Ci dev’essere un qualcosa in comune tra certi maschietti borghesi, che quasi all'improvviso li porta all’impellente necessità di rimestare nel torbido dei propri pensieri. Altrimenti, non si spiega come mai registi straordinari come Antonioni, Fellini, Kubrick, Godard, Bertolucci, ad un certo punto della loro vita abbiano proposto film inutilmente pruriginosi.
Eros (2004), La città delle donne (1980), Eyes Wide Shut (1999), Prénom Carmen (1983), The Dreamers (2003), hanno in comune un’inutile e insistita autopsia del corpo femminile come solo oggetto del desiderio, l’ostentazione di momenti sessuali tutt’altro che allusi, trame incongruenti e confusionarie, un approccio da guardoni che proprio non ti aspetti da questi monumenti dell’etica e della cultura. A questa tendenza non scritta si è accodato anche Sorrentino con il suo Parthenope (2024), il cui sottotitolo doveva essere La gLande bellezza.
Ora, io non appartengo alla categoria dei bacchettoni, né tantomeno mischio gusto personale e oggettività artistica: è che qui siamo di fronte a un film brutto, sia tecnicamente che esteticamente.
A me frega nulla della carne esposta, anche quando non ha scopo narrativo. Contesto, questo sì, l’indugiare pruriginoso e voyeuristico su una scopata pubblica tra adolescenti terrorizzati, su una giovane che si fa masturbare da un vecchio e laido sacerdote, sul vedi-non-vedi di un vestiario inutilmente microscopico, sulle scene saffiche riprese a una distanza da sincrotone: così come sono proposte e indugianti, diventano scelte zozze, gratuite, maschiliste e totalmente prive di scopo narrativo. Che ci siano o no, nulla cambia nell’insieme della trama.
E mi meraviglia che le femministe nostrane non si siano scagliate contro questo accrocco di tette, scopate e sguardi sporcaccioni, che ci buttano indietro di venti anni, riportando la donna a oggetto, a strumento amimico e remissivo di piaceri pseudobestiali.
Andando sul tecnico, invece, le riprese esterne sono un disastro, il montaggio pessimo, l’audio impresentabile, la sceneggiatura un colabrodo.
Vado nel dettaglio. Le luci degli esterni sembrano sistemate a coda di cane: altrimenti non si spiegano i cieli diurni sempre appannati, che oltretutto banalizzano i primi piani. Le riprese notturne, invece, perdono spesso la profondità di campo.
Montaggio: campi e controcampi senza nesso, inserti spesso inutili e controproducenti, ritmo inesistente.
Audio: tanto vale mettere i sottotitoli. A parte Silvio Orlando e Luisa Ranieri, il resto degli attori si mastica le parole. Il canale del commento musicale, poi, sovrasta tutto il resto.
La sceneggiatura è qualcosa che non capisco proprio. Bisogna concentrarsi parecchio per intuire i cambi di scena o il senso di certi frammenti narrativi buttati là. I dialoghi sono a metà tra Ciquito e Paquito e i Baci Perugina, con un flusso a corrente alternata di massime e di sentenze: lo spettatore si sente come Alberto Sordi e Anna Longhi in quel piccolo capolavoro che fu Le vacanze intelligenti (1978). L’unico monologo da salvare è quello di Luisa Ranieri. L’unica scena preziosa è l’abbraccio con Silvio Orlando.
Più in generale, a me sembra che Sorrentino abbia scientemente destrutturato i topos delle sue origini (Napoli, San Gennaro, la Camorra) come anche un certo modo di intendere la personalità di un regista (l’antropologia, il fanciullino curioso ma limitato dalle circostanze) per esprimere il suo disagio di fronte ai sessant’anni che incombono. E, guarda caso, lo fa attraverso una bellezza da smontare e non con un edonismo maschile immaginario (visto che non è propriamente bello); sono tutte speculazioni che lascio a chi si diverte a fare critica criptica.
Quello che trovo allucinante è che la critica abbia deciso che il film deve piacere. Un film pretenzioso e maschilista che è costato 33 milioni di euro e ne ha intascati solo 9
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