Williams, Gordon Willis, Vilmos Zsigmond.
Nomi che fanno venire i brividi e che meritano più di una lettura fugace: il libro è scritto così bene e in maniera così professionale, che ho impiegato quasi un anno per completarlo; e non per pigrizia o perché amo leggere più libri insieme, ma perché ho preferito letteralmente assaporare un'intervista per volta.
La struttura di ogni incontro è abbastanza lineare: breve biografia cinematografica, molti aspetti tecnici (ma non ostici), molta Storia del Cinema, molta storia personale.
I due autori fanno una gara di bravura, mettendo sempre a proprio agio ogni Maestro, aggiungendo poche considerazioni personali - se non all'interno di ragionamenti che coinvolgono sia il lettore che l'intervistato, senza mai farsi notare, sgomitare o utilizzare termini inutilmente complessi.
Un libro notevole che merita spazio nella biblioteca di chiunque ami sia la Fotografia che il Cinema.

04 giugno 2020

Clint Eastwood FEDELE A ME STESSO minimum fax

Un buon compendio, che si legge tutto d'un fiato e che lascia pochissimo spazio al dissimulato egocentrismo degli intervistatori. Viene fuori un ritratto di un grandissimo artista che ha saputo segnare la Storia del Cinema e insegnare come si fa Cinema.
Le interviste raccontano solo l'Eastwood regista, e si fermano fino a J. Edgar. Si dipanano dietro direttrici intuibili e sotto molti aspetti sembrano "pilotate" dolcemente anche da Eastwood, che sa come rispondere e come accompagnare quindi gli intervistatori verso domande interessanti e intelligenti. 
Tra gli elementi che arrivano subito al lettore, spicca come venga intesa da Eastwood la praticità: in realtà, è uno strumento per arrivare immediatamente all'autenticità, senza tanti fronzoli; più prove fai, infatti, e più si perderà la spontaneità della recitazione e dell'idea filmica. Eccoli lì che il mantenersi sotto i budget previsti sembra quasi una cifra stilistica; paradossale, insomma, che il punto d'incontro tra i produttori ed Eastwood sia un elemento che sembra una cosa ma che in realtà è ben altro.
Un altro pregio di Eastwood è che non pretende di sapere cosa penserà lo spettatore. E neanche pretende che lo spettatore capisca quello che per lui dev'essere capito; una (doppia) dote rarissima, che solo persone umili ma determinate riescono a mantenere nel giusto equilibrio.
Infine, la serenità: notoriamente Eastwood mette a proprio agio attori e tecnici, creando un ambiente favorevole al buon lavoro, a seguire e arricchire il progetto, a stimolare idee e intuizioni dei professionisti coinvolti. Tant'è che in alcune circostanze, Eastwood per primo ha cambiato idea in corsa, stimolato proprio da quello stesso ambiente così accogliente e proattivo.
Fin qui abbiamo parlato di carattere. Quello che reputo essere il vero talento di Eastwood è saper scegliere il film da girare e come girarlo, seguendo solo i propri gusti, senza compromessi con il voler compiacere ad ogni costo o la ricerca del successo. Il che non significa essere "contro" in maniera gratuita e stucchevole, ma semplicemente attenersi alla propria personalità.
Sono interviste ricche, che in rari casi vedono ribadire alcuni pensieri in contesti diversi: in realtà, è un pregio, perché consente al lettore di mantenere ben saldo nella memoria quel pensiero del regista, per sperimentarlo in ambiti differenti.
Conosco la filmografia e le interpretazioni di Eastwood dagli inizi, quando cioè qui in Italia andava odiato perché "fascista". Ero molto giovane e mi colpiva sia la virulenza di quelle posizioni che il pregiudizio intellettuale che le alimentava. Mai come in questo caso, però, la pochezza della critica militante fece un favore alla persona che insultava, visto che più aggrediva Eastwood e più si gonfiavano le fila dei suoi estimatori. Anzi, invecchiando, Eastwood si è preso una rivincita, visto che anche quei contestatori si sono trasformati in estimatori.

26 novembre 2013

MONK, la biografia necessaria (minimum fax)

Se il jazz fosse un solido, sarebbe una tavola; non particolarmente complessa, né vistosa. Ci penserebbero i musicisti a darle i toni e i colori appropriati, magari temporanei, sicuramente estemporanei, comunque intrisi di fugaci bellezze anche per l'ascoltatore più esperto.

Miles Davis starebbe fermo al centro. Non si muoverebbe di un millimetro. Per lui la tavola non esiste. I suoi suoni andrebbero solo in alto, arrampicandosi all'infinito.
Quando la gente cammina - o sta ferma - non si guarda mai intorno; Miles Davis, invece, ha sempre avuto la rara genialità di non curarsi dell'ambiente, ma di esplorarne il non visibile, il non immaginabile.
Keith Jarrett penserebbe solo a se stesso: suonerebbe guardando uno specchio che riflette uno specchio che riflette uno specchio che riflette uno specchio che riflette uno specchio... passerebbe ere e ore alla ricerca del suo io, convinto che sia così incommensurabile da non essere quantificabile se non dal suo pianismo.
Chick Corea correrebbe sopra questa tavola, come un eterno bambino, spensierato e un po' saccente, inseguito da Bollani, a loro volta osservati con sorniona pazienza da Mingus e dai due Evans (Gil e Bill), gli eterni maturi di una genìa di monumenti insormontabili...
La lista è lunga, infinita: ogni musicista jazz avrebbe il suo spazio e il suo modo di interpretarlo.
E poi ci sarebbe Monk. 
Dico "sarebbe", perché Monk si metterebbe lì, con incosciente leggerezza, a raccontare gli spigoli. Ogni solido ha uno o più spigoli, anche una sfera se vogliamo. La tavola del jazz ne ha quanti ne volete: ognuno dei quali, però, già sperimentato da Monk. 
Anzi, Monk aveva il coraggio di camminare un po' di qua e un po' di là i confini di questa eterna tavola. Sapeva, cioè, che era impossibile raccontare l'oltre di questa tavola: ma era altrettanto consapevole che poteva mettersi di spalle all'ignoto e osservare attentamente ogni singolo spigolo, minuzie di angoli e controangoli, per poi raccontarli a noi avidi ascoltatori tramite un'unica e perfetta capacità di risolvere ogni possibile enigma.
Monk suonava rispettando l'essenza tribale del pianoforte, così ritmico nella sua natura da essere invece usato forzatamente come strumento melodico, forse orchestrale, ma mai nella sua essenza più ancestrale. Il pianoforte ha sempre cercato Monk, e quando poi l'ha trovato si è seduto soddisfatto da una parte, ormai sazio. 
Esiste un prima e un dopo 'Round Midnight, ma niente che riesca a sfiorarlo. Esiste un prima e un dopo le musiche di Monk, e poi ci sono solo quelle di Monk; questo libro è la sua storia, questo libro è la biografia di quegli angoli.