23 dicembre 2012

La regola del silenzio - The company you keep

Non è il migliore Redford, e non è neanche una delle migliori storie che abbia mai visto. Oltretutto, LeBeouf si dimostra il mediocre attore che è, automa contro le macchine, mediocre con gli umani. In più, c'è un finalino di consolazione poco plausibile, perlomeno oltre i confini dell'America più rigorosa. Sicuramente in Italia ci sarebbe stata la vittoria dei codardi, come del resto già ci dimostra la nostra provincialissima realtà.
Mi scuso in anticipo se con questo post mi rivolgo più a chi ha visto il film, piuttosto che sollecitarne la visione: la storia, infatti, scorre troppo a tratti, e gioca molto su conoscenze della storia americana che in molti potremmo non sapere. 
Tenendo conto poi che il linguaggio e lo stile possono non "arrivare" del tutto: gli americani vedono gli Usa con una sacralità che noi ci scordiamo... in effetti, è questo il primo punto all'ordine del giorno: ma noi, un film così lo faremmo mai?
Ne dubito fortemente, per numerosi motivi. Il primo, perché la spregevole biografia dei nostri (ex?) terroristi sta lì a dimostrare che mai si sono presi le responsabilità per i gesti che hanno commesso, i morti che hanno causato o invogliato a causare. 
Il secondo. Mentre negli Usa del periodo vietnamita c'era una cesura netta tra chi diceva no politicamente alla guerra e chi le diceva no violentemente, qui da noi terrorismo e nomenklatura intellettuale (e parlamentare) si conoscevano, si piacevano, si sono frequentati e si sono assolti in più circostanze.
Terzo motivo, corollario del secondo. Paradigmatico (e semplicistico, lo so), l'esempio di questi giorni: due parenti stretti delle vittime del terrorismo, messi lì a rappresentare la società civile (Tobagi e Ambrosoli, consapevoli/colpevoli della propria strumentalizzazione); gli (ex?) terroristi e figliame vario a occupare, invece, le più potenti leve della cultura e dell'informazione. Unica eccezione, Calabresi: ma è un raro caso di dignità storica e intellettuale, cui in molti dovrebbero chiedere scusa, ma non lo faranno mai.
Quarto motivo: da che mondo e mondo, il cinema italiano "impegnato" ha (quasi) sempre rappresentato lo Stato come nemico, e quindi anche come causa del terrorismo. Non è mai passato per l'anticamera del cervello di certi cialtroni che la lotta armata non ha giustificazioni: se è giusta, non è causata dallo Stato; e se è sbagliata, non è vittima dello Stato. Lo Stato è un valore da difendere, non da personalizzare.
Mi fa da supporto la conclusione del monologo di Susan Sarandon: "Abbiamo sbagliato, ma avevamo ragione". Il tempo dei verbi è illuminante. 
Quinto motivo. Anche affrontando un evento delittuoso accaduto 30 anni prima la storia raccontata, questo film dice la sua contro il terrorismo, condannandolo senza alcuna giustificazione. 
Noi oggi facciamo esattamente il contrario: il recente approccio di Benigni contro la diarrea repubblichina, è una variazione sul tema. Cioè: i vivi sbagliano, ma i morti sono uguali. E allora il cinema italico parte dal presupposto contorto che sono  i morti causati da terroristi che vanno perdonati (!). Cioè, non sono i terroristi da biasimare, ma le loro vittime.
Penserete che sono fuori di testa, vero? Eppure non c'è un film italiano che abbia avuto la decente decenza di condannare il terrorismo senza pietà. 
Ancora una volta, purtroppo in un campo più nostro che loro, gli americani ci danno una lezione di dignità, con un personaggio nodale, quello interpretato da un'incartapecorita Julie Christie: era sempre in fuga, consapevole delle proprie colpe; nel momento in cui la storia della Storia le chiede una prova di coerenza e di coraggio, anziché scappare verso l'anarchia, gira il timone verso la propria dignità e paga per le sue colpe.

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