Forse non è un film eccellente, ma eccelle in molte cose, specie se teniamo conto che per mandare in frantumi il regno di Lucas e Spielberg, finora Peter Jackson aveva badato solo agli effetti e poco alla storia (in fondo il Signore degli anelli va avanti da solo).
A dispetto di quanto scrive David Denby sul New Yorker (qui in lingua e qui tradotto dai ragazzi di Internazionale) sia il libro che il film non sono un lavoro da "artigiani capaci e opportunisti". Come purtroppo si sa - si dovrebbe sapere (perlomeno tra giornalisti) - la Sebold fu veramente violentata, e Jackson è stato già ampiamente rivestito d'oro per mettersi poi lì a giochicchiare con un argomento così devastante come la
Ad un certo punto i tempi diventano il lato debole dell'intera operazione. Da metà film in poi è come se mancasse un'idea d'insieme: l'intera macchina narrativa tentenna, quasi sbanda, per poi riprendere percorsi diversi a volte incoerenti. Credo forse che la paura di descrivere male il male assoluto, il terrore di scendere nel banale in questa rappresentazione di limbo per anime incomplete, il rischio di diventare noioso o moralistico, abbiano costretto Jackson a continui ripensamenti di sceneggiatura. E il ritmo ne risente. Tanto che è in agguato un quasi triplo finale.
Facendo finta di non aver visto l'inutile pre-epilogo in stile Ghost tra la bimba defunta e il quasi ex fidanzato, va detto che non è una storia di fantasmi. O meglio: non come li intendiamo noi. I loro differenti mondi si sfiorano ma non si toccano, si intuiscono ma non si vedono, si cercano ma non si trovano. E in fondo è più un problema per la defunta che per i vivi, non solo per l'iniziale angoscia della sofferta consapevolezza di essere morta (resa perfettamente sia dall'attrice che dalla regia), ma perché non può far sapere chi sia l'autore dell'omicidio.
Più in generale, Jackson mette la tecnologia al puro servizio della storia, regalandoci momenti veramente incredibili, come quando il padre distrugge le navi in bottiglia e contemporaneamente lei le vede frantumarsi in quei fantomatici scogli, oppure quando l'ambiente reagisce visivamente all'intimità dei suoi stati d'animo più profondi.Certo l'alberello parabiblico disturbicchia (come anche il campo di grano in stile Ade da Gladiatore), ma l'insieme del mondo "altro" ha spessore, oltre che visiva maraviglia. Fa soffrire e sorridere, sperare e anche meditare... e un po' anche diverte, diciamolo.
E nel reale? Anche qui Jackson lavora abbastanza bene: non esagera con le situazioni standard che devono farti affezionare al personaggio e/o alla sua famiglia e/o alla vita da sogno che solo i fanciulli possono vivere. È tutto abbastanza equilibrato, per nulla borghese o leccato o da famiija de' poracci: sembra credibile e vero, proprio perché normale; e normale purtroppo è l'assedio del Male. La sequenza della violenza subita è una perla di rara eleganza e di misuratissima angoscia.
Senza scomodare Viale del tramonto e American beauty (per citarne due) da cui Jackson e la Sebold hanno preso l'idea di una trama che parte dalla fine, dove cioè sappiamo già chi morirà e seguiamo a ritroso gli eventi che hanno portato alla sua fine, di citazioni raffinate (su cui si indugia quel tanto che basta) ce ne sono, eccome: prima di concepire l'ultimo figlio, la sempre brava Rachel Weisz legge L'Exil et le royaume di Albert Camus, attuale e preziosa raccolta di racconti (tradotta in pellicola due anni fa).
La protagonista viene soprannominata Suzie Q, come l'omonima canzone resa famosa dai Creedence Clearwater Revival (e danzicchiata da un paio di ragazzine francesi dall'elicottero di Apocalypse now!).
E poi c'è l' immancabile Der Wanderer über dem Nebelmeer di Caspar David Friedrich (qui a destra) che campeggia su una parete della casa.
E come non dimenticare lo scespiriano Othello nell'allusa interpretazione cinematografica di Laurence Olivier...
Non credo che siano citazionismi saccenti o di converso buttati là; semplicemente fanno parte della storia, e magari artificiosamente dimostrano come Jackson abbia più ciccia in testa di quanto i suoi precedenti lavori non lasciassero intravedere.
Due cose sono certe: la prima, è un film da vedere; la seconda, tale è la rabbia che vi crescerà dentro contro la
E il bello è che il film non fa mai vedere nulla, quasi neanche intuire. La gaiezza di certe sequenze, l'innocenza di certi dialoghi, la totale assenza di simbolismi sessuali più o meno dissimulati, hanno - però e appunto - l'esatto effetto opposto: creano indignazione, rabbia e sofferenza per uno dei mali più ributtanti che un uomo possa mai concepire.
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