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28 settembre 2024

la terribile domanda di 28 SETTIMANE DOPO

In questi giorni, è ritornato in auge il raffinato franchising nato con 28 giorni dopo (2002), perché l’imminente e attesissimo terzo film è stato girato esclusivamente con una serie di iPhone 15 Pro Max adattati per l'occasione.

Ne approfitto allora per raccontarvi una scena del sequel, perché pone un interrogativo potente.

28 settimane dopo (2007) inizia con tre famiglie rinchiuse in un cottage tipicamente inglese, con le finestre sbarrate e oscurate, e la paura asfissiante di fare una brutta fine. Là fuori, infatti, c’è la rabbia: basta un minimo rumore per attirare le persone infette, violentissime, affamate, feroci e crudeli.

Il tempo di accogliere un bimbo fuggito da chissà dove, che uno dei mostri sfonda la porta d’ingresso, portando con sé altri mostri. Subito le famiglie si sparpagliano in disordine, annientate dal panico, ma senza speranza: ognuno viene sopraffatto con una rapidità - e un’estetica filmica - che lascia lo spettatore senza fiato.

Resistono solo una coppia e il bimbo. Il marito fugge nel fienile, passa in un bagno e finisce in una stanza da letto; la moglie e il trovatello, invece, sono riusciti ad arrivare in quella stessa stanza da letto, ma dall’entrata principale. Tra l’uomo e la donna si intromette un infetto, seguito da molti altri. L’uomo potrebbe provare a salvare almeno la donna, ma sicuramente morirebbe… e allora scappa, abbandonando l’amata moglie e il piccolo al loro destino: una scena terribile che fa veramente male, in cui Robert Carlyle dimostra eccellenti qualità recitative, rendendo palpabile la battaglia interiore tra la viltà dimostrata e lo spirito di sopravvivenza.

Per quanto sia una scena breve, utile per introdurre un elemento fondamentale per il prosieguo della trama, io l’ho vissuta e la vivo da una prospettiva realistica, ponendomi sempre la stessa domanda: io, cosa avrei fatto?

18 maggio 2024

l'oltre di OPPENHEIMER

Raramente, un’opera riesce a rappresentare visivamente la galassia dei sentimenti che alberga in ognuno di noi. Ogni forma di espressione artistica, infatti, ha i suoi limiti oggettivi; e anche quando l’autore forza la mano, riuscendo a trovare una via quasi perfetta, resta sempre qualcosa in sospeso.

Tra le pochissime opere recenti che sono riuscite a sfidare queste allegoriche Colonne di Ercole c’è Oppenheimer (2023), l’eccellente film di Christopher Nolan che ha vinto legittimamente gli Oscar più importanti.

Ha la capacità di fare vedere e sentire (nel senso epidermico del termine: gli inglesi direbbero feel) i sentimenti, i tormenti, la genialità, le paure, i mostri interiori dei singoli personaggi.

Sceneggiatura, musica, montaggio e fotografia sono al servizio dell’anima, sia nella sua forma interiore che in quella espressiva. La cosa incredibile è che sono pregi “economici”, che non hanno bisogno del budget speso per produrre questo capolavoro: significa, insomma, che il contributo umano alla riuscita di questo film è ben superiore a quello tecnologico (al netto che il regista è noto per usare effetti visivi/analogici invece che speciali/digitali).

Lo dico perché chi mi contestato la stroncatura del film di Cortellesi ha aggiunto che con quei budget non puoi fare di più. Non è vero! E Oppenheimer ne è la prova! Funziona per le qualità attoriali, per la sceneggiatura piùccheperfetta, per la direzione delle luci sempre puntuale, per il montaggio attento a ogni singola sfumatura, per la musica e i suoni - composti coerentemente e incastonati al momento giusto.