Una volta sua maestà Miles Davis disse che il flamenco è il blues dell'Europa: visione che ho sempre condiviso, ma che mai mi sarei aspettato di constatare tramite le intenzioni di altri musicisti come mi è capitato questo postNatale 2011/2012 ad Orvieto.
Va detto che la mia preziosa signora ed io non avevamo capito che dopo le debordanti e offensive mitragliate di Camilo contro il povero Rea, ci sarebbe stato questo spettacolare concerto di Chano Dominguez e del suo ensemble. Per cui, ce ne stavamo andando via allegramente: è stato il mantenersi ben seduti degli altri spettatori che ci ha fatto capire che avremmo goduto ancora di buona musica.
A Chano Dominguez non daresti due lire: ha un fisico minuto e appallottolato; sentirgli dire che avrebbe addirittura proposto una letteratura integrale di Kind of blue in chiave flamenco, mi ha quasi spaventato, se non comunque emozionato. Volevo proprio vedere come sarebbe andata a finire: la visione di sua maestà si stava forse materializzando concretamente?
Buio in sala. Dopo Chano (pianoforte e direzione musicale, sempre puntuali), entrano Manuel Masaedo (percussioni di nitida precisione), Mario Rossi (contrabbasso, penalizzato da una pessima amplificazione), e due figuri che si siedono in disparte.
Il primo Blas Cordoba, sembra uscito da un Tex Willer di altri tempi: un po' arabo, molto spagnolo, tira fuori lamenti tzigani che graffiano le coscienze e ti buttano con violenza dentro ere passate, con la fierezza di un popolo violentato mille volte, ma mai domo, e sicuramente orgoglioso.
L'altro è Daniel Navarro, bello come il sole - di quelli di cui le donne si innamorano perdutamente e mai contraccambiate, barba incolta ma studiata, fisico asciutto e maschioso, capelli-bagnati-chissà-perché.
I due tengono il ritmo, applaudendo in quel modo apparentemente aritmico ma sempre in dispari tipico della musica spagnola. Inseguono le note e ne sono inseguiti, accarezzano gli altri strumenti e poi si lasciano possedere.
Kind of blue c'è, la percepisci, ma allo stesso tempo non la vuoi ritrovare come la conosci a memoria: se loro vogliono leggerla in chiave personale e intima, non puoi e non devi pretendere che lo facciano come dici tu. Tu sei lo spettatore, partecipe quanto ti pare, ma pur sempre spettatore.
Il concerto va che è un piacere: ritrovi vecchi amici sonori e ne conosci di nuovi. Senti che c'è rispetto per quel fondamentale disco, ma anche voglia di rileggerlo, di raccontarlo, di esplorare i mille suggerimenti che indica più o meno volontariamente.
E poi, d'incanto, quando tutto sembra fermarsi, e hai capito che stanno flamenchizzando So what, e vedi da lontano quella faccia stronza e geniale di Miles Davis che se la gode dall'aldilà; quando ti aspetti che entri Coltrane con i suoi due inimitabili chorus da manuale, che ogni volta che li senti ti si intorcinano le budella e ti scoppia il cuore... Daniel Navarro si alza.
Macheccazzofaiscemo? Ti alzi?
Dico: qualcuno dovrà pur fare il chorus di Trane!
E lo fa lui, Daniel Navarro, con un ballo flamenco che strappa applausi a scena aperta, che ti porta in quei luoghi osservati da Trane e da Davis, e in mille altri posti che mai avresti immaginato potessero esistere.
Daniel Navarro smonta l'architettura di Coltrane e dipinge con le proprie movenze quelle esatte note che conosciamo a memoria. Sembra un mare in tempesta che fa di tutto per trattenersi e scagliarsi poi contro gli scogli del nostro ascolto.
Una meraviglia.
Una meraviglia.
Una meraviglia.
Sì, il resto del concerto è stato altrettanto strabiliante: Navarro si è ripetuto un paio di volte, giocando con le luci e i capelli bagnati ad arte, muovendosi come un toro e un angelo... una cosa mai vista.
Ma un So what così, chi me lo ridà più?
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