Pochi giorni fa, di fronte all'evidente violazione delle più banali regole di prevenzione da parte di una minoranza numerosa di giovani che partecipavano alla cosiddetta "movida", Paola Concia si è scagliata contro l'indignazione diffusa, twittando "Ma invece di tutto sto lamento sulla #movida, perché non si cerca di fare qualcosa di intelligente, parlare co sti ragazzi e ragazze, spiegare, ragionare con loro sul da farsi, perché? Perché mai qualcosa di costruttivo? Sempre sto lamento, sta lagna, perché? E su!!! #Fase2".
Sotto il sapido e ficcante video del Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, spicca tra i commenti quello di Frankie Hi-Nrg: "Siete dei terroristi.
E per terrorizzare meglio decidete di violare anche le regole che imponete, perché vi sentite migliori degli altri.
Vergogna", aggiungendo in un commento successivo "a molti piace terrorizzare invece di spiegare, educare e mostrare esempi positivi".
Due atteggiamenti irresponsabili e contraddittori che rappresentano nitidamente quanto twitto da anni: la lunga ombra del '68 ha fatto molti più danni di quanto immaginiamo.
Innanzitutto, sono tre mesi che viene spiegato come comportarsi! Cosa bisognava aggiungere? L'analisi compulsata dell'Ulisse di Joyce? La traduzione a fronte dell'Anabasi di Senofonte? Così, giusto per capire...
Poi: perché in Italia ogni minimo richiamo al dovere e al rispetto delle regole, dev'essere dibattuto fino allo stremo, come se fossimo in un eterno salotto lontano dalla realtà?
Quindi: forse il noto rapper si è dimenticato del buon uso delle parole, additando a Zaia un suo essere "terrorista" nel richiamare al rispetto delle regole; dico, è un'accusa pesante e infantile. E subito dopo gli chiede "esempi positivi", quando nel video c'è chiaramente l'esempio di un infermiere che lotta per tenere in vita un paziente.
E faccio finta di non sottolineare quell'educare, visto che ogni volta che lo Stato prova a "educare", proprio quelli come Frankie si arroccherebbero sulla prima barricata qualunquista, rifiutando un simile approccio. Tanto bravo come cantante, ma sorprendentemente avvilente come polemista.
Il dibattito che è seguito, infine, ha raggiunto vette di stupidità diffusa e condivisa.
C'è chi l'ha messa sul presunto conflitto "giovani contro vecchi", togliendo l'attenzione da un obbligo etico e necessario (la sicurezza), il cui rispetto risentirebbe invece del solo approccio generazionale.
Peggio, c'è chi ha detto che è in corso un'improbabile "lotta alla movida", come se la movida fosse causa di tutti i mali, mentre invece è l'approccio ad essa - in questo momento così delicato - che potrebbe causare serie conseguenze.
Non è mancato, ovviamente, il vecchio e abusato "sì, ma..." all'italiana, con alcune variazioni sul tema. È giusto e sacrosanto pretendere il rispetto delle regole... ma il Governo non è chiaro con Immuni... ma i media non informano bene... ma la gente non ne può più... ma i bambini hanno paura delle maschere... ma siamo diventati più fragili... ma la gente è stanca di fare le file... potrei scrivere per ore. Ma la domanda sarà sempre la stessa: che ca@@o c'entra! Sono cose diverse: è il solito mettere insieme le mele con le pere.
Mascherine obbligatorie e distanza di sicurezza vanno rispettate. Punto. Niente dei "sì, ma..." sopra elencati (alcuni sacrosanti) può impedire di praticarli.
La vera questione è altra: se vogliamo che muoiano altre persone, se vogliamo affondare una Sanità già allo stremo, se vogliamo ridere in faccia ai parenti delle vittime o ai sanitari che si sono prodigati per salvare vite umane, continuiamo a fregarcene delle regole. Ma assumiamocene la responsabilità, senza twittare la robaccia che ho letto in questi giorni.
Il resto, sono solo chiacchiere.
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25 maggio 2020
04 maggio 2020
il libraio
Ero indeciso se raccontare o no questa storia, perché temevo che il protagonista potesse offendersi. Poi ho avuto un'illuminazione, grazie paradossalmente a un difetto di Repubblica. Io non ne posso più delle narrazioni di questo quotidiano, quando cioè spiega a noi lettori cosa proviamo noi lettori durante questa quarantena, con irritanti frasette salottiere tipo: la fragilità della donna, la libertà negata ai bambini, gli uomini riscoprono la famiglia... ma che palle!
Insomma, a me non piacciono queste narrazioni prefabbricate, e la cosa divertente è che ci stavo cascando io per primo. Per cui vi racconto Roberto. E soprattutto di come restai invischiato nel Repubblica's Theory di cui sopra.
Testaccio ha una libreria molto bella. Non ha tutti i libri che cerchi, ma per fortuna ha tutti quei libri che non immaginavi esistessero. E se poi sei un lettore vorace, puoi anche ordinare quello che non trovi.
Il paradosso di questa libreria è che i ragazzi non sembrano né negozianti né lettori voraci: non hanno l'insistenza del negoziante né la boria dell'intellettuale che fa finta di consigliare libri che neanche lui ha letto.
Per cui io so che posso entrare e comprare, oppure entrare e guardare, oppure entrare e farmi una chiacchierata, oppure tutte queste cose insieme o parte di esse. E senza sentirmi vincolato, obbligato, forzato.
Roberto è chiaramente quello più quadrato, attento, scrupoloso, preciso e sotto molti aspetti la pietra angolare sia della parte amministrativa che di quella organizzativa. Non è che gli altri siano da meno, ma Roberto ha quel qualcosa che si fa vedere subito.
Ogni tanto chiacchieriamo. Spesso scherziamo. Comunque ha sempre quel pregio di farmi sentire importante ma senza lecchismo.
Un giorno comprai un piccolo libro della Guanda in cui Werner Herzog presenta testo e appunti del suo Fitzcarraldo. Mentre stavo pagando, dissi a Roberto che quell'immagine mi emozionava in maniera quasi commovente. Nel 1991, infatti, ero stato in Brasile per un mese, e in quel del Rio delle Amazzoni vidi una barca pressoché identica, accroccata su un colle vicino alla riva.
Insomma, promisi a Roberto che gli avrei fatto vedere la mia foto, così che il mio languore non fosse solo una rappresentazione della mia nostalgia, ma un fatto realmente accaduto. Roberto annuì, sapendo che avrei mantenuto la mia parola. E, infatti, il giorno dopo gli feci vedere la mia foto... e lui la sua: la Disneyland di Parigi!
Io restai bloccato un microsecondo, ma poi prontamente gli chiesi perché e cercai di seguirlo nella sua nostalgia. Insomma, portando i figli a vedere quel parco incredibile si era commosso lui: era come fosse diventato reale tutto quello che Disney gli aveva fatto vivere quando era piccolo.
Ancora oggi mi dò del deficiente: perché ebbi quel sussulto? Perché ritenevo il mio Fitzcarraldo superiore al suo Topolino! Stavo seguendo il Repubblica's Theory, ca@@o! Ero caduto in quella trappola salottiera, ma soprattutto in maniera istintiva!
Due giorni fa, ho incontrato Roberto durante la fila per la Farmacia. La prima cosa che mi ha chiesto è: come sta tua moglie? È riuscita a rientrare prima che chiudessero Milano?
Roberto 2 - Alessandro 0
Insomma, a me non piacciono queste narrazioni prefabbricate, e la cosa divertente è che ci stavo cascando io per primo. Per cui vi racconto Roberto. E soprattutto di come restai invischiato nel Repubblica's Theory di cui sopra.
Testaccio ha una libreria molto bella. Non ha tutti i libri che cerchi, ma per fortuna ha tutti quei libri che non immaginavi esistessero. E se poi sei un lettore vorace, puoi anche ordinare quello che non trovi.
Il paradosso di questa libreria è che i ragazzi non sembrano né negozianti né lettori voraci: non hanno l'insistenza del negoziante né la boria dell'intellettuale che fa finta di consigliare libri che neanche lui ha letto.
Per cui io so che posso entrare e comprare, oppure entrare e guardare, oppure entrare e farmi una chiacchierata, oppure tutte queste cose insieme o parte di esse. E senza sentirmi vincolato, obbligato, forzato.
Roberto è chiaramente quello più quadrato, attento, scrupoloso, preciso e sotto molti aspetti la pietra angolare sia della parte amministrativa che di quella organizzativa. Non è che gli altri siano da meno, ma Roberto ha quel qualcosa che si fa vedere subito.
Ogni tanto chiacchieriamo. Spesso scherziamo. Comunque ha sempre quel pregio di farmi sentire importante ma senza lecchismo.

Insomma, promisi a Roberto che gli avrei fatto vedere la mia foto, così che il mio languore non fosse solo una rappresentazione della mia nostalgia, ma un fatto realmente accaduto. Roberto annuì, sapendo che avrei mantenuto la mia parola. E, infatti, il giorno dopo gli feci vedere la mia foto... e lui la sua: la Disneyland di Parigi!
Io restai bloccato un microsecondo, ma poi prontamente gli chiesi perché e cercai di seguirlo nella sua nostalgia. Insomma, portando i figli a vedere quel parco incredibile si era commosso lui: era come fosse diventato reale tutto quello che Disney gli aveva fatto vivere quando era piccolo.
Ancora oggi mi dò del deficiente: perché ebbi quel sussulto? Perché ritenevo il mio Fitzcarraldo superiore al suo Topolino! Stavo seguendo il Repubblica's Theory, ca@@o! Ero caduto in quella trappola salottiera, ma soprattutto in maniera istintiva!
Due giorni fa, ho incontrato Roberto durante la fila per la Farmacia. La prima cosa che mi ha chiesto è: come sta tua moglie? È riuscita a rientrare prima che chiudessero Milano?
Roberto 2 - Alessandro 0
30 aprile 2020
beejoux
Accanto a Cesare, qui nel Nuovo Mercato di Testaccio, c'è un omone nato calvo.
Sì, non c'è altra spiegazione: a lui i capelli li hanno strappati via appena nato; sta così bene come sta adesso, che quasi si stenta a credere che sia stato giovane.
Come tutti i calvi di antica stirpe, non saprei che anni possa mai avere, anche se, calcolando gusti e riferimenti, credo che stia dalle parti della mia sorella maggiore, nata nel '60.
È sempre, dico sempre!, sorridente; con quel faccione che si illumina appena ti riconosce (o fa finta di riconoscerti: così prevengo il vostro cinismo). Ma anche se fosse un sorriso da negoziante, sa farti sentire subito a tuo agio.
E nonostante il suo negozio sia un buco con la vivibilità di una custodia per smartphone, non mette mai pressione alcuna ai clienti. Puoi girare per ore, smanazzando ogni cosa, e lui sta per fatti suoi, ritoccando quella borsa o riaggiustando le buste nella portina che dà sul retro (un retro che è più piccolo di questo blog, intendiamoci).
L'insegna del suo negozio mette insieme la traduzione inglese di ape (bee) con la parola "bijoux". Devo dire che sarebbe cosa infelice se venisse da qualsiasi altra persona; ma da lui la accetti.
