Era l'aprile del 1993.
Secoli fa.
Lo studio radiofonico di Prima Pagina profumava di sudore, di polvere, di magnetico, di appel (o come diavolo si chiamavano), i telefoni erano ancora a ghiera; anche se rigorosamente docciati, la mattina presto puzzavamo comunque di "appena sveglio"; tra me e il tecnico radiofonico poi, ci passava sì e no un foglio di carta... le due telefoniste accovacciate accanto a un similbovindo per il termosifone.
E dall'altra parte del vetro, loro: i giornalisti.
Lui era perlomeno educato, se non apparentemente interessato a qualsiasi cosa (e dico "apparentemente" perché ho imparato a non fidarmi dei giornalisti), disponibile al dialogo e al confronto, e ci chiamava tutti "amici", ricordando il nostro nome già al primo colpo (conservo ancora il suo Diario arabo con dedica lunga e affettuosa). Certo, era molto vanitoso: quegli strani capelli tinti con due strisce bianche sulle tempie lo facevano sembrare un hidalgo.
Masticava palate di caramelle, costringendo il tecnico a fare salti mortali per dissimulare il rumore delle cartine; e quando glielo feci notare, le aprì tutte prima di andare in onda, solo che allora bisognava nascondere lo gnamgnam che si sentiva dal microfono. Dava del "lei" a tutti, indistintamente, con la rara capacità di farti sentire essenziale.
Grande amico di Woytila e di Arafat, raccontava con apparente disinvoltura gli aneddoti delle sue esperienze di guerra: almeno due volte si era trovato con un plotone di esecuzione pronto a farlo a pezzi. Certo, era meglio evitare argomenti spinosi come il Medio Oriente, perché le convinzioni si scontravano amabilmente.
Ricordo una volta che accusò alcuni carabinieri di un comportamento irriguardoso anche nei confronti dell'Arma, lui che ne aveva così tanto rispetto. Il giorno dopo, seguendo la canonica regola del diritto di replica nella stessa collocazione/durata, decisi di aprire la puntata con la vedova di un carabiniere che civilmente contestò il suo intervento. In diretta accettò la sfida, ma poi dopo si lamentò col mio capo per la scelta poco felice. Il mio capo, anziché difendere il principio giornalistico, mi diede contro imponendomi di chiedergli scusa. E così non feci, motivando la mia scelta con il rispetto per un principio che vale per tutti. Lui non disse nulla: ma quando si concluse la settimana della sua conduzione, mi salutò e ringraziò in diretta. Paradossalmente la mia durezza aveva imparato molto dalla sua civiltà. Alla fine la lezione l'avevo avuta io.
La morte di Igor Man, catanese di razza, giornalista di altri tempi, "amico" per quei lunghi indimenticabili sette giorni, è una perdita che diventa personale e privata per tutti quelli che amano il buon giornalismo e le buone persone, tale era la portata della sua folle vanità. Chissà cosa dirà Montanelli quando se lo troverà di fronte.
So long, Igor, so long.
Nessun commento:
Posta un commento