Onestamente, neanche io avrei mai saputo immaginare le canzoni di Adriano Celentano in versione jazz: più che un'incosciente forzatura sembrava una grossolana trovata commerciale. Eppure la formula ha funzionato; egregiamente, direi.
Innanzitutto, grazie a una formazione di altissimo livello: Peppe Servillo, voce; Javier Girotto, ance; Fabrizio Bosso, tromba; Furio Di Castri, contrabbasso; Rita Marcotulli, pianoforte; Mattia Barbieri, batteria. Poi, perché l'ambiente calzava perfettamente: il languoroso e affascinante Teatro Mancinelli di Orvieto. Infine, perché giocare con le partiture di un musicista così fuori dagli schemi, può diventare addirittura una lezione di musica e di apertura mentale, specie per quelli come me che ascoltano di tutto, ma che non sopportano le cose ovvie (come solo sa essere da troppo tempo la forma-canzone italiana).
All'inizio il meno in linea è sembrato proprio Servillo: voce senza mantice e con una pessima amplificazione. Poi, però, grazie anche all'incontrollabile Bosso, la serata è decollata verso livelli inarrivabili quanto compatti. Sembrava non avessero fatto nient'altro che quelle canzoni, e da sempre.
Va detto che l'unica a restare quasi sempre in disparte è stata la Marcotulli; forse perché la potenza di fuoco sonoro dei due fiati impediva altri individualismi; forse perché la signora del piano preferisce mantenersi entro i limiti della rifinitura e del fraseggio essenziale.
Bosso, dal canto suo, ha dimostrato di essere in uno stato di grazia; così come Girotto, che ha miscelato sapientemente un'ottima direzione musicale con dei solismi sempre all'altezza del suo prestigio.
Ottima la sezione ritmica: più interessante Barbieri (sontuoso, nonostante la giovane età) che Di Castri (ma anche qui la singhiozzante amplificazione ha qualche responsabilità).
Insomma, se doveste trovare nei cartelloni della vostra città questo bislacco progetto, spendeteci i soldi che vi chiedono: ne vale la pena.
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