Quando prende in mano una delle sue nuove borse, sembra ti stia porgendo l'originale della Maschera di Agamennone o il Kohinoor. E quando accarezza la loro pelle sembra stia facendo sesso con la donna più sensuale di tutta Roma.
A me dà sempre l'impressione di essere un avventuriero con un bagaglio di esperienze grosso così, che si è dato alla pelletteria per scelta etica, come se in passato fosse stato un soldato della Legione Straniera o un esploratore che ha dovuto uccidere animali e uomini per tornare sano a casa.
Inutile dire che è un passaggio obbligato quando Silvia ed io passiamo da quelle parti, quasi un rito cui non possiamo rinunciare.
Chissà come sta passando questa quarantena.
29 aprile 2020
l'infermiere
Alcuni di voi lo conoscono, specie chi frequenta questo blog da quando è nato... oddio, quando è nato?
Pensate che il primo html lo ritoccai io: una splendida versione in tre colonne, con l'header dedicato a Corto Maltese. E una quantità interessante di lettori: anni fa, i blog andavano per la maggiore, e questo minimAL si difendeva bene... vabbè, altri tempi.
Pensate che il primo html lo ritoccai io: una splendida versione in tre colonne, con l'header dedicato a Corto Maltese. E una quantità interessante di lettori: anni fa, i blog andavano per la maggiore, e questo minimAL si difendeva bene... vabbè, altri tempi.
Insomma, la persona di cui vorrei parlare è stato il mio infermiere per sei mesi, quando la mia gamba destra si ridusse in un pacchetto di cracker su cui si era seduto un elefante, di quelli pesanti.
Io l'infermiere non lo volevo, ma non solo per una questione di cacca mattutina (che quando stai bloccato a letto diventa un problema, ve lo assicuro), ma per dignità personale. Insomma, non mi piace cedere.
Mai.
Qualcuno crede che ami recitare la parte dell'uomo forte. Non so che dirvi, ma io non recito. È che onestamente non capisco le persone fragili: parliamo due lingue diverse. Per me la fragilità non esiste. E accettare un infermiere significava dimostrarsi fragile.
Qualcuno crede che ami recitare la parte dell'uomo forte. Non so che dirvi, ma io non recito. È che onestamente non capisco le persone fragili: parliamo due lingue diverse. Per me la fragilità non esiste. E accettare un infermiere significava dimostrarsi fragile.
Questo immenso pezzo di bontà si ritrovò davanti uno scorbuticone (che peraltro non era andato in bagno da dieci giorni) che scalciava e che non ne voleva sapere di avere una persona tra i piedi.
I primi giorni devo proprio averlo trattato male, malissimo. Quasi non gli rivolgevo la parola. E però riuscì a sembrare quello che poi era, perché non faceva mai un plissé, non palesava mai fastidio o irritazione per il mio pessimo comportamento. E poi, a proposito di cacche, chiarì subito che lui le puzze non le sentiva. Non so se fosse vero o no; ma era già un ottimo inizio.
Con lui ho ripreso a camminare.
Con lui ho ripreso a camminare.
Lentamente.
Inesorabilmente.
Nonostante dolori atroci e una gamba che ancora oggi sembra mezza sgonfia. Degli oltre 30 chiodi e vitarelle e mantice sputacchiato, mi sono rimaste giusto tre viti perché il grande Massobrio ha preferito lasciarle lì.
E Simone stava sempre lì accanto a me, ogni santa mattina. Colazione, cesso, doccia... ah, già, non vi ho detto che non mi piace farmi vedere col pipicchio di fuori. Allora Simone mi sollevava di peso, gesso compresso, mi buttava semivestito dentro la vasca, aspettava che mi lavassi fa solo, aspettava inoltre che mi coprissi il pipicchio per fatti miei, e poi entrava e mi risollevava di peso per rimettermi sulla sedia.
All'inizio la terapia era da fermo. E lì si "vendicò", nel senso più affettuoso del termine, per carità: mi raccontava tutte le sue partite di texas hold'em. Sono certo che se gliele richiedessi oggi, me le saprebbe raccontare intatte come allora, mano dopo mano, carta per carta.
All'inizio la terapia era da fermo. E lì si "vendicò", nel senso più affettuoso del termine, per carità: mi raccontava tutte le sue partite di texas hold'em. Sono certo che se gliele richiedessi oggi, me le saprebbe raccontare intatte come allora, mano dopo mano, carta per carta.
Il nostro rapporto divenne sempre più affettuoso, tanto che a volte mi chiedeva consigli o mi raccontava i fatti suoi.
Il giorno che da casa, stampelle e tutore bloccato indossati a dovere, andai fino al cimitero dietro il vecchio campetto della Roma, fu un giorno unico e irripetibile: tutto da solo, con lui accanto, contro dolori lancinanti che non vi sto a raccontare. E lui, sorridente e disponibile, pronto a farsi in quattro per me.
Quando riuscii a riprendere in mano la mia vita, Simone si eclissò, com'era giusto che fosse. Giusto un paio di Natale dopo, ci incontrammo alla Stazione Termini; ma poi più niente.
Io non so in quale reparto ospedaliero lavori e che tipo di assistenza faccia. Ma so una cosa: chiunque passerà sotto le sue manone piene di dita, il suo faccione sorridente, il suo naso che puzze non sente, sarà un paziente fortunato.
Quando riuscii a riprendere in mano la mia vita, Simone si eclissò, com'era giusto che fosse. Giusto un paio di Natale dopo, ci incontrammo alla Stazione Termini; ma poi più niente.
Io non so in quale reparto ospedaliero lavori e che tipo di assistenza faccia. Ma so una cosa: chiunque passerà sotto le sue manone piene di dita, il suo faccione sorridente, il suo naso che puzze non sente, sarà un paziente fortunato.
28 aprile 2020
Coronavirus, calzinaroli
Una dozzina di anni fa, qui a Testaccio mi si avvicina un venditore di calzini e mi chiede qualche soldo. Mentre frugo tra i miei spicci, mi sta appiccicato in maniera petulante; roba che se fossi stato leggermente nervoso gli avrei assestato una capocciata sullo sfenoide.
Appiccica che ti appiccica, mi scanso sensibilmente e gli dico: se tu vuoi che le persone ti diano dei soldi, devi chiederli una sola volta - e poi stare distante; se ti avvicini, crederanno che li vuoi derubare. Questo è un Rione piccolo: ci vuole poco per farti evitare da tutti.
Lui mi guardò sorridente, si spostò di un metro abbondante e mi porse la mano. Si beccò tutto il contenuto del mio zoccolo portaspicci.
Qualche giorno dopo, transitando dalla sede Rai di via Teulada a quella di viale Mazzini, mi sento apostrofare con un "Generale!". Considerato che ero pressoché solo lungo tutto il marciapiede, mi giro di scatto e me lo ritrovo davanti. A un metro abbondante di distanza, sorrisone stampato sul faccione e mano tesa. E però non poteva sapere che quando passo da una sede all'altra, porto con me solo il tesserino e lo smartphone; gli spicci rovinano le giacche, si sa.
Gli spiegai il mio rituale, sorrise e si girò dall'altra parte.
La mattina seguente, TAC!, me lo ritrovo di nuovo a Testaccio, mano tesa e sorrisone stampato. "Stavolta non mi freghi", avrà pensato; e, infatti, gli ho dovuto dare qualche spiccio.
Quando poi, verso l'ora di pranzo, me lo sono ritrovato sotto l'ufficio, non mi ha chiesto nulla: aveva immediatamente imparato che qui i soldi li becca, lì invece si attacca.
Si chiama Stephan; non so neanche se sia il suo vero nome. È senegalese, ma potrebbe anche essere ivoriano o del Congo. Ha una faccia da schiaffi come pochi, tanto che ha cominciato a insegnare agli altri suoi compagni di elemosina come ci si avvicina alle persone: "fai come mi ha detto il Generale e ti danno soldi". Io da grande volevo insegnare: in qualche modo, ho raggiunto il mio sogno.
E sono anni, ormai, che me lo ritrovo ovunque vada, come un'ombra gentile. Addirittura, quando sono a lavoro e mi incrocia insieme ad altre persone, mi saluta col bro fist, come fossimo due fratelli che hanno appena segnato il canestro della vita. Per lui sono sempre "Generale!", con quella leggera chiusura in salita sull'ultima E, per sottolineare un po' alla romana che mi sta riconoscendo per un ruolo di prestigio.
Lo so, lo so, chiamerà tutti così, ma a me piace pensare che siamo fratelli di uno spazio tutto nostro, un triangolo dell'immaginazione che va da Testaccio a Teulada, e da Teulada a Mazzini.
Silvia ed io li chiamiamo "calzinaroli": del resto hanno sempre dei calzini con loro, sempre gli stessi; mai che ne avessero venduto un paio. Però fanno parte dell'ecosistema di Testaccio: non passa weekend che non li incontriamo tutti e cinque, tanto che ormai in casa teniamo una sorta di fondo per loro, che poi doniamo in egual misura il sabato mattina.
Oltre a Stephan, c'è quello davanti a Linari ("Ciao, fratello!"), quello petulante ("Ciao signore"), quello vicino al garage ("Amiciii!") e lo spilungone di fronte al negozio dove trovate tutto. Oddio, quest'ultimo ha avuto problemi psicologici seri, serissimi; non riesco neanche ad immaginare quali soprusi abbia subito (o stia subendo).
So perfettamente che in molti sono contrari alle elemosina: da destra, per razzismo contro di "loro"; da sinistra, per razzismo contro quelli come me o mia moglie.
Onestamente, non mi interessa chiarirmi con nessuna delle due fazioni. Quello che mi preoccupa, semmai, è sapere come diamine vivano adesso, come riescano a mangiare, a spedire i soldi a casa; eventualmente, come facciano a curarsi, se vogliamo dirla tutta.
27 aprile 2020
Coronavirus, Satollo
Lei era snob, ma dolcemente snob. A suo modo graziosa, con quell'aria del "che ci faccio qui", tarata però su una forza interiore e una capacità di saper gestire ogni imprevisto.
Lui era esattamente il suo opposto. Dotato di quella pazienza eterna, tipica degli uomini leggermente tondi, riusciva a calibrare sapientemente la sua parte di adulto con quella di bambino che inevitabilmente noi maschi italiani abbiamo decisamente pronunciata.
Si mangiava bene da loro, veramente bene, così bene che anche il nome del loro locale recitava benissimo la sensazione che provavi una volta uscito: Satollo.
Ma non in maniera dinseyana. Era una sazietà alla Agnelli, che lasciava sempre qualcosa sul piatto perché così fanno i signori. Ecco, nel caso loro, erano le porzioni che si fermavano un attimo prima di diventare troppe o troppo poche, prima di scadere nel fighettismo di una certa cucina che ti fa pagare mille un carciofo pagato uno.
Era diventato un quasi ritrovo per chi ama mangiare ma anche stare in compagnia e godersi l'ambiente e quella leggera parvenza di musica che usciva da non so dove.
Se azzeccavi le serate giuste, sembrava di stare in un ritrovo di amici, di amici veri, anche se non ci si conosceva fino a due secondi prima.
Forse perché era a Testaccio, ma lontano dalle mode e dal localame che ha incrinato la dolce antichità dell'area intorno al Monte dei Cocci. Forse perché Chiara e Davide erano torinesi ma non troppo, romani ma non troppo, concilianti ma non troppo, sapienti ma non troppo.
