17 febbraio 2025

GIORNALISTA/INFLUENCER ovvero IL GIORNALISTA CHE SPIEGA SOLO SÉ STESSO

Il giornalismo (almeno quello italiano) sta virando verso un’impostazione di fondo che non riesco ancora ad accettare.

Personalista e personalizzato; alla sola ricerca del click in più; autoreferenziale; inchieste costruite sui propri preconcetti; video in cui si cerca la posa anziché la dialettica e il confronto; interviste/forum in esclusiva ai propri colleghi/amici in cui si parla solo di sé stessi e delle proprie interpretazioni della realtà; una costante impellenza a voler/dover dire tutto su tutto e sempre, ma senza misurarsi con il giusto, il gusto e l’opportunità; sintassi scolastica e dizione approssimativa; argomentazioni da bar dello sport; condanna a priori dell’utente critico; ritenersi al centro della notizia, anziché servitori dell’informazione; pensare che il solo viaggiare significhi essere più bravi di Oriana Fallaci; difendere i deboli, ma senza far parlare (o ascoltare) veramente questi deboli

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Quando scrissi queste poche parole in coda alla prima rassegna del 2025, senza fare un nome che fosse uno, un mio collega mi disse che in controluce intravedeva anche la figura di una giovanissima giornalista, in quel momento intoccabile perché intricata dentro una crisi geopolitica.

In effetti, la ragazza è un esempio di quel giornalismo social/ista che nulla ha a che vedere con la notizia, con gli approfondimenti, con la difesa della realtà di cui abbiamo veramente bisogno.

Con le sue pose e il suo parlare per frasi convenienti, infatti, rappresenta appieno il giornalista/influencer: parla sempre di sé; si documenta solo all’interno del suo pretendere di sapere già cosa sia la realtà; un mondo che racconterà dalla prospettiva di un ipotetico selfie, con la notizia o la storia sfocate sullo sfondo.

Non è immune da questo social/ismo anche un giovanissimo tiktoker, diventato famoso perché nei suoi video in pochi secondi bignamizza con parole chiare e superficiali i classici della Letteratura e della Storia. Il problema non è la sintesi, ma il modo acritico con cui ha edificato lentamente il suo personaggio: il ragazzo, infatti, si autointerpreta con pose anacronistiche, schermate da un’eloquenza apparentemente profonda, tanto da aver svegliato Repubblica dal suo torpore editoriale, visto che gli ha proposto una rubrichetta per quei giovani che mai leggeranno Repubblica.

È un sempre più diffuso modo plastificato di non/esistere che avevo intravisto addirittura durante un funerale di cui vi avevo parlato qui, e che adesso sto incontrando anche in un contesto “sacro” come il giornalismo scientifico (ne parlerò).

Paradossalmente, nel cercare di dargli sostanza mi aiuta la parola stessa, “influencer”: colui che influenza, come fosse un virus. Anzi, no: è peggio di un virus, perlomeno per come poi reagiamo noi. Il virus lo individui, lo studi; hai persino la dignitosa volontà di combatterlo, per arginarlo.

Questo virus, questa viralità, invece, è un modo di non/esistere accettato da tutti, anche da chi ancora ne è immune o vaccinato.

È come se il social/ismo avesse scovato e poi liberato una pulsione subdola del nostro ego, contro la quale siamo totalmente indifesi: apparire la propria apparenza; accettare quella degli altri ma solo se gli altri hanno accettato la nostra; pensare che la nostra bolla sia la realtà; escludere chiunque non vanti la sua Capalbio virtuale (follower, collab, eventi, like, meme, pose, politically correct…).

Questo non/esistere così informe ed elitario (un’élite non di classe, purtroppo), mi ricorda il bellissimo film grottesco Society (1989), di Brian Yuzna. Vi suggerisco di cercarlo: non parla dei social, ma di tutto il resto

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