Diventa attuale il contesto di questo film. All'improvviso.
Ancor più penetrante se si pensa che Eastwood ha raccontato una realtà senza aggiungere moniti o messaggini di sorta: la storia sta lì, nuda e vera e realmente accaduta, senza che si possa fare nulla per cambiarla, senza che lo spettatore possa aggiungere qualcosa di presuntuosamente proprio.
E il filo rosso che unisce i fatti di Charlie Hebdo e la vita di Chris Kyle è assimilabile in un solo punto: il nostro modello di vita. I morti del settimanale ne rappresenta(va)no l'essenza estrema, perché il nostro modello di vita glielo consentiva; disegnare, fare satira, passare il tempo cioè a cazzeggiare sulle nostre contraddizioni, sulle nostre inutili inutilità.
Chris Kyle, invece, rappresenta l'estremo difensore di questo modello. Il primo baluardo in difesa del nostro diritto di cazzeggiare.
Può piacere o non piacere, ma le cose stanno così.
Onestamente, non conoscevo la vicenda - soprattutto il tristo epilogo: ho potuto, quindi, godermi al meglio l'intera parabola narrativa senza perdermi dietro a preventive analisi tecniche ed estetiche. Certo, il film soffre di "troppa" asciuttezza; si sente, poi, un tentativo di evitare l'agiografia ad ogni costo, soprattutto perché i supermacho reali hanno stancato, relegati ormai - e necessariamente - nelle tutine dei supereroi... però si percepisce nitidamente il crescendum del disagio psicologico del nostro erore, in tutta la disarmante semplicità delle sue possibilità culturali.
Già...
Chris Kyle, cioè, non fa ragionamenti a colpi di Proust, di dotte enunciazioni, di salottiere mistificazioni. Chris Kyle difendeva un modello e difenderà poi le vittime che difendono questo modello. Il suo è un altruismo da soldato, e da soldato dovrà necessariamente morire.
Grande fotografia.
Intrigante la scelta di non incastonare musica nella colonna sonora: l'eccellente epilogo di Morricone dirà tutto (curiosamente non originale: preso, cioè, da uno spaghetti "minore").
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