19 marzo 2014

Zona Uno di Colson Whitehead, quando la critica è acritica

Una pandemia ha devastato la Terra, lasciando gli esseri umani divisi in due categorie: i vivi e i morti viventi. Guidati da un governo provvisorio stabilitosi a Buffalo, gli americani cercano di restaurare la civiltà. Il loro primo obiettivo è spazzare via da Manhattan le ultime sacche di resistenza, rappresentate da soggetti infetti che non si sono trasformati in zombie ma si trovano in uno stato semicatatonico. Mark Spitz fa parte di una delle squadre di civili che lavorano nella zona sud dell'isola. È un personaggio tortuoso, fosco, confuso. Il suo mondo, il mondo in cui si muove, è un inferno di ludica violenza dove le tracce della follia umana e i danni di un capitalismo aggressivo coesistono con il disperato desiderio di ritrovare la propria umanità.
Posta così, la trama sembra gustosa e irresistibile; invece, Zona Uno di Colson Whitehead è un libro noioso e pedante, addirittura offensivo. E scrivo "offensivo" per un mucchio di motivi.
Il primo, perché Whitehead è uno scrittore con i controfiocchi che ha però anteposto il proprio ego a un genere che esige schemi e stilemi ben precisi: sciorinare un'inutile buona scrittura, con un periodare sibillino e una quantità industriale di inutili flash back, è solo un esercizio di stile, e nulla più.
Il secondo motivo, perché la critica ufficiale italica si è sperticata in una serie incredibile di celebrazioni, usando però una dissimulata spocchia e arroganza del tipo: "il genere horror mi fa schifo, però Whitehead è un fico che si è abbassato a questo non-genere, ergo ne parlo bene ma solo per merito suo; anzi, ringraziatelo perché ha nobilitato questo non-genere".
Terzo, perché il genere horror-zombie non è minore o maggiore rispetto ad altri. Altrimenti Mary Wollstonecraft Shelley o Lev Tolstòj perché ci si sono cimentati con tanta cura e dedizione? E, nel cinema, qual è la differenza tra un thriller di Hitchcock o uno di Argento?
Voglio dire che avviciniarsi a un genere con la presunzione di conoscerlo prima ancora di averlo praticato, è un vizio vecchio come il mondo che andrebbe scoraggiato anziché dimenticato.
Oltretutto, e qui sta il punto, se si recensisce un libro con malafede (leggi: marchette), allontani il pubblico, diventi non credibile, uccidi la tua professione e quindi quella di altri tuoi colleghi, dimostri noti e stranoti pregiudizi nei confronti della lettura in generale.
Non può essere, insomma, che io (con una media di 40 libri letti l'anno) abbia faticato più di un mese per finire un libro di cui alla fine si salvano solo le ultime due pagine (su 320!).
Doveva essere un'allegra passeggiata; è stata, invece, un'autentica e inutile tortura.

Nessun commento: