25 novembre 2013

living dead

Nel dodicesimo episodio della terza stagione di Walking Dead, la sottotrama si apre e si chiude con una cornice decisamente orribile, di quelle che ti lasciano da pensare per giorni, un po’ come mi capitò quando vidi il prologo di 28 settimane dopo (anche se NON è un film di zombie).
I nostri protagonisti percorrono una strada tra gli alberi, correndo a una velocità apprezzabile, quando incrociano un viandante, un disperso insomma, vivo ma disperato, che gli corre incontro supplicando aiuto. Memori, però, dei recenti trascorsi, quando cioè aiutare qualche vivo ha significato rischiare la morte, i nostri passano oltre accelerando quel tanto da lasciare quel tipo desolantemente solo, a rischio di attacco di zombi.
Anzi, ad un certo punto la loro auto si ferma per colpa di una ruota sifulina, il tipo fa giusto in tempo per correre loro incontro, ma i nostri scappano subito via, ignorandolo.
Dopodiché si svolge la sottotrama per i 30’ canonici, lasciando in sospeso il destino di questo tipo.
Alla fine, i nostri riprendendo la strada del ritorno, incrociano di nuovo il tipo… quello che ne è rimasto, però: un’efficace panoramica verticale, ci lascia intuire che il tipo è stato sbranato dagli zombi. I nostri protagonisti accelerano, ma poi inchiodano, tornano indietro quel tanto che basta per raccattare lo zaino ormai abbandonato, e poi corrono via verso la sigla conclusiva.
Chiunque di noi avrebbe fatto così: in situazioni così estreme, chiunque penserebbe prima ai propri cari, al proprio gruppo, e poi solo dopo alle incognite degli altri vivi. Altrimenti, non si sopravvive.
Ma è quel dettaglio dello zaino strappato da un corpo ormai a brandelli che mi ha colpito, perché ha reso credibile un moralismo apparentemente sceneggiato solo per il telefilm: solo così, infatti, è diventato reale.
 

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