Generalmente non mi soffermo mai sui fatti di cronaca, ma non per paura del sangue: semplicemente, non mi interessano. Tant'è che quando coordinavo il team dei social di RaiPlay avevo difficoltà a cimentarmi con le puntate di Chi l'ha visto: omicidi, sparizioni, risse e pettegolezzi non fanno proprio per me.
E però, dopo la visione di Diaz (qui una mia recensione) ho imparato ad avere stima per Daniele Vicari e ho deciso di acquistare questo suo "Emanuele nella battaglia".
La storia di Emanuele Morganti, la sua lenta e raccapricciante morte, mi erano note solo perché ogni tanto impattavo sulle foto dei delinquenti che gli sbriciolarono il corpo e l'anima durante una lunga e ipnotica rissa in quel della provincia laziale; ma mai avrei immaginato cosa ci fosse dietro.
Attenzione, per "dietro" non intendo chissà quale complottismo: "dietro" c'è un'Italia popolosa che però ci ostiniamo a non ri-conoscere, c'è una dissimulata bestialità sottopelle che spesso ci sfiora e con cui non facciamo mai i conti.
Il primo pregio dell'opera di Daniele è che non è un film. Avete letto bene. Non che non creda capace il Vicari di tirarci fuori qualcosa: è