Tutto in equilibrio, così in equilibrio, che per noi era IL nostro locale; roba che a volte ci seccava trovare altre persone. I due erano solo nostri e nostri dovevano restare.
Un bel giorno, però, decisero di andarsene via, quasi di nascosto, quasi con violenza. In effetti, il loro modello di business era fallimentare in partenza - tanta bontà a prezzi trattenuti, dopo un po' costa; il successo, insomma, tardava a venire. Inesorabile, poi, morire in quella zona di Testaccio così buia e isolata, soprattutto perché non si può vivere di solo passaparola... un po' come avere una trasmissione su Rai3 il venerdì sera; così chi è della Rai capisce meglio.
Adesso stanno in non so quale isola spagnola, isolani e isolati a contare il fior dei gentili anni venuti del loro piccolo figlio ormai grandicello.
Da una parte mi sono sentito quasi offeso, se non comunque meravigliato di una tale scelta così new age. Ragazzi così metropolitani e moderni che scappano dalla città per rifugiarsi dentro un ciottolo di pietra sperduto nell'Oceano dei Ricordi.
Che peccato. Che dolore. Che perdita.
Chissà come stanno passando questa quarantena.
Lui era esattamente il suo opposto. Dotato di quella pazienza eterna, tipica degli uomini leggermente tondi, riusciva a calibrare sapientemente la sua parte di adulto con quella di bambino che inevitabilmente noi maschi italiani abbiamo decisamente pronunciata.
Si mangiava bene da loro, veramente bene, così bene che anche il nome del loro locale recitava benissimo la sensazione che provavi una volta uscito: Satollo.
Ma non in maniera dinseyana. Era una sazietà alla Agnelli, che lasciava sempre qualcosa sul piatto perché così fanno i signori. Ecco, nel caso loro, erano le porzioni che si fermavano un attimo prima di diventare troppe o troppo poche, prima di scadere nel fighettismo di una certa cucina che ti fa pagare mille un carciofo pagato uno.
Era diventato un quasi ritrovo per chi ama mangiare ma anche stare in compagnia e godersi l'ambiente e quella leggera parvenza di musica che usciva da non so dove.
Se azzeccavi le serate giuste, sembrava di stare in un ritrovo di amici, di amici veri, anche se non ci si conosceva fino a due secondi prima.
Forse perché era a Testaccio, ma lontano dalle mode e dal localame che ha incrinato la dolce antichità dell'area intorno al Monte dei Cocci. Forse perché Chiara e Davide erano torinesi ma non troppo, romani ma non troppo, concilianti ma non troppo, sapienti ma non troppo.
Tutto in equilibrio, così in equilibrio, che per noi era IL nostro locale; roba che a volte ci seccava trovare altre persone. I due erano solo nostri e nostri dovevano restare.
Un bel giorno, però, decisero di andarsene via, quasi di nascosto, quasi con violenza. In effetti, il loro modello di business era fallimentare in partenza - tanta bontà a prezzi trattenuti, dopo un po' costa; il successo, insomma, tardava a venire. Inesorabile, poi, morire in quella zona di Testaccio così buia e isolata, soprattutto perché non si può vivere di solo passaparola... un po' come avere una trasmissione su Rai3 il venerdì sera; così chi è della Rai capisce meglio.
Adesso stanno in non so quale isola spagnola, isolani e isolati a contare il fior dei gentili anni venuti del loro piccolo figlio ormai grandicello.
Da una parte mi sono sentito quasi offeso, se non comunque meravigliato di una tale scelta così new age. Ragazzi così metropolitani e moderni che scappano dalla città per rifugiarsi dentro un ciottolo di pietra sperduto nell'Oceano dei Ricordi.
Che peccato. Che dolore. Che perdita.
Chissà come stanno passando questa quarantena.
24 aprile 2020
Coronavirus, cose da non dire o da non fare
Quando avevo deciso di intraprendere questo strano diario - con questa numerazione fuori registro rispetto al numero esatto di giorni di lockdown, sul mio whatsapp avevo scritto una serie di moniti, non ultimo "durante la quarantena, non fate/dite cose di cui vi vergognerete".
A prenderla alla larga, molto alla larga, lo dicevano anche gli Alan Parson Project in questa canzone.
Chi è malato cronico o ha passato lunghi momenti difficili capì immediatamente cosa intendevo. Più in generale, sono convinto che comunque stiate sicuramente pensando "effettivamente posso aver fatto o detto cose di cui adesso mi vergogno".
Intendiamoci, ci sono sempre momenti particolari in cui facciamo/diciamo cose di cui ci vergogneremo; ma in un momento così unico e cruciale come questo, diventeranno più pesanti; specie se queste azioni o queste parole hanno avuto qualcuno come spettatore o testimone.
Ora, qui vorrei presentare una serie di moniti in proiezione: cose da non dire o da non fare quando torneremo alla normalità.
Riguarda tutti noi.
UNO - Non rompete parlando dei drammi dei vostri figli. "Aaaah, tu che non sei padre non puoi capire cosa significhi stare dietro ai figli durante la Quarantena". Vero, verissimo. Poi penso alle baby prostitute di Serra Pelada e mi viene voglia di prenderti a sberle.
DUE - "Mio marito non mi ha mai aiutato a casa". Primo, non si "aiuta" a casa: le cose si fanno, insieme o distribuite, ma in parti uguali. Già che dici "aiuta", significa che sei tu per prima una maschilista.
TRE - Non dire che "è difficile rientrare", perché il lavoro ce l'hai, e stai in Europa, in un paese democratico e mollaccione pergiunta.
QUATTRO - Non te ne uscire con battute tipo "ah, sei stato in vacanza, eh!", sparando una risata ameboide che in Corea del Nord comporta immediati lavori forzati per almeno un lustro.
CINQUE - Evita la frase "lavorare in smartworking non è lavorare". Vero, infatti nelle case manca la macchinetta del caffè dove passi buona parte della giornata.
SEI - Non sei diventato Nobel in virologia. E sappi che tutti abbiamo un parente stretto che lavora in ospedale: io addirittura due.
SETTE - Non rompere il piripicchio con il 5G o con quel tuo essere anti vax: se qualcuno dei tuoi ha avuto la sfiga di beccarsi un problema dopo l'iniezione di un vaccino, è pura coincidenza.
OTTO - No razzismo, please. Non è colpa dei cinesi (o degli israeliani), ma di come ci comportiamo con l'Ambiente. E l'Ambiente non è il facile feticcio intoccabile di Greta.
NOVE - Sei vivo perché hai avuto fortuna: né Dio né la sfiga si sono accorti di te. Magari approfittane per sorridere alla vita e comportarti meglio con il prossimo.
DIECI - Continua a prendere l'acqua direttamente dal rubinetto dei bagni della Rai, dài!
A prenderla alla larga, molto alla larga, lo dicevano anche gli Alan Parson Project in questa canzone.
Chi è malato cronico o ha passato lunghi momenti difficili capì immediatamente cosa intendevo. Più in generale, sono convinto che comunque stiate sicuramente pensando "effettivamente posso aver fatto o detto cose di cui adesso mi vergogno".
Intendiamoci, ci sono sempre momenti particolari in cui facciamo/diciamo cose di cui ci vergogneremo; ma in un momento così unico e cruciale come questo, diventeranno più pesanti; specie se queste azioni o queste parole hanno avuto qualcuno come spettatore o testimone.
Ora, qui vorrei presentare una serie di moniti in proiezione: cose da non dire o da non fare quando torneremo alla normalità.
Riguarda tutti noi.
UNO - Non rompete parlando dei drammi dei vostri figli. "Aaaah, tu che non sei padre non puoi capire cosa significhi stare dietro ai figli durante la Quarantena". Vero, verissimo. Poi penso alle baby prostitute di Serra Pelada e mi viene voglia di prenderti a sberle.
DUE - "Mio marito non mi ha mai aiutato a casa". Primo, non si "aiuta" a casa: le cose si fanno, insieme o distribuite, ma in parti uguali. Già che dici "aiuta", significa che sei tu per prima una maschilista.
TRE - Non dire che "è difficile rientrare", perché il lavoro ce l'hai, e stai in Europa, in un paese democratico e mollaccione pergiunta.
QUATTRO - Non te ne uscire con battute tipo "ah, sei stato in vacanza, eh!", sparando una risata ameboide che in Corea del Nord comporta immediati lavori forzati per almeno un lustro.
CINQUE - Evita la frase "lavorare in smartworking non è lavorare". Vero, infatti nelle case manca la macchinetta del caffè dove passi buona parte della giornata.
SEI - Non sei diventato Nobel in virologia. E sappi che tutti abbiamo un parente stretto che lavora in ospedale: io addirittura due.
SETTE - Non rompere il piripicchio con il 5G o con quel tuo essere anti vax: se qualcuno dei tuoi ha avuto la sfiga di beccarsi un problema dopo l'iniezione di un vaccino, è pura coincidenza.
OTTO - No razzismo, please. Non è colpa dei cinesi (o degli israeliani), ma di come ci comportiamo con l'Ambiente. E l'Ambiente non è il facile feticcio intoccabile di Greta.
NOVE - Sei vivo perché hai avuto fortuna: né Dio né la sfiga si sono accorti di te. Magari approfittane per sorridere alla vita e comportarti meglio con il prossimo.
DIECI - Continua a prendere l'acqua direttamente dal rubinetto dei bagni della Rai, dài!
23 aprile 2020
Coronavirus, storia di una commessa
C'è un negozio qui a Testaccio che vende tutto. Letteralmente. A parte alimenti e beveraggio, trovate di tutto, di qualità e a costi contenuti. E anche con un certo ordine. Stavo per aggiungere "e grazia", ma avrei esagerato.
Fatto sta che se vuoi evitare le file (intendo quelle pre Covid-19) o se vai di fretta, è il negozio che fa per te.
Alla cassa puoi trovare la mi-credo-una-topa, l'emigrato che deve aver avuto certe mazzate sulle spalle che lèvati, la cassiera doc, la superalternativa.
Alla fine si riesce ad avere un rapporto con tutti, anche perché si vede lontano un miglio che Silvia ed io siamo una coppia collaudata, che si ama e si rispetta e rispetta. Non tendiamo né a strafare né a rompere né a prenderci troppe confidenze: si sceglie, si prende, si paga. E poi sono comunque grandi lavoratori, che si smazzano duramente senza fiatare o lamentarsi più di tanto.
Silvia ed io, però, avevamo un occhio per la superalternativa. Tonda, tondissima, capelli corti spesso colorati, piercing e tatuaggi in giusta misura, un'educazione romanesca decisamente autosevera, tanto che nonostante le nostre insistenze condite da spontaneo affetto, aveva una certa difficoltà a darci del "tu".
Parentesi: io per farmi la barba avrei bisogno di un machete affilato per ogni singolo pelo, per cui consumo una quantità considerevole di lamette. E, come sapete - anche se non vi fate la barba, le lamette costano parecchio.
Una settimana sì e una no, acquisto un pacchetto di lamette in questo negozio... ma una volta le lasciai lì sulla cassa. Per una serie di motivi non passammo per quindici giorni.
