Più volte vi ho raccontato quella di Fabrizio Bosso: è coinvolgente, assoluta, e ti mitraglia sulla poltrona senza darti il tempo di respirare (i bossoli di Bosso; la battuta vien da sé). È la follia fatta suono: perfetta quanto irrimediabilmente legata all’istante dell'ascolto.
Quella di Paolo Fresu, invece, avvolge, e te lo porti dentro per giorni. Non ne puoi fare a meno, e nello stesso tempo hai quasi il terrore di sperimentarla in nuovi brani, perché è così unica e assoluta che diventa fisicamente impegnativo avventurarsi dentro altri suoni.
L’abbiamo ascoltata nella Sala dei 400 di Orvieto, durante Umbria Jazz Winter, e mi sento di dire che - dopo gli scrosci delle Cascate di Iguaçu - è stata una delle più sorprendenti esperienze spirituali che abbia mai provato; io che non sono credente, e non sopporto le mode esoteriche di certe proverbiali zecche.
Avevamo due posti eccezionali, per posizione e visibilità. La sala era un continuo architetturare di elementi antichi e di soluzioni moderne, per cercare di mantenerla in un buon alveo musicale. Acustica peregrina a parte, tutto molto suggestivo. Di fronte a noi, un semplice pianoforte respira in attesa di un prossimo concerto. Poi, cinque sedie, quattro per l’Alborada String Quartet; una per Fresu.
Solo il quartetto si siede, le luci calano poco (gravissima pecca per come si sono evolute poi le note), e gli archi cominciano a suonare. Ma Fresu dov’è? Fresu dov’è? Il quartetto continua col suo canone, anche abbastanza “facile” se vogliamo. E Fresu non si materializza da nessuna parte.
Poi, come se fosse ovvio, spontaneo e naturale, una sontuosa ed elegantissima nota di flicorno comincia a viaggiare dall’entrata della sala, lì in fondo, dove i commessi fanno a gara a chi si annoia di più. Le nota gira per la sala, percorre il corridoio, per poi avvolgere sapientemente l’intero quartetto, Fresu ancora non c’è, ma la sua musica sì.
Il resto è stata una costante e inebriante successione di momenti musicali veramente indimenticabili, precisi quanto eterei, tecnici quanto spontanei.
Il resto è stata una costante e inebriante successione di momenti musicali veramente indimenticabili, precisi quanto eterei, tecnici quanto spontanei.
Un concerto strabiliante, insomma, dove il piccolo sardo ha commistiato sapientemente tradizione antica e attitudini moderne (quanto dell'amico Jon Hassell pervade la sua tecnologia, eh?), a conferma della citazione mahleriana che troviamo come prefazione alla sua biografia: "La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere".
Qualche pezzo da novanta del jazz lo ha definito "Napoleone": eppure, Fresu sembra di un'umiltà e di una disponibilità complete. Lo si percepisce sia nella sua musica, sia nel suo suono, che nel suo modo di parlare col pubblico e di porsi con gli strumenti e con i compagni di esibizione.
Un concerto, insomma, che mi ha dato molto da pensare, anche sul piano profondamente intimo e personale, e che mi ha aperto delle porte nuove, forse difficili da varcare, ma sicuramente stimolanti e avvincenti.
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