Difficile entrare nel mondo di Joni Mitchell senza
commettere imperfezioni, perché la cantante canadese ha il rarissimo pregio di
aver composto canzoni bellissime che comunque funzionano, ma che funzionano
soprattutto grazie allo spessore di cristallo della sua voce. E se provi a
uscirne troppo, rischi di comprometterne il tessuto melodico; se provi, invece,
a starci dentro ma senza scimmiottarla, rischi di cadere nel baratro della
presunzione.
Eppure c’è chi ha avuto l’ardire di provarci, questo
quasi-gelido venerdì di fine anno a Orvieto, in un’edizione di Umbria Jazz altrimenti
arida di emozioni: Maria Pia De Vito, con la sua voce sempre pastosa, in
costante conflitto con la passione e la professionalità (e che in questo caso
ha sortito ottimi risultati); Juan Olivier Mazzariello, il cui pianismo ha la
rara dote di dire poche cose ma sempre giuste, che sa rispettare la musica, il
pubblico e i suoi compagni d’arme; Enzo Pietropaoli, non solo bassista e non
solo musicista, che nonostante abbia compiuto secoli di età, mantiene vivo l’entusiasmo
del bambino insieme al rigore del grande sapiente.
Apre le danze la dolce cantilena di Amelia, con quel giro di
accordi che Pat Metheny poi ridisegnò nel live Shadows & Lights, da cui ormai
riesce difficile uscire. E quando la tua memoria-in-automatico si aspetta quei
pizzichi di chitarra fluida, Mazzariello sfodera un prezioso piano-solo soffuso.
Siamo quindi nella percussiva Harlem in Havana, con il
nostro Enzo che insegna come si sta a tavola: prima del suo solo, si è fermato
quel poco di più per consentire alla De Vito di raccogliere il giusto tributo
al suo scat così naturale.
Entriamo dentro la bellissima Morning Morgantown: la De Vito
parte fuori tono, ma si riprende subito anche grazie allo stato di grazia di
basso e pianoforte che sorreggono l’intera canzone con vigorosi muscoli, dolcissimi
quanto discreti. Nella seconda parte della canzone, la De Vito si rifugia
dentro un canto alla Joan Baez, più affine alle sue corde. La parte del leone
la fa Mazzariello, sempre capace di rispettare le canzoni con solismi umili e
privi di autocelebrazioni.
Arriviamo al cuore mingusiano della Mitchell con God must be
a boogie man. Eccellente versione, con il trio che si amalgama e si insegue
continuamente, in compagnia di un pubblico timido che ha risposto alla
call-to-action senza tanta convinzione.
Dopodiché, la luce di A case of you ha illuminato i nostri
cuori: grande Mazzariello, ben oltre i suoi limiti; Pietropaoli che dona la sua
anima al pubblico; la De Vito che si commuove sempre di più. Così si suona,
così si canta!
Con Be cool i nostri si riposano, rendendo la canzone quasi “normale”:
troppa eleganza si paga, ed è giusto prendersi pochi minuti di riflessione.
Con Chinese café/Unchain Melody ritorniamo negli astri. Di
sé per stessa è notoriamente un esercizio di stile complesso e probante: i tre arrivano
a renderla un’esperienza irripetibile e nostalgica, dove alla fine vien da dire
“io a questo concerto c’ero; voi no”.
E a proposito di nostalgia, arriviamo a Woodstock. Ragazzi,
che arrangiamento! Che esecuzione. Riuscire a unire lo sguardo verso il passato
con il cammino rivolto al futuro… veramente una bellissima versione.
Bis dedicato alla mia signora con una Answer me my love da
lacrimoni.
Una bellissima esperienza, insomma.
No so come sia il disco (dove al piano figura Rea). Ho paura di acquistarlo. Quando si
hanno esperienze come queste, diventa difficile rincorrere la nostalgia. Vi terrò
informati.
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