Una volta tornati, la superalternativa ci accolse con le lamette in mano: "avevate dimenticato queste". Io sono rimasto a bocca aperta per mesi, Silvia un po' di meno: e chi se l'aspettava?!
Fatto sta che da quel giorno siamo riusciti ad entrare dentro l'umanità di questa ragazza così speciale, dal sorriso sempre pronto - ma anche professionale, rapida, e pronta a chiudersi civilmente di fronte al primo rompicoglioni.
Qualche mese fa, Silvia ed io ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: "ehi, ma è un po' che non incrociamo quella ragazza? Non può essere che non siamo mai riusciti a incrociare i suoi turni!".
E allora sono andato a chiedere lumi all'extracomunitario: "l'hanno licenziata!". E perché mai? Era così perbene e civile! "Non so che dirle, ma dev'esserci stato qualcosa... io la vedo domani: se vuole ve la saluto". E certo che ce la saluti.
Qualche mese fa, Silvia ed io ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: "ehi, ma è un po' che non incrociamo quella ragazza? Non può essere che non siamo mai riusciti a incrociare i suoi turni!".
E allora sono andato a chiedere lumi all'extracomunitario: "l'hanno licenziata!". E perché mai? Era così perbene e civile! "Non so che dirle, ma dev'esserci stato qualcosa... io la vedo domani: se vuole ve la saluto". E certo che ce la saluti.
Chissà dove sta adesso questa superalternativa, chissà come sta passando la quarantena.
22 aprile 2020
Coronavirus, Franco il gangesterr
Sono ventuno anni che vivo a Testaccio e non l'ho mai visto invecchiare.
Mai.
Non l'ho mai visto stanco.
Nemmeno litigare con qualcuno o discutere animosamente.
Mai.
Ecco, a essere onesti ogni tanto litiga con le consonanti, tanto che nel nostro strampalato lessico famigliare, Silvia ed io lo abbiamo soprannominato "Ganghster", dove la seconda G è morbida come in "gioco": gangesterr, più o meno.
È che una volta lui ed io parlavamo del più e del meno, e lui definì alcuni loschi figuri della Testaccio anni '70 come dei gangesterr; e quando mi caschi su certe cose, per quanto io ti voglia bene, mi dispiace ma ti condanno col soprannome (del resto, domani parlerò della Cicciona, perché in lei vive il personaggio di BC).
In realtà si chiama Franco, ed è stato fedele solo alla sola donna che abbia mai avuto - e che morì giovanissima, ma dopo avergli donato tre figli: due maschietti e una femminuccia.
La femminuccia si chiama... Francesca (originale, eh?): piena di piercing e tatuaggi, agile, sveglia, vitale e sempre pronta a vedere tutto in proiezione. Mai una caduta... perché forse è caratterialmente abituata a rialzarsi subito.
I due maschi, onestamente non ricordo come si chiamino; e non perché essendo io un maschio ricordo solo i nomi di donne (maliziosi che siete!), ma perché ogni volta che gliel'ho chiesto hanno confabulato un "Sbrichoplosnoap" che sfido chiunque a decrittare.
Franco fa il fioraio da una vita.
Non credo abbia mai preso un solo giorno di ferie.
Lavora indefessamente dalla mattina alla sera, lasciando poi che durante la notte se la sbrighino due bengalesi: a Roma puoi occupare il suolo pubblico in circostanze azzeccacarbugliesche, e pagando molto; i fiorai ne sono esenti, a patto che svolgano contestualmente la loro attività.
Franco ha tre ciuffi di riporto: non si spostano neanche con un tornado F5 della Scala Fujita.
Freddo a caldo che faccia, indossa sempre e solo una camicia: manica sinistra arrotolata fino al gomito, la destra poco dopo il polso. Scarpe similclarks allacciate alla disperata. Pantaloni senza orlo che se fai tre passi inciampi e ti spacchi tutti i denti.
Ha due occhi celesti che vorrebbero parlarti per ore, e un bellissimo sorriso ancora giovane, a metà tra il primo Mastroianni e il Ferzetti dell'Avventura.
Il suo stato d'animo è sempre in bilico tra la figlia furiosa e viva e i due ragazzi che sommessamente rimpiangono storie d'amore finite da un pezzo Insomma, lui non sa di avere una battaglia interiore tra il vivere la vita o soccombere alla depressione. Ma dopo un po' chi gli sta accanto se ne accorge.
Quello che vedo io è un uomo buono, dolce, gran lavoratore, innamorato della figlia e dei nipoti - e sempre alla ricerca dello spirito della moglie, che sicuramente in questi giorni gli starà più vicino per coccolarlo a dovere.
Mai.
Non l'ho mai visto stanco.
Nemmeno litigare con qualcuno o discutere animosamente.
Mai.
Ecco, a essere onesti ogni tanto litiga con le consonanti, tanto che nel nostro strampalato lessico famigliare, Silvia ed io lo abbiamo soprannominato "Ganghster", dove la seconda G è morbida come in "gioco": gangesterr, più o meno.
È che una volta lui ed io parlavamo del più e del meno, e lui definì alcuni loschi figuri della Testaccio anni '70 come dei gangesterr; e quando mi caschi su certe cose, per quanto io ti voglia bene, mi dispiace ma ti condanno col soprannome (del resto, domani parlerò della Cicciona, perché in lei vive il personaggio di BC).
In realtà si chiama Franco, ed è stato fedele solo alla sola donna che abbia mai avuto - e che morì giovanissima, ma dopo avergli donato tre figli: due maschietti e una femminuccia.
La femminuccia si chiama... Francesca (originale, eh?): piena di piercing e tatuaggi, agile, sveglia, vitale e sempre pronta a vedere tutto in proiezione. Mai una caduta... perché forse è caratterialmente abituata a rialzarsi subito.
I due maschi, onestamente non ricordo come si chiamino; e non perché essendo io un maschio ricordo solo i nomi di donne (maliziosi che siete!), ma perché ogni volta che gliel'ho chiesto hanno confabulato un "Sbrichoplosnoap" che sfido chiunque a decrittare.
Franco fa il fioraio da una vita.
Non credo abbia mai preso un solo giorno di ferie.
Lavora indefessamente dalla mattina alla sera, lasciando poi che durante la notte se la sbrighino due bengalesi: a Roma puoi occupare il suolo pubblico in circostanze azzeccacarbugliesche, e pagando molto; i fiorai ne sono esenti, a patto che svolgano contestualmente la loro attività.
Franco ha tre ciuffi di riporto: non si spostano neanche con un tornado F5 della Scala Fujita.
Freddo a caldo che faccia, indossa sempre e solo una camicia: manica sinistra arrotolata fino al gomito, la destra poco dopo il polso. Scarpe simil
Ha due occhi celesti che vorrebbero parlarti per ore, e un bellissimo sorriso ancora giovane, a metà tra il primo Mastroianni e il Ferzetti dell'Avventura.
Il suo stato d'animo è sempre in bilico tra la figlia furiosa e viva e i due ragazzi che sommessamente rimpiangono storie d'amore finite da un pezzo Insomma, lui non sa di avere una battaglia interiore tra il vivere la vita o soccombere alla depressione. Ma dopo un po' chi gli sta accanto se ne accorge.
Quello che vedo io è un uomo buono, dolce, gran lavoratore, innamorato della figlia e dei nipoti - e sempre alla ricerca dello spirito della moglie, che sicuramente in questi giorni gli starà più vicino per coccolarlo a dovere.
21 aprile 2020
Coronavirus, l'Innominata
Pioveva. Ma pioveva di brutto.
Del resto Roma è tra le città più piovose d'Europa, addirittura prima di Londra. La nostra è una pioggia cafona, grossolana, pesante e dirompente; quella di Londra, invece, è come i loro volti cavallini, vaporosa e fighetta.
Insomma, pioveva che avresti dovuto tarare il tergicristallo ben oltre il limite massimo previsto.
Chi è di Testaccio sa perfettamente che è mille volte meglio percorrere via Vespucci invece del Lungotevere; anche ad agosto, quando ci sono pochissime auto, risparmi almeno cinque minuti di tempo, se non addirittura dieci, quando cioè il traffico è pesante.
Certo, corri il rischio di trovarti una botticella davanti o la solita mammetta accompagna-figli-che-va-lenta-e-se-ne-frega-del-mondo; ma sono rischi calcolati.
Fatto sta che il semaforo di via Vespucci è ben che pericoloso: pedoni che attraversano col rosso e che vedi all'ultimo momento, amministratori delegati del verduraio che posso passare col rosso da via Marmorata, poliziotti e autisti Atac che possono tagliarti la strada perché dal lungotevere decidono di tagliare verso Ponte Sublicio.
Pioveva. Pioveva di brutto.
E quando piove, al centro dell'incrocio si forma un immenso pozzangherone, che se ci peschi dentro ritrovi il rasoio e i preservativi di Romolo.
Il semaforo è rosso.
Ripasso con la mente tutti i rischi, dicendomi che con questa pioggia figurati se qualcuno si azzarda a fare manovre improvvise. Tant'è che i pedoni stavano fermi sotto i cornicioni, da via Marmorata era una gara a chi si fermava prima del pozzangherone, dal lungotevere addirittura evitavano di guadare quel pozzangherone.
Mi mancava la sola parte che non vi ho elencato: quelli che vengono da Ponte Sublic... mortacci sua! Un deficiente con una Ritimo anteguerra passa a palla col rosso pieno e mi sfiora così da vicino che partono i suoni dell'allarme di prossimità, quello che ti aiuta per i parcheggi (o per uccidere pedoni stupidi, a scelta). Insomma, avevo rischiato brutto. Così brutto che il tipo dietro a me mi fece un cenno tipo "hai avuto culo, eh?".
Ma perché avevo rischiato così tanto?
Perché poco prima avevo incontrato l'Innominata!
Ora: io sono totalmente opposto al "non è vero ma ci credo", perché trovo addirittura intollerabile una cedevolezza simile; mi urta il sistema nervoso. La sfiga non esiste, la sfortuna nemmeno, la superstizione è la debolezza degli ultimi.
Però: ogni volta che incontro l'Innominata, mi accade sempre qualcosa di brutto. Sempre.
Oltretutto, quel giorno mi aveva salutato con un bel: "io non capisco chi non crede in dio: prima o poi gli capiterà qualcosa e allora crederà in dio".
In effetti si alimenta di queste piccolezze: la vedi sempre lì col suo vocione a parlar male di tutti, di tutto, a lamentarsi, a cercare approvazione anche e solo con lo sguardo.
Onestamente mi fa una tenerezza infinita, anche se stento ad immaginare che una volta, qualche cretaceo fa, sia stata una giovane, magari piena di aspettative e speranze.
È il ritratto di Dorian Gray di se stessa: lisa di rancori e giudizi, nasconde sicuramente da qualche parte anche una certa dolcezza... che poi il volto le si illumina giusto quando parla del figlio (che - diciamolo - non è proprio uno stinco di santo).
Però, e alla fine, fa parte dell'ecosistema di Testaccio.
Anzi, sotto molti aspetti preferisco questo suo modo semplice, esplicito e diretto di odiare il Pianeta, piuttosto che quelli che entrano da Linari con il Foglio o Internazionale sotto braccio, e hanno parcheggiato in doppia fila davanti al posto riservato ai disabili.
