Una regia in punta di fioretto, insomma, confortata ed aiutata da un sublime Daniel Day-Lewis, che ancora una volta sacrifica se stesso pensando solo al personaggio.
L'unico difetto palpabile, traditore e irritante, è il pessimo doppiaggio italiano, nevrotico e privo di sfumature, che penalizza - e di molto - l'insieme dell'opera.
Ad essere petulanti, non mi sono piaciuti certi bruschismi del montaggio; mentre, invece, la direzione della fotografia è stata addirittura raffinata. John Williams, poi, parla quel poco - e quel giusto - che deve fare, affidandosi spesso al solo flicorno, con note a metà tra il Dixie e il più noto Star-Spangled Banner.
L'altra scena, tipicamente teatrale, vede Lincoln ragionare su squisiti principi di diritto, perché sa che il suo emendamento potrebbe essere surrogato da una più incisiva imposizione presidenziale, che però negherebbe quella visione della purezza democratica che fa parte dell'humus dei futuri Stati Uniti.
Bello e importante come momento, anche perché i critici si sono soffermati sui mezzucci usati da Lincoln per coercizzare i deputati meno solidi, anziché ragionare su questo nodo più edificante: la democrazia si difende con la democrazia; anche la legge più nobile deve passare il vaglio del voto parlamentare. Altrimenti è una negazione in essere.
Già...
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