Concerto quasi incommentabile, questo di Porter, per banali motivi tecnici: chi doveva calibrare i suoni stava dormendo della grossa, rendendo traballante una performance che in nuce aveva tutte le possibilità di riuscir bene, perlomeno per chi ama questo tipo di approccio canoro, così semplice e immediato.
La mediocre batteria di Emanuel Harold sempre sopra tutti, gli acuti invisibili del pianetto di Chip Crawford sempre distanti, il trio di fiati e ance che andava e veniva. E, soprattutto, la voce di Porter che perdeva continuamente colore, tanto era affossata da quel caos rutilante.
Italico biglietto da visita, quindi, per un festival che ha già problemi di fondi, e per un genere musicale già bistrattato di suo, perlomeno qui da noi.
Non conoscevo Porter, ed ero deliziosamente curioso di ascoltare cosa diamine si celava dietro quel gigante buono incalzamagliato da un sorrisone bonario.
Nell'immediato, colpisce la sua malcelata attenzione per il soul alla Gaye e certe cose alla Jimmi Webb, omaggiati a più riprese.
In più, quando ho avuto la possibilità di concentrarmi sulla sola voce - con l'ausilio del solo piano - ho compreso perché Porter piaccia anche a chi non frequenta il jazz: è una voce calda, poderosa ma umile, ricca di sfumature e di tradizione. Ma, appunto, è una voce che non rischia, non esplora l'oltre.
Non è una colpa o un limite: ma chi ha una Ferrari tra le corde vocali, deve farla ruggire ogni tanto.
Tra i musicisti, buono Josh Evans alla tromba (ricorda Maynard Ferguson), e ottimo Yosuke Satoh al sax alto, strumento sempre difficile (il nostro sa strapazzare l'ancia come pochi).
Oggi, Batiste nel pomeriggio; Morelenbaum ed Elling, la sera.
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