27 marzo 2008

ta ta ta tà
tta taaaaaa (il libro di Clapton)

Ci sono artisti cui vuon bene d'istinto, anche quando non li frequenti o non ami totalmente quello che fanno. Uno di questi è Eric Clapton. Che poi, per la sua tecnica apparentemente immediata, mi sono sempre allenato seguendo le sue parti soliste: poche note, ma di quelle giuste; magari non sempre innovative, ma comunque intriganti e che si fanno ascoltare.
Ricordo quando una volta, seguendo l'amico Pennacchini (già cantante dei romanissimi Occhei Pears) sulle note della Cocaine di J. J. Cale, gli sparai la tipica claptonata copiata da un live. In maniera così precisa che ne restai impressionato anch'io, tanto che subito dopo il plettro mi cadde nel foro della cassa acustica della mia Alhambra.
Clapton ha suonato con tutti, tranne che con Miles Davis: fatevi venire in mente un nome di un qualsiasi musicista dagli anni '60 fino a ieri, e lui c'ha suonato (Hendrix, Joplin, Rolling Stones, Dylan, Roger Waters, Yvonne Ellimann...). E ha pure composto materiale veramente immortale, di quelli che canticchi senza magari neanche sapere da dove venga. Del resto, in quel del mio viaggio in Belgio vi proposi un video amatoriale in cui un vecchietto senza età suonava una Layla da paura.
In questi giorni Slowhand ha pubblicato la sua autobiografia. Io le leggo sempre le autobiografie. Non lo so perché lo faccio, ma è il genere che amo di più insieme ai diari e alle lettere. Che magari son sparsi di pagine inutili e ridondanti. Ma è come far parte di nuove famiglie, senza l'onere della quotidianità o l'impegno di un sorriso alle 11 di sera quando sei stanco.
Intendiamoci, Clapton non è Proust (altrimenti Sunshine of your love tramonterebbe dopo due mesi), però è onesto, lineare, limpido, semplice e con un spirito (auto)critico molto acuto ma mai autocommiserativo.
Una lettura piacevole, insomma, che ci fa vedere un mondo - quello musicale di quel periodo - che purtroppo non c'è più, e una spiritualità che vorremmo incontrare più spesso.



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