Sceso da cavallo, in quel della Lunigiana, avevo con me questo suo libro (e il "mio" Byron, ovviamente). Il cavallo mi guardava storto: mi ero appoggiato alla sua schiena, complice una pietra perfettamente levigata a foggia di sedia.
Lessi quel Pereira tutto d'un fiato, sempre avvolto da quel gradevole odore di muschio qual è la pelle ben strigliata di un cavallo giovane. Due ore dritte dritte dentro la meraviglia di una scrittura semplice ma precisa, una trama ovvia ma deliziosa, un modo di scrivere che mi ricordava ovviamente il mio amatissimo Pessoa, ma senza quella forma di piaggiosa imitazione che tanto ammorba la scrittura italiana.
E poi, qualche settimana dopo, comprai anche Notturno indiano. Il film mi era dispiaciuto, ma il libro resta una chicca nella sopravvalutata biblioteca italica odierna. Lo lessi in metropolitana, nei miei andirivieni tra la Rai e Cinecittà: alzavo la testa, e già ero arrivato a destinazione. E lì l'odore era di metallo sgrassato, di aliti mefitici, di aglio e varechina, di noia e quotidianità.
Ecco, di Tabucchi ricordo questi due momenti. E non passa giorno che non mi chieda che fine abbia fatto quel giovane cavallo, che ebbe la delicata accortezza di non scansarsi mai, di accogliere la mia concentrazione, e di liberarsi energicamente solo dopo la chiusura del libro.
Tabucchi. Un cavallo. La metro. E i ricordi.
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