Testaccio è anche l'Innominata... sperando sempre di non incontrarla, s'intende.
Chissà come starà passando questa quarantena.
Del resto Roma è tra le città più piovose d'Europa, addirittura prima di Londra. La nostra è una pioggia cafona, grossolana, pesante e dirompente; quella di Londra, invece, è come i loro volti cavallini, vaporosa e fighetta.
Insomma, pioveva che avresti dovuto tarare il tergicristallo ben oltre il limite massimo previsto.
Chi è di Testaccio sa perfettamente che è mille volte meglio percorrere via Vespucci invece del Lungotevere; anche ad agosto, quando ci sono pochissime auto, risparmi almeno cinque minuti di tempo, se non addirittura dieci, quando cioè il traffico è pesante.
Certo, corri il rischio di trovarti una botticella davanti o la solita mammetta accompagna-figli-che-va-lenta-e-se-ne-frega-del-mondo; ma sono rischi calcolati.
Fatto sta che il semaforo di via Vespucci è ben che pericoloso: pedoni che attraversano col rosso e che vedi all'ultimo momento, amministratori delegati del verduraio che posso passare col rosso da via Marmorata, poliziotti e autisti Atac che possono tagliarti la strada perché dal lungotevere decidono di tagliare verso Ponte Sublicio.
Pioveva. Pioveva di brutto.
E quando piove, al centro dell'incrocio si forma un immenso pozzangherone, che se ci peschi dentro ritrovi il rasoio e i preservativi di Romolo.
Il semaforo è rosso.
Ripasso con la mente tutti i rischi, dicendomi che con questa pioggia figurati se qualcuno si azzarda a fare manovre improvvise. Tant'è che i pedoni stavano fermi sotto i cornicioni, da via Marmorata era una gara a chi si fermava prima del pozzangherone, dal lungotevere addirittura evitavano di guadare quel pozzangherone.
Mi mancava la sola parte che non vi ho elencato: quelli che vengono da Ponte Sublic... mortacci sua! Un deficiente con una Ritimo anteguerra passa a palla col rosso pieno e mi sfiora così da vicino che partono i suoni dell'allarme di prossimità, quello che ti aiuta per i parcheggi (o per uccidere pedoni stupidi, a scelta). Insomma, avevo rischiato brutto. Così brutto che il tipo dietro a me mi fece un cenno tipo "hai avuto culo, eh?".
Ma perché avevo rischiato così tanto?
Perché poco prima avevo incontrato l'Innominata!
Ora: io sono totalmente opposto al "non è vero ma ci credo", perché trovo addirittura intollerabile una cedevolezza simile; mi urta il sistema nervoso. La sfiga non esiste, la sfortuna nemmeno, la superstizione è la debolezza degli ultimi.
Però: ogni volta che incontro l'Innominata, mi accade sempre qualcosa di brutto. Sempre.
Oltretutto, quel giorno mi aveva salutato con un bel: "io non capisco chi non crede in dio: prima o poi gli capiterà qualcosa e allora crederà in dio".
In effetti si alimenta di queste piccolezze: la vedi sempre lì col suo vocione a parlar male di tutti, di tutto, a lamentarsi, a cercare approvazione anche e solo con lo sguardo.
Onestamente mi fa una tenerezza infinita, anche se stento ad immaginare che una volta, qualche cretaceo fa, sia stata una giovane, magari piena di aspettative e speranze.
È il ritratto di Dorian Gray di se stessa: lisa di rancori e giudizi, nasconde sicuramente da qualche parte anche una certa dolcezza... che poi il volto le si illumina giusto quando parla del figlio (che - diciamolo - non è proprio uno stinco di santo).
Però, e alla fine, fa parte dell'ecosistema di Testaccio.
Anzi, sotto molti aspetti preferisco questo suo modo semplice, esplicito e diretto di odiare il Pianeta, piuttosto che quelli che entrano da Linari con il Foglio o Internazionale sotto braccio, e hanno parcheggiato in doppia fila davanti al posto riservato ai disabili.
Testaccio è anche l'Innominata... sperando sempre di non incontrarla, s'intende.
Chissà come starà passando questa quarantena.
20 aprile 2020
Coronavirus, un vecchio e la figlia
Lo incrociavo spesso quando ancora si affittavano i dvd a cento metri da casa mia. Ormai in pensione, si divertiva a girare tra le copertine dei dvd, giusto per farsi quattro chiacchiere con i ragazzi. Ma non credo andasse nella stanza rossa, là dove regnavano Rocco e i suoi fratelli... non quelli di Visconti, l'avrete capito.
Con me scambiava poche chiacchiere, ma mi chiedeva sempre come stavo, come andava la causa con la Rai, come stava mia moglie. Sembrava sempre molto attento, quasi appassionato della vita degli altri. E quando lo incontravo per strada - almeno una volta al giorno, sembrava una festa tra amici.
Un bel giorno, mentre attraversava la piazza di Testaccio appena rimessa a nuovo, fu colpito sulla nuca da una pallonata. Proferì poche parole di dolore. Il genitore del bimbo neanche gli chiese scusa; tenendo conto, poi, che non solo lì è vietato giocare a palla, ma che a Testaccio ci sono almeno due enormi aree attrezzate per i bimbi che vogliono giocare a calcio... vabbè, lasciamo perdere.
Insomma, la pallonata gli staccò la retina, e di brutto. Per mesi andava in giro con la benda sull'occhio. Poi è guarito...
Ma c'è qualcosa che non vi ho detto. Forse apposta, forse perché andrebbe raccontata insieme: con un occhio dovreste leggere una storia, e con l'altro il suo opposto.
La figlia di questo piccolo uomo con capelli impomatati e le rughe dolci, è un'alcolista.
Un contrasto così stridente e doloroso che onestamente non saprei come metterli insieme.
Ovvio: un uomo in pubblico è una cosa e in privato è un'altra. Ma non è questo il punto, anche perché rischiamo di prendere posizione senza sapere nulla.
Ovvio: un uomo in pubblico è una cosa e in privato è un'altra. Ma non è questo il punto, anche perché rischiamo di prendere posizione senza sapere nulla.
Posso giusto immaginare cosa diamine gli passi per la testa, anche se poi io ho delle sovrastrutture che lui potrebbe anche non avere.
E posso anche immaginare mille storie dietro la vita di lei, invece. Le narrazioni non mancano, insomma.
E posso anche immaginare mille storie dietro la vita di lei, invece. Le narrazioni non mancano, insomma.
Certo è che non sono mancate le volte in cui abbiamo dovuto chiamare la polizia: quando sfregiava le auto in sosta, o quando boccheggiava sotto la pioggia tipo insetto sulla schiena che non riesce ad alzarsi.
L'altro giorno l'ho vista biascicare qualcosa a una pattuglia, che chiaramente aveva ben altro cui dedicarsi; tanto che uno dei due poliziotti l'ha trattata proprio male, come un'ubriacona da buttare nella spazzatura. Che pena. Che pena infinita.
Due giorni dopo era in fila con noi, ma il pizzicagnolo le ha detto che non le avrebbe venduto la birra. Lei lo ha sfanculato e poi si è girata quasi cadendo; aveva i jeans sporchi di piscio.
L'altro giorno l'ho vista biascicare qualcosa a una pattuglia, che chiaramente aveva ben altro cui dedicarsi; tanto che uno dei due poliziotti l'ha trattata proprio male, come un'ubriacona da buttare nella spazzatura. Che pena. Che pena infinita.
Due giorni dopo era in fila con noi, ma il pizzicagnolo le ha detto che non le avrebbe venduto la birra. Lei lo ha sfanculato e poi si è girata quasi cadendo; aveva i jeans sporchi di piscio.
Ogni giorno barcolla intorno ai nostri palazzi come se niente fosse. Mentre questo strano virus miete vittime e posti di lavoro, lei galleggia, sopravvive, vaga senza meta tra le nostre ombre.
17 aprile 2020
Coronavirus, il Roscio
Stava sempre davanti all'edicola di Mauro, fisso come un lampione, lì sulla sinistra.
Appena arrivavo verso le 7:40, mezz'inchino e mille domande sulla Rai.
Onestamente non ho mai saputo che nome avesse, né tantomeno cosa diamine facesse per mantenersi.
Mi ricordava certi ragazzetti dei film irlandesi, con capelli spettinati che hanno litigato col barbiere, un sorriso sempre aperto alle cose più semplici della vita, di quelli che nei gruppi stanno simpatici a tutti.
Conosceva tutti a Testaccio, ma proprio tutti. E non faceva nulla per nascondere i suoi oltre 60 anni: con un viso così rubizzo poteva sembrare mio fratello o mio nonno.
Lo vedevi spesso fumare e parlottare al bar più frequentato del Rione, seduto fuori con quelli che almeno una volta nella vita si erano fatti i tre scalini di Regina Coeli, spesso per motivi per cui oggi neanche ti fanno la multa.
Gente con ex muscoli sulle braccia, che di ceffoni ne avevano tirati e presi. Omoni con le mani piene di dita che adesso soccombevano alla presbiopia o alla calvizie, nascondendo gli occhiali da lettura dietro quelli da sole o tingendosi i tre capelli rimasti con lucido da scarpe comprato dai cinesi.
Gente de' popolo che guardava mia moglie e il sottoscritto con una curiosa miscela di bonaria tolleranza: noi, borghesucci viziati, perbene, profumati, laureati... figuriamoci noi della Rai, osservati a distanza come bestie rare - da amare e odiare al tempo stesso.
Un giorno, il Roscio non riesce più a scaricare uno dei suoi giochetti preferiti dallo smartphone. Mi chiede aiuto. Ma poi chiede anche aiuto a mia moglie per un problema sulla carta di credito.
Era anche un po' in imbarazzo perché tra le foto conservate c'erano anche quelle della figlia: temeva che avremmo pensato fossero di origine dubbia... figuriamoci, un pezzo di pane così che perde tempo dietro donnine svestite.
Insomma, in dieci minuti riusciamo a svolgere i nostri favori con perizia e affidabilità. Lui ci guarda come se avessimo inventato la penicillina, ci offre due ciambelle grosse come uno stadio e un caffè bollente. Ci ringrazia in maniera plateale, davanti ai suoi amici, che immediatamente cambiano sguardo: da oscuri rappresentanti di una classe fastidiosa diventiamo gli eroi della giornata, della settimana, del mese e dell'anno.
Da quel giorno, ogni volta che lo incontravo, il Roscio si sbracciava sorridente con tanto affetto e amicizia. E io mi sentivo veramente fuori da questa autenticità, che invece farebbe tanto bene alla mia presunzione.
Sono almeno cinque anni che il Roscio vive fuori Roma.
Chissà come sta vivendo questa quarantena.
Chissà come sta vivendo questa quarantena.
16 aprile 2020
luis sepulveda
Nel 1995 la sarcoidosi si presentò nel mio organismo senza fiatare: dal 5 maggio in poi, fu un susseguirsi di problemi di salute sempre più gravi e dolorosi.
Soprattutto perché passai almeno cinque mesi circondato da un'inconsistenza medica dovuta al semplice fatto che nessuno aveva capito cosa avessi, né come mai i risultati delle analisi fornissero informazioni contraddittorie, a volte sconvolgenti.
Lì scoprii la mia capacità di resistere alle difficoltà.
Leggevo.
Leggevo parecchio. Almeno un libro al giorno.
E fu in quei giorni che lo scoprii.
Quella sua scrittura così asciutta ma evocativa, dove il lettore è al centro della narrazione e le storie lo circondano con affetto e empatia.
Era una lettura agile ma anche avvolgente, dove sentivi accanto a te l'odore delle sigarette fumate dallo scrittore, quell'alito che dalle 6 del pomeriggio sa anche di birra e amicizia, che ci sono tante cose da dirti e devi fermarti a ogni pagina per girarti intorno e cercare il volto di chi sta scrivendo.
Era un omone enorme.
O almeno così mi sembrò quando lo incontrai una volta uscito da uno dei miei ciclici ricoveri. Era un incontro letterario, dove in genere si fanno domande ripetute e ripetitive.
Appena finito l'incontro, gli andai incontro. Mi accolse con uno sguardo storto ma anche curioso. Quando la traduttrice gli chiarì perché gli dovevo tanto, sorrise: con la sua mano piena di dita afferrò una penna e mi autografò Il mondo alla fine del mondo.
Ne lessi un altro paio, ma poi l'ho perso di vista. Forse perché quando un amico ti è stato inconsapevolmente così accanto quando stavi proprio male, dopo quasi ti vergogni di quello che sei stato con lui, dei tuoi cedimenti, del tuo esserti affidato totalmente a lui.
Ovvio che lui tutto questo non poteva saperlo, ma il patto che lettore e scrittore stringono è un patto che non puoi spiegare in alcun modo.
Continuavo a comprare i suoi libri anche se sapevo che non li avrei più letti: era un modo come un altro per dirgli "grazie".
Oggi è morto, Luis Sepulveda è morto.
E mi dispiace tantissimo.
Soprattutto perché passai almeno cinque mesi circondato da un'inconsistenza medica dovuta al semplice fatto che nessuno aveva capito cosa avessi, né come mai i risultati delle analisi fornissero informazioni contraddittorie, a volte sconvolgenti.
Lì scoprii la mia capacità di resistere alle difficoltà.
Leggevo.
Leggevo parecchio. Almeno un libro al giorno.
E fu in quei giorni che lo scoprii.
Quella sua scrittura così asciutta ma evocativa, dove il lettore è al centro della narrazione e le storie lo circondano con affetto e empatia.
Era una lettura agile ma anche avvolgente, dove sentivi accanto a te l'odore delle sigarette fumate dallo scrittore, quell'alito che dalle 6 del pomeriggio sa anche di birra e amicizia, che ci sono tante cose da dirti e devi fermarti a ogni pagina per girarti intorno e cercare il volto di chi sta scrivendo.
Era un omone enorme.
O almeno così mi sembrò quando lo incontrai una volta uscito da uno dei miei ciclici ricoveri. Era un incontro letterario, dove in genere si fanno domande ripetute e ripetitive.

Ne lessi un altro paio, ma poi l'ho perso di vista. Forse perché quando un amico ti è stato inconsapevolmente così accanto quando stavi proprio male, dopo quasi ti vergogni di quello che sei stato con lui, dei tuoi cedimenti, del tuo esserti affidato totalmente a lui.
Ovvio che lui tutto questo non poteva saperlo, ma il patto che lettore e scrittore stringono è un patto che non puoi spiegare in alcun modo.
Continuavo a comprare i suoi libri anche se sapevo che non li avrei più letti: era un modo come un altro per dirgli "grazie".
Oggi è morto, Luis Sepulveda è morto.
E mi dispiace tantissimo.
15 aprile 2020
Coronavirus, la Signora Confettina
Non proprio in mezzo, in verità.
Però sapevi che quando giravi per quella curva da via Franklin a destra su via Bodoni, la intravedevi con la coda dell'occhio e dovevi mantenere l'auto verso il centro della carreggiata, altrimenti rischiavi di metterla sotto.
Se incrociavi il suo sguardo, sorrideva.
Fuori dal tempo, sorrideva.
Percorreva un suo personalissimo tragitto accanto alle auto parcheggiate, tenendo un passo felpato e lento, molto lento. Poi rientrava sul marciapiede solo all'altezza della chiesa.
Sempre vestita di rosa confetto.
Io la chiamavo la Signora Confettina, e nell'intero Rione più o meno tutti si riferivano a lei citando quel suo vestito tipo spiaggia di Vendicari in un film ottocentesco di Visconti.
Inverno, Estate, pioggia o vento, sempre lì a farsi la sua bella passeggiata, sorridendo e pensando alle sue nuvole.
Chissà come sta vivendo questa quarantena.
14 aprile 2020
zombie
Mi si aggrappa alle gambe.
Sono in dormiveglia.
"Che fai? Provi ad agguantarmi come lo zombie dell'ascensore?"
"E cosa è lo zombie dell'ascensore?!"
"Nel secondo film di Romero sui morti viventi, bellissimo e prodotto da Dario Argento, uno dei protagonisti sta chiuso in ascensore. Quando si aprono le porte, lui prova a fuggire salendo sopra il soffitto dell'ascensore, ma uno zombie lo agguanta e lo morde..."
"E muore?!"
"Sì, e poi diventa zombie"
"Beh, ma se divento zombie e poi ti mordo la mano, diventi zombie anche tu..."
"Sì..."
"Però poi restiamo comunque insieme... e ci teniamo per mano"
"A parte il fatto che se mi hai morso, della mia mano sarà rimasto ben poco..."
"..."
"... ma poi gli zombie non si riconoscono"
"Ah, non si riconoscono tra loro... se diventiamo zombie, non restiamo insieme?"
"Potremmo pure restare insieme, ma non ci riconosceremo tra noi, né con i tuoi genitori o i tuoi nipoti"
"Ah... allora è meglio non diventare zombie"
"Meglio, sì"
Sono in dormiveglia.
"Che fai? Provi ad agguantarmi come lo zombie dell'ascensore?"
"E cosa è lo zombie dell'ascensore?!"
"Nel secondo film di Romero sui morti viventi, bellissimo e prodotto da Dario Argento, uno dei protagonisti sta chiuso in ascensore. Quando si aprono le porte, lui prova a fuggire salendo sopra il soffitto dell'ascensore, ma uno zombie lo agguanta e lo morde..."
"E muore?!"
"Sì, e poi diventa zombie"
"Beh, ma se divento zombie e poi ti mordo la mano, diventi zombie anche tu..."
"Sì..."
"Però poi restiamo comunque insieme... e ci teniamo per mano"
"A parte il fatto che se mi hai morso, della mia mano sarà rimasto ben poco..."
"..."
"... ma poi gli zombie non si riconoscono"
"Ah, non si riconoscono tra loro... se diventiamo zombie, non restiamo insieme?"
"Potremmo pure restare insieme, ma non ci riconosceremo tra noi, né con i tuoi genitori o i tuoi nipoti"
"Ah... allora è meglio non diventare zombie"
"Meglio, sì"
10 aprile 2020
Coronavirus, l'avevo previsto
Adesso, a distanza di tempo, posso dirlo senza sembrare cinico o opportunista: tutto quello che stiamo vivendo, io l'avevo previsto nel mio romanzo "L'ombra dietro al muro".
A suo tempo la presentazione puntava sulle reali intenzioni del mio testo: raccontare a mio modo quello che provo per la mia signora; e l'unico modo che conosco è usare le mille passioni che affollano il mio psicostrambo cervello e disporle come un romanzo fantapoetico.
Va detto che fantapoetico è una definizione di una mia collega, che peraltro mi garantì grande pubblicità tra le sue amicizie influenti, ma poi se ne dimenticò.
Certo, adesso potrei modificare la presentazione con un furbo ammiccare a quanto sta accadendo, magari con un riferimento letterario che ancora nessuno ha usato: l'amore ai tempi del coronavirus... originale, eh?
In estrema sintesi: per non si sa quale motivo, tutte le persone cominciano a sparire; al loro posto, delle amimiche entità che io chiamo "quelli là". Purtroppo, però, sparisce anche mia moglie.
Nella seconda parte del testo, la cerco disperatamente finché non mi imbatto in un gruppo di resistenti, che però... eccetera eccetera.
Onestamente, sembra più avventuroso a raccontarlo così che a leggerlo. Anzi, abuso di varie sperimentazioni letterarie e di citazioni più o meno colte (l'aereo che passa, il telefono che squilla, l'elenco telefonico), che ai più possono (giustamente!) sfuggire, ma che a me diverte un mondo buttare là... addirittura l'orario della sveglia è un omaggio a un filmetto di Zack Snider, butto dentro anche una frase di Byron e molte altre cose.
La grande soddisfazione che registrai fu una richiesta di mio suocero: per il suoi 70 anni volle regalarne una copia ad ognuno degli invitati... da quel giorno non gli rivolgono più la parola :-)
Il romanzo finisce e non finisce. Ma non è questo il punto: il punto è che molte cose che rendo come allegoriche, qui stanno accadendo sul serio.
Non è un invito all'acquisto, per carità, ma almeno mi sono tolto la soddisfazione di dirlo.
Del resto, in un altro romanzo di molti anni fa ipotizzavo lo streaming e l'e-book prima ancora che se ne parlasse così diffusamente come in questi ultimi lustri.
Una cosa è certa: auguriamoci che nella realtà non si finisca tutti qui assediati a Testaccio, come nel romanzo, perché col cavolo che smonto le mie librerie per farvi dormire a casa mia...
09 aprile 2020
Coronavirus, il vero dopo
Ancora oggi ricordo nitidamente una scena del terzo ciclo di Heimat. Per raccontare la Caduta del Muro, Reitz segue un'auto mentre percorre una strada provinciale. Una mano tiene fuori una bandiera tedesca mezza scalcinata. È girata con un bianco e nero molto anni '70. La musica è in crescendum. All'improvviso diventa tutto colorato e la musica esplode incontenibile e gioiosa.
Basta. Solo questa scena.
Con un semplice espediente, il regista tedesco ha detto tutto.
Tutto.
Noi siamo soli sul cuor delle nostre stanze, vedendo un frammento della realtà vera, vivendo un isolamento tutto nostro, immaginando una cronaca degli eventi che non esiste o che comunque è filtrata da immaginazione-film-letture-dicerie-speranze.
Abbiamo il deserto dei tartari dentro le nostre televisioni e speriamo di poter dare un significato retorico a questa imminente fine dell'incubo.
Già, abbiamo sempre un bisogno quasi ancestrale di un'inquadratura definitiva che soddisfi la nostra immaginazione.
Ma qui, in questo caso, quando inizierà il vero dopo?
Forse quando stringeremo senza timori la mano di uno sconosciuto?!
Oppure quando abbracceremo un parente che non abbiamo visitato per anni?!
E quante volte ne parleremo con gli altri, che a loro volta avranno l'impellente necessità di dire una loro realtà, forse tentando di superare la nostra o di esorcizzare la loro?
Insomma: con quale simbolo questa stranissima vicenda resterà nei nostri ricordi?
Le bare di Bergamo? No, quella è una storia di un fallimento, uno dei tanti. Il Presidente di una Regione incapace di indossare una mascherina? No, troppo politicizzato. La gente che applaude dalle finestre? No, troppo pastasciutta, troppo italiano. La mascherina in faccia a qualche modella improvvisata? No, perché è una barricata resa male.
Un esempio? Nei film e nelle narrazioni esiste un modo molto semplice e potente per ambientare un prima 11 settembre e un dopo 11 settembre: un'inquadratura dello skyline di Manhattan.
Ma qui, che espediente useremo?
Dobbiamo trovare qualcosa di retorico, presto! Prima che tutto si trasformi in banalità.
Con un semplice espediente, il regista tedesco ha detto tutto.
Tutto.
Noi siamo soli sul cuor delle nostre stanze, vedendo un frammento della realtà vera, vivendo un isolamento tutto nostro, immaginando una cronaca degli eventi che non esiste o che comunque è filtrata da immaginazione-film-letture-dicerie-speranze.
Abbiamo il deserto dei tartari dentro le nostre televisioni e speriamo di poter dare un significato retorico a questa imminente fine dell'incubo.
Già, abbiamo sempre un bisogno quasi ancestrale di un'inquadratura definitiva che soddisfi la nostra immaginazione.
Ma qui, in questo caso, quando inizierà il vero dopo?
Forse quando stringeremo senza timori la mano di uno sconosciuto?!
Oppure quando abbracceremo un parente che non abbiamo visitato per anni?!
E quante volte ne parleremo con gli altri, che a loro volta avranno l'impellente necessità di dire una loro realtà, forse tentando di superare la nostra o di esorcizzare la loro?
Insomma: con quale simbolo questa stranissima vicenda resterà nei nostri ricordi?
Le bare di Bergamo? No, quella è una storia di un fallimento, uno dei tanti. Il Presidente di una Regione incapace di indossare una mascherina? No, troppo politicizzato. La gente che applaude dalle finestre? No, troppo pastasciutta, troppo italiano. La mascherina in faccia a qualche modella improvvisata? No, perché è una barricata resa male.
Un esempio? Nei film e nelle narrazioni esiste un modo molto semplice e potente per ambientare un prima 11 settembre e un dopo 11 settembre: un'inquadratura dello skyline di Manhattan.
Ma qui, che espediente useremo?
Dobbiamo trovare qualcosa di retorico, presto! Prima che tutto si trasformi in banalità.
08 aprile 2020
Coronavirus, prendiamoci a ceffoni
Il Covid-19 si è portato via anche Lee Fierro.
Non la conoscete?
Invece, sì.
In quel sublime capolavoro che è Lo Squalo (1975; il cui titolo originale era Fauci, decisamente più inquietante), interpreta la mamma del bimbo divorato dal pescione mentre sta sul materassino giallo (scena notissima tra i nerd anche per un uso del dolly zoom da manuale).
Quando capisce che Brody era già al corrente della presenza dello squalo, gli va incontro e gli dà un ceffone. Roba che qui a Roma gli avremmo spezzato gambe, braccia, naso e denti. Insomma, una signora dignitosissima, nonostante un dolore così incommensurabile.
Ebbene, leggendo qui sotto, dovremmo fare una gara per prenderci a ceffoni tutti quanti.
Sono dati ISTAT
💻 Il 33,8% delle famiglie non ha computer o tablet a casa
🏠Il 41,9% dei minori vive in condizioni di sovraffollamento
Andando oltre gli schemini (che possono non dire tanto): la percentuale di famiglie senza computer supera il 41% nel Mezzogiorno, con Calabria e Sicilia in testa (rispettivamente 46% e 44,4%), ed è circa il 30% nelle altre aree del Paese.
Andiamo oltre?
Nei primi sei mesi del 2019 l‘imponibile evaso in Italia è cresciuto del 3,8% con punte record nel Nord dove ha raggiunto il 5,1%.
In termini di imposte sottratte all’erario siamo nell’ordine di 181,4 miliardi di euro l’anno
Come ciliegina sulla torta, ecco il link per leggere Le previsioni per l’Italia. Quali condizioni per la tenuta ed il rilancio dell’economia? A cura del Centro Studi di Confindustria.
E quindi?
Non la conoscete?
Invece, sì.
In quel sublime capolavoro che è Lo Squalo (1975; il cui titolo originale era Fauci, decisamente più inquietante), interpreta la mamma del bimbo divorato dal pescione mentre sta sul materassino giallo (scena notissima tra i nerd anche per un uso del dolly zoom da manuale).
Quando capisce che Brody era già al corrente della presenza dello squalo, gli va incontro e gli dà un ceffone. Roba che qui a Roma gli avremmo spezzato gambe, braccia, naso e denti. Insomma, una signora dignitosissima, nonostante un dolore così incommensurabile.
Ebbene, leggendo qui sotto, dovremmo fare una gara per prenderci a ceffoni tutti quanti.
Sono dati ISTAT
💻 Il 33,8% delle famiglie non ha computer o tablet a casa
‣ Il 41,6% tra quelle residenti al Sud
‣ Il 39,9% nei comuni fino a duemila abitanti
‣ ll 14,3% tra quelle con almeno un minore
🤳🏻 Il 92,2% dei 14-17enni ha usato internet negli ultimi 3 mesi
‣ Il 30,2% ha alte competenze digitali
‣ Il 3% non ha alcuna competenza digitale
📚 Il 52,1% dei 6-17enni ha letto un libro nel tempo libero nell'ultimo anno
‣ Il 46,9% fino a tre libri
‣ Il 40,7% da quattro a undici libri
‣ Il 12,5 dodici o più libri
Più elevata nel Mezzogiorno anche la quota di famiglie con un numero di computer insufficiente rispetto al numero di componenti: il 26,6% ha a disposizione un numero di pc e tablet per meno della metà dei componenti e solo il 14,1% ne ha almeno uno per ciascun componente.
Viceversa, nelle regioni del Nord la proporzione di famiglie con almeno un computer in casa è maggiore. In particolare a Trento, Bolzano e in Lombardia oltre il 70% delle famiglie possiede un computer, e la quota supera il 70% anche nel Lazio. Nel Nord, inoltre, la quota di famiglie in cui tutti i componenti hanno un pc sale al 26,3%
Negli anni 2018-2019, il 12,3% dei ragazzi tra 6 e 17 anni (850 mila) non ha un computer o un tablet a casa e la quota raggiunge quasi un quinto nel Mezzogiorno (circa 470 mila).
Il 57,0% lo deve condividere con la famiglia. In questi casi meno della metà dei familiari dispone di un pc da utilizzare. Sebbene la maggior parte dei minori in età scolastica (6-17 anni) viva in famiglie in cui è presente l’accesso a internet (96,0%), non sempre accedere alla rete garantisce la possibilità di svolgere attività come ad esempio la didattica a distanza se non si associa ad un numero di pc e tablet sufficienti rispetto al numero dei componenti della famiglia.
Soltanto il 6,1% dei ragazzi tra 6 e 17 anni vive in famiglie dove è disponibile almeno un computer per componente
Nel 2019, il 92,2% dei ragazzi di 14-17 anni ha usato internet nei 3 mesi precedenti l’intervista, senza differenze di genere. Tuttavia meno di uno su tre presenta alte competenze digitali (il 30,2%, pari a circa 700 mila ragazzi), il 3% non ha alcuna competenza digitale mentre circa i due terzi presentano competenze digitali basse o di base.
Andiamo oltre?
Bisogna fare i conti con il fatto che la spesa sanitaria italiana è ancora decisamente inferiore rispetto a molti altri Paesi europei, e che l’invecchiamento demografico e l’aumento della speranza di vita faranno crescere la domanda di cura.
Inoltre, c’è anche un livello spinto di attenzione verso la qualità dei servizi sanitari che è in declino e non deve peggiorare: secondo l’ultimo rapporto Euro Health Consumer Index, l’Italia è passata tra il 2010 e il 2017 dal 14° al 21° posto delle 35 nazioni censite a livello europeo, rispetto alle performance del sistema sanitario
Nei primi sei mesi del 2019 l‘imponibile evaso in Italia è cresciuto del 3,8% con punte record nel Nord dove ha raggiunto il 5,1%.
In termini di imposte sottratte all’erario siamo nell’ordine di 181,4 miliardi di euro l’anno
Come ciliegina sulla torta, ecco il link per leggere Le previsioni per l’Italia. Quali condizioni per la tenuta ed il rilancio dell’economia? A cura del Centro Studi di Confindustria.
E quindi?
07 aprile 2020
Coronavirus, morire con dignità
Da giorni penso spesso a un film che ha come protagonista una delle mie attrici preferite, Sarah Polley: "La mia vita senza me" (2003), di Isabel Coixet.
Lei ha una malattia incurabile e ha i mesi contati. La sua prima preoccupazione è che non potrà gustare la crescita della figlia. Grazie al suggerimento del medico superempatico, decide di registrare una serie di nastri, la sua voce insomma: verranno consegnati alla piccola uno per volta, ad ogni suo compleanno. Bravi gli attori, storia commovente, trama plagiata anche recentemente.
Vediamone un'altra, apparentemente simile.
In un episodio di Grey's Anatomy, un tipo sui 50 anni che sta per morire registra videomessaggi per moglie, figli, amici, colleghi, conoscenti occasionali. Quando sarà morto, uno dei medici dovrà poi spedirli uno ad uno ai diretti interessati.
Commovente anche questo, vero?
Peccato, però, che fossero messaggi pieni di odio, di acredine, di livore, di rancori.
E la morale diventa ancor più asfissiante quando alla fine dell'episodio scopriremo che, nonostante il tipo sia miracolosamente guarito, deciderà comunque di spedire quei video.
E la morale diventa ancor più asfissiante quando alla fine dell'episodio scopriremo che, nonostante il tipo sia miracolosamente guarito, deciderà comunque di spedire quei video.
Mi sono sempre chiesto cosa farei in situazioni simili. Chi tra voi mi conosce, crede di sapere la risposta, dimostrando quindi di non conoscermi affatto :-)
Al di là della battuta, nei film i tempi narrativi e le sospensioni per essere efficaci devono essere "visibili", rallentate, perché altrimenti lo spettatore potrebbe non capire, non partecipare, non abbandonarsi alla proiezione; anche il più navigato.
Vi porto un esempio, così sono chiaro. Durante le concitate scene d'azione, con zombi assedianti o dentro le battaglie cruente, in mezzo alla mischia i protagonisti parlano comunque tra loro, e in maniera chiara e intellegibile; intorno a loro tutto si è fermato, il rischio di morire resta sospeso in aria, la folla si dirada. Chiarito il contenuto della chiacchierata, tutto riprende a velocità normale.
Sono necessità della narrazione che accettiamo inconsapevolmente; altrimenti non andremmo al cinema, ma al parco a fare una passeggiata.
Ecco, io penso spesso a chi sta per morire di Covid-19. Svuotato, senza forza, senza pensieri, senza aria, fisicamente ormai distrutto, non potrà dire neanche una parola ai suoi cari, non potrà fermare il tempo e compiere un gesto d'amore.
Vi porto un esempio, così sono chiaro. Durante le concitate scene d'azione, con zombi assedianti o dentro le battaglie cruente, in mezzo alla mischia i protagonisti parlano comunque tra loro, e in maniera chiara e intellegibile; intorno a loro tutto si è fermato, il rischio di morire resta sospeso in aria, la folla si dirada. Chiarito il contenuto della chiacchierata, tutto riprende a velocità normale.
Sono necessità della narrazione che accettiamo inconsapevolmente; altrimenti non andremmo al cinema, ma al parco a fare una passeggiata.
Ecco, io penso spesso a chi sta per morire di Covid-19. Svuotato, senza forza, senza pensieri, senza aria, fisicamente ormai distrutto, non potrà dire neanche una parola ai suoi cari, non potrà fermare il tempo e compiere un gesto d'amore.
Nulla di nulla, altro che sospensione filmica!
La vita reale non dà scampo: non consente, cioè, né scene eroiche né commiati gloriosi.
Oddio, avrei dovuto scrivere questi pensieri sparsi anche in occasione di altre morti, morti di qualsiasi tipo... lo so; ma non è questo il punto.
La vita reale non dà scampo: non consente, cioè, né scene eroiche né commiati gloriosi.
Oddio, avrei dovuto scrivere questi pensieri sparsi anche in occasione di altre morti, morti di qualsiasi tipo... lo so; ma non è questo il punto.
Il punto è che dovremmo pensare a tutto questo ogni qualvolta che diciamo "tutto non sarà più come prima".
Anche perché io non credo a questo "non sarà più come prima": secondo me, torneremo gli stronzi di sempre, altroché.
E dato che sarà così, nel barlume che ogni tanto abbaglia il nostro egocentrismo, cerchiamo almeno di ricordare che queste migliaia di disgraziati non hanno avuto una morte dignitosa, non hanno neanche registrato nastri di amore o di odio.
Nulla.
03 aprile 2020
Coronavirus, pipistrelli
Una volta a Cuba entrammo in un'immensa grotta, ma di quelle che non finiscono più; addirittura ci navigammo dentro per buoni dieci minuti.
Che poi io di grotte ne ho viste, ma l'idea di essere in piena foresta, circondati dal nulla, dall'altra parte del Pianeta... insomma, fa un certo effetto.
Che poi io di grotte ne ho viste, ma l'idea di essere in piena foresta, circondati dal nulla, dall'altra parte del Pianeta... insomma, fa un certo effetto.
Ci avevano detto che una volta usciti avremmo potuto assistere all'uscita di un milione di pipistrelli. Le donne del gruppo si rattrappirono fino a diventare tascabili; i macho cella situazione, invece, si improvvisarono massimi esperti di pipistrellite.
Aspetta che ti aspetta, sembrava non uscissero mai. Ma, invece, stavano uscendo in massa... solo che erano piccoli come una mano di un bimbo, o forse meno. Devo dire che fu suggestivo assistere a un tramonto velato dal passaggio di minuscoli schifezzine pelosette volanti.
Aspetta che ti aspetta, sembrava non uscissero mai. Ma, invece, stavano uscendo in massa... solo che erano piccoli come una mano di un bimbo, o forse meno. Devo dire che fu suggestivo assistere a un tramonto velato dal passaggio di minuscoli schifezzine pelosette volanti.
Eppure, i pipistrelli costituiscono quasi il 20% di tutte le specie dei mammiferi. Possono raggiungere la veneranda età di 40 anni. Vivono pressoché ovunque, in colonie fitte fitte. Si portano addosso la fama di incastricchiarti nei capelli, mentre in realtà è una leggenda degna del "mio zio" di Elio e le Storie Tese.
Ora, i pipistrelli hanno due caratteristiche uniche, apparentemente lontane tra loro: sono gli unici mammiferi che sanno volare, hanno la pessima abitudine di ospitare virus con una certa facilità (tra il 5 e il 10 per cento della popolazione pipistrellosa; un'enormità rispetto a tutti gli altri possibili animali vi vengano in mente).
Ora, i pipistrelli hanno due caratteristiche uniche, apparentemente lontane tra loro: sono gli unici mammiferi che sanno volare, hanno la pessima abitudine di ospitare virus con una certa facilità (tra il 5 e il 10 per cento della popolazione pipistrellosa; un'enormità rispetto a tutti gli altri possibili animali vi vengano in mente).
Perché le due cose sono correlate? Perché i pipistrelli non hanno ossa cave come gli uccelli; quindi per volare devono usare altri strumenti, tra cui il metabolismo. Quello dei pipistrelli sembra un sismografo impazzito.
Ora, qui ci sono due scuole di pensiero che partono però dallo stesso punto: questo metabolismo pipistrellico libera una cicciottella quantità di radicali liberi (Pannella non c'entra nulla... o meglio: ricordiamo che voleva la Sanità privata; ma è un'altra storia).
Come ci insegnano negli spot soprattutto per femminucce, i radicali liberi fanno male alle cellule; e anche al DNA, aggiungono gli scienziati con gli occhiali a metà del naso.
Secondo alcuni di questi scienziati, questo superimpegno costante determina un consumo incredibile di energia. Ebbene, se si mettesse lì a consumare calore (la febbre, insomma) per buttar via buona parte dei virus che ospita, ecco che il pipistrello ci pensa due volte prima di riprendere a volare.
Quindi, è come se il sistema immunitario dei pipistrelli fosse ridotto al minimo. Allora sarebbero più vulnerabili? No! Visto che il virus ha bisogno di un vettore che si muova con una certa libertà, eccoli lì che non rompe le palle ai pipistrelli. Ma, ripeto, questo è un punto di vista.
L'altro punto di vista, invece, vede altri scienziati che dicono: è proprio l'ipermetabolismo a consentire ai pipistrelli di stare al riparo dai virus che ospitano. Un attore attivo di questo metabolismo, infatti, sono i mitocondri - dei cosetti responsabili della “respirazione” e quindi della produzione di energia.
Ma i mitocondri servono anche al sistema immunitario, e quelli dei pipistrelli so' grossi e tosti: 'sto mitocondrio pò esse' fero o pò esse' piuma, coi pipistrelli è acciaio. Quindi al maschio del futuro conviene avere il mitocondrio grosso, perché altrimenti col ca@@o che esce de casa.
Arriviamo all'uomo.
Conoscete il mito della caverna di Platone, giusto? 'Sti quattro scemi di spalle all'uscita che intravedono le ombre generate alla luce della Verità che sta alle loro spalle.
Bene, cosa abbiamo fatto noi? Anziché filosofeggiare come Platone e restare seduti con umiltà, siamo usciti dalla caverna (peraltro occupata dai pipistrelli) per cercare la Verità. Magari quella che più ci faceva comodo.
Abbiamo creduto fosse il Fuoco, e abbiamo quindi incaricato Prometeo di rubarlo agli dèi. Mal gliene incolse: fu prima arrestato e poi legato a un palo per farsi divorare il fegato da un corvo (tranquilli, Giove fu stronzetto: glielo faceva ricrescere di notte).
Abbiamo creduto fosse la Tecnologia. E allora abbiamo incaricato Steve Jobs di farla diventare necessaria e portatile. Mal gliene incolse: fu punito con un tumore al pancreas.
Abbiamo creduto fosse l'Ambiente. E allora abbiamo occupato ogni possibile spazio dell'Ecosfera, distruggendo ogni cosa, inquinando ogni anfratto della Terra, riducendo la Bellezza alla plastica banalità dei nostri selfie... e quindi costringendo anche i pipistrelli a sopravvivere in spazi sempre più ristretti.
E allora si sono incazzati loro al posto degli dèi, e ci hanno punito con una bella cacata infetta sopra un mercato rionale; e ci hanno ributtato dentro le grotte - le nostre case, insomma - con quel fuoco e quella tecnologia rubati agli dèi.
Siamo ritornati nella caverna, quindi, a fissare fissamente muri su cui proiettiamo le serie televisive... forse Platone meritava qualcosa di più.
Ora, qui ci sono due scuole di pensiero che partono però dallo stesso punto: questo metabolismo pipistrellico libera una cicciottella quantità di radicali liberi (Pannella non c'entra nulla... o meglio: ricordiamo che voleva la Sanità privata; ma è un'altra storia).
Come ci insegnano negli spot soprattutto per femminucce, i radicali liberi fanno male alle cellule; e anche al DNA, aggiungono gli scienziati con gli occhiali a metà del naso.
Secondo alcuni di questi scienziati, questo superimpegno costante determina un consumo incredibile di energia. Ebbene, se si mettesse lì a consumare calore (la febbre, insomma) per buttar via buona parte dei virus che ospita, ecco che il pipistrello ci pensa due volte prima di riprendere a volare.
Quindi, è come se il sistema immunitario dei pipistrelli fosse ridotto al minimo. Allora sarebbero più vulnerabili? No! Visto che il virus ha bisogno di un vettore che si muova con una certa libertà, eccoli lì che non rompe le palle ai pipistrelli. Ma, ripeto, questo è un punto di vista.
L'altro punto di vista, invece, vede altri scienziati che dicono: è proprio l'ipermetabolismo a consentire ai pipistrelli di stare al riparo dai virus che ospitano. Un attore attivo di questo metabolismo, infatti, sono i mitocondri - dei cosetti responsabili della “respirazione” e quindi della produzione di energia.
Ma i mitocondri servono anche al sistema immunitario, e quelli dei pipistrelli so' grossi e tosti: 'sto mitocondrio pò esse' fero o pò esse' piuma, coi pipistrelli è acciaio. Quindi al maschio del futuro conviene avere il mitocondrio grosso, perché altrimenti col ca@@o che esce de casa.
Arriviamo all'uomo.
Conoscete il mito della caverna di Platone, giusto? 'Sti quattro scemi di spalle all'uscita che intravedono le ombre generate alla luce della Verità che sta alle loro spalle.
Bene, cosa abbiamo fatto noi? Anziché filosofeggiare come Platone e restare seduti con umiltà, siamo usciti dalla caverna (peraltro occupata dai pipistrelli) per cercare la Verità. Magari quella che più ci faceva comodo.
Abbiamo creduto fosse il Fuoco, e abbiamo quindi incaricato Prometeo di rubarlo agli dèi. Mal gliene incolse: fu prima arrestato e poi legato a un palo per farsi divorare il fegato da un corvo (tranquilli, Giove fu stronzetto: glielo faceva ricrescere di notte).
Abbiamo creduto fosse la Tecnologia. E allora abbiamo incaricato Steve Jobs di farla diventare necessaria e portatile. Mal gliene incolse: fu punito con un tumore al pancreas.
Abbiamo creduto fosse l'Ambiente. E allora abbiamo occupato ogni possibile spazio dell'Ecosfera, distruggendo ogni cosa, inquinando ogni anfratto della Terra, riducendo la Bellezza alla plastica banalità dei nostri selfie... e quindi costringendo anche i pipistrelli a sopravvivere in spazi sempre più ristretti.
E allora si sono incazzati loro al posto degli dèi, e ci hanno punito con una bella cacata infetta sopra un mercato rionale; e ci hanno ributtato dentro le grotte - le nostre case, insomma - con quel fuoco e quella tecnologia rubati agli dèi.
Siamo ritornati nella caverna, quindi, a fissare fissamente muri su cui proiettiamo le serie televisive... forse Platone meritava qualcosa di più.
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