25 novembre 2009

Haneke, ovvero:
quando il pubblico recita

Alla fine ce l'ho fatta: il colore era sempre bianco, ma non quello dello Spazio con la Buy.
Insomma, ho visto Il Nastro Bianco di Haneke, un capolavoro indescrivibile.
Non tanto perché mozza il fiato all'istante, ma perché ti arriva dopo; e - appunto - non riesci più a descrivere e decifrare le numerose mazzate psicologiche che ti arrivano addosso da ogni dove quando meno te lo aspetti.
La leggerezza della regia, delle recitazioni, della (straordinaria) fotografia, del metodico montaggio, tutti insomma partecipano alla cerimonia soffusa e minimalista che racconta fatti e situazioni a ridosso di un qualsiasi villaggio tedesco poco prima del gesto modernista di Gavrilo Princip.
La microquotidianità, le caratterizzazioni, gli eventi così duri ma presentati con semplicità disarmante. Un finale che finisce ma non termina. Dove, cioè, ci interessano poco i colpevoli o gli innocenti: perché la vita non ha bisogno di codardi o di eroi, ma di persone che la sappiano vivere con dignità. E che forse alla fine l'unico che ne ha da vendere è il fattore che deve governare un figlio ormai grande e "rivoluzionario".
Fa impressione constatare ancora una volta come Haneke obblighi il pubblico a "recitare". Cioè: le sue inquadrature alludono, ma senza furbizia o voyerismo. È l'immaginazione dello spettatore che si incanala forzatamente dentro contesti e situazioni che non vede ma che sa che ci sono. E poi lo stesso spettatore si vergogna di aver immaginato "per forza" certe cose, perché si rende conto di essere marcio dentro tanto quanto quei personaggi di/mostrati con tanta semplicità.

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