Li avevo apprezzati due Winter fa, trovandoli eccellenti, interessanti e proposti nell'ambiente giusto e nella misura giusta.
Questa edizione, invece, quelli di Umbria Jazz hanno esagerato, proponendoli sempre e solo sul palco del Teatro Mancinelli, sempre e solo in apertura di eventi di un certo peso (Bosso, Fresu, Elling, Lawson), costringendo anche il pubblico meno avvertito a "sorbire" un difficile duo sax + batteria che potrebbe legittimamente stancare chiunque.
Oltretutto, tale era l'incrocio di date e orari, che chiunque avesse voluto godere questa edizione, li avrebbe incrociati almeno due volte.
Ora: non appartengo a chi dice che l'arte vada spiegata, perché è un'affermazione idiota; non credo all'arte "alta" e "bassa", anche se ovviamente trovo Allevi dannoso per ogni forma possibile di espressione; non ritengo il pubblico "stupido" per antonomasia. Però difendere a tutti i costi una formula così complicata significa solo dare segni di debolezza. Oltretutto: seguire Umbria Jazz Winter è più oneroso rispetto al Summer; il pubblico è notoriamente meno giovane ma anche più abitudinario. Di ricambio generazionale e di toccate e fuga se ne vedono ben pochi: tirare troppo la corda potrebbe essere controproducente.
Premesso ciò, io ho assistito a due dei quattro concerti: quello del 30, decisamente annodato e autoreferenziale; quello del 31, istrionico ma anche - e finalmente - rispettoso nei confronti del pubblico.
In quello del 30, stanchi e spigolosi omaggi a Domino, Ellington, Monk e Coleman.
In quello del 31, briosi riconoscimenti a Silver, Monk, Gillespie, Giuffrè, Carter, Coleman e Ellington. A questi, va aggiunto un terrificante drum solo in cui Nash ha dimostrato che gli alieni sono tra noi, e suonano la batteria.
Già: Nash si conferma un dio dello strumento, capace di sparare nel giro di pochi secondi palle di fuoco e delicatissime piume; Lewis, invece, resta un eccellente sassofonista, ma con una cifra opaca e priva di guizzi.
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