27 settembre 2013

Francesco Rosi, il regista che (r)esiste

Continua il mio involontario viaggio nelle (auto)biografie cinematografiche. Dopo aver divorato quella di Friedkin, non potevo abbandonare così il campo: avevo bisogno di respirare ancora il tanfo delle sale di quand'ero bambino io, di rivedere film e situazioni "antichi" (come direbbe mia moglie) dove il cinema lo facevano le persone e non le macchine.
Ho preso al volo questo tomo scritto a due mani: Io lo chiamo cinematografo, dove Giuseppe Tornatore domanda, Francesco Rosi risponde; e che risposte!
Un viaggio dentro il mondo del realismo più o meno "neo", in cui ti imbatti con monumenti più o meno noti come Visconti, Antonioni, Amidei, Rossellini, Magnani, Cecchi D'Amico... roba da far tremare i polsi e la nostalgia.
Anche qui, come nel testo di Friedkin, è facile e divertente incontrare vere e proprie lezioni di cinema ben miscelate poi con la Storia d'Italia, la storia degli italiani e l'autobiografia di un uomo comunque tenace, sicuramente curioso e anche molto fortunato (anche se, si sa, la Fortuna va saputa aiutare).
Certo, ogni tanto Tornatore si lascia sfuggire risposte che meriterebbero qualche approfondimento; in più, càpita che il giovane e noiso regista voglia sgomitare di fronte a un uomo che, invece, il cinema l'ha saputo fare, e bene pure.
Però è un testo che scorre via, ricco e fluido al tempo stesso, corposo ma puntuale come pochi. 
Onestamente, preferisco il primissimo Rosi, quello di pura denuncia (mai banale e mai fine a se stessa). Per cui la mia classifica personale è ridotta ai titoli "classici" 
  • Le mani sulla città (1963) 
  • Il caso Mattei (1972) 
  • Salvatore Giuliano (1962) 
  • Uomini contro (1970) 
  • Lucky Luciano (1973) 
  • Cadaveri eccellenti (1976) 
  • Carmen (1984) 
  • Cristo si è fermato a Eboli (1979)

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