Checché se ne dica, la sceneggiatura non rincorre il modello del Gladiatore, anzi. Sicuramente, e però, i dialoghi profondi sono rari e radi, sin troppo diluiti da una bellissima scenografia deliziosamente ridondante, da (necessari) effetti comunque strabilianti, da un doppiaggio incoerente (si passa dal bravo Giannini all'irritante Lorenzo D'Agata).
Peccato doppiamente, perché qua e là si respira l'intento di restituirci l'idea di un Ramses più umano e interessante del solito, un Mosè presuntuoso e nevrotico (Bale, poi, non sembra al meglio), un Malek arrogante e violento (mirabile l'idea di rappresentarlo come un insolente moccioso).
Sicuramente si anche è condizionati dal fatto che si conosce sin troppo bene la trama (o comunque le sue parti più favolistiche): a furia di pensare "vediamo come mi rappresenta questo o quest'altro", perdiamo di vista il blando tentativo di analisi psicologica.
Considerato che trovo importanti le scelte dei titoli, il fatto che questo contempli anche il sottotitolo Gods and Kings lascia pensare che Scott abbia voluto giocare cou un (bel) po' di significati: visto che il faraone era considerato sia re che dio, considerato anche che il dio ebraico è a sua volta un re, il gioco del plurale sta tutto nel voler capovolgere significanti e significato. E se questa è una facile speculazione ontologica, non lo è la semplice domanda: che razza di dio uccide i bambini? Cui dobbiamo aggiungere: che razza di dio ignora il suo popolo per poi farsi vivo solo dopo 400 anni?
Per i più curiosi, vengono rappresentate otto delle dieci piaghe: le tenebre, infatti, sono quasi accennate; l'arrivo di zanzare e mosche avviene contemporaneamente. A tutte Scott fornisce una più che plausibile spiegazione scientifica, tranne che sulla morte dei primogeniti: per restare nella laica coerenza, forse sarebbe bastato ricordare che i nobili egiziani si sposavano tra fratelli con una certa frequenza, che facilitava tare e problemi genetici di ogni tipo.
Anche se non siamo esperti di cose egizie, ci sono almeno tre incongruenze eclatanti che saltano subito all'occhio: la camminata del primo Mosè, quello "egiziano" per intenderci, troppo in stile cowboy; la confidenza che in troppi si prendono quando parlano con Ramses; il gesto da marine dell'attendente di Ramses quando gli indica il precipizio (si porta indice e medio verso gli occhi e poi indica il pericolo, manco fosse un agente dellFBI).
Un po' dispersiva la musica di Alberto Iglesias, che peraltro nel leit-motiv che accompagna le intemperanze di Malek ha imitato il Parsifal wagneriano: nel caso di una storia ebraica, non mi è sembrata una scelta proprio felice.
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