29 dicembre 2017

a #UJW25 la Joni Mitchell di De Vito, Mazzariello e Pietropaoli (una recensione)

Difficile entrare nel mondo di Joni Mitchell senza commettere imperfezioni, perché la cantante canadese ha il rarissimo pregio di aver composto canzoni bellissime che comunque funzionano, ma che funzionano soprattutto grazie allo spessore di cristallo della sua voce. E se provi a uscirne troppo, rischi di comprometterne il tessuto melodico; se provi, invece, a starci dentro ma senza scimmiottarla, rischi di cadere nel baratro della presunzione.
Eppure c’è chi ha avuto l’ardire di provarci, questo quasi-gelido venerdì di fine anno a Orvieto, in un’edizione di Umbria Jazz altrimenti arida di emozioni: Maria Pia De Vito, con la sua voce sempre pastosa, in costante conflitto con la passione e la professionalità (e che in questo caso ha sortito ottimi risultati); Juan Olivier Mazzariello, il cui pianismo ha la rara dote di dire poche cose ma sempre giuste, che sa rispettare la musica, il pubblico e i suoi compagni d’arme; Enzo Pietropaoli, non solo bassista e non solo musicista, che nonostante abbia compiuto secoli di età, mantiene vivo l’entusiasmo del bambino insieme al rigore del grande sapiente.
Apre le danze la dolce cantilena di Amelia, con quel giro di accordi che Pat Metheny poi ridisegnò nel live Shadows & Lights, da cui ormai riesce difficile uscire. E quando la tua memoria-in-automatico si aspetta quei pizzichi di chitarra fluida, Mazzariello sfodera un prezioso piano-solo soffuso.
Siamo quindi nella percussiva Harlem in Havana, con il nostro Enzo che insegna come si sta a tavola: prima del suo solo, si è fermato quel poco di più per consentire alla De Vito di raccogliere il giusto tributo al suo scat così naturale.
Entriamo dentro la bellissima Morning Morgantown: la De Vito parte fuori tono, ma si riprende subito anche grazie allo stato di grazia di basso e pianoforte che sorreggono l’intera canzone con vigorosi muscoli, dolcissimi quanto discreti. Nella seconda parte della canzone, la De Vito si rifugia dentro un canto alla Joan Baez, più affine alle sue corde. La parte del leone la fa Mazzariello, sempre capace di rispettare le canzoni con solismi umili e privi di autocelebrazioni.
Arriviamo al cuore mingusiano della Mitchell con God must be a boogie man. Eccellente versione, con il trio che si amalgama e si insegue continuamente, in compagnia di un pubblico timido che ha risposto alla call-to-action senza tanta convinzione.
Dopodiché, la luce di A case of you ha illuminato i nostri cuori: grande Mazzariello, ben oltre i suoi limiti; Pietropaoli che dona la sua anima al pubblico; la De Vito che si commuove sempre di più. Così si suona, così si canta!
Con Be cool i nostri si riposano, rendendo la canzone quasi “normale”: troppa eleganza si paga, ed è giusto prendersi pochi minuti di riflessione.
Con Chinese café/Unchain Melody ritorniamo negli astri. Di sé per stessa è notoriamente un esercizio di stile complesso e probante: i tre arrivano a renderla un’esperienza irripetibile e nostalgica, dove alla fine vien da dire “io a questo concerto c’ero; voi no”.
E a proposito di nostalgia, arriviamo a Woodstock. Ragazzi, che arrangiamento! Che esecuzione. Riuscire a unire lo sguardo verso il passato con il cammino rivolto al futuro… veramente una bellissima versione.
Bis dedicato alla mia signora con una Answer me my love da lacrimoni.
Una bellissima esperienza, insomma.

No so come sia il disco (dove al piano figura Rea). Ho paura di acquistarlo. Quando si hanno esperienze come queste, diventa difficile rincorrere la nostalgia. Vi terrò informati.

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