Se cinematografare significa "scrivere con la luce", quella di Rohmer era una signora luce, di quelle che apparentemente non dicevano nulla, ma senza la quale i suoi film avrebbero perso di sostanza.
Se recitare significa interpretare, Rohmer muoveva gli attori in base a logiche inconsuete, senza preoccuparsi della recitazione: lui inseguiva i dialoghi, la sostanza del non cinema, dove cioè non conta la luce ma il suono e l'attitudine dell'espressività (quindi una sorta di bozza, completata solo dalla complicità del pubblico).
Eppure l'unione tra la sua fotografia così spolverata - priva di guizzi e di virtù, e i dialoghi - spesso essenziali ma mai gratuiti e ridondanti, sono la chiave per vivere la magia dei suoi film.
Non l'ho amato come invece stravedo per Truffaut (suo esplicito ammiratore), ma il suo stile e la sua eleganza così tardo borghesi sono stati la cifra più intellettuale e apparentemente meno prorompente della nouvelle vague.
Mancheranno quei suoi momenti filosofici così sospesi tra il banale e l'assoluto, mancheranno i suoi personaggi così consueti e quindi veri, mancheranno quelle sue regie così impercettibili in cui al movimentismo sfrenato di macchina si preferisce la giusta inquadratura per una prospettiva psicologica che accompagni lo spettatore verso la miseria (o il mistero) della realtà.
So long, Eric, so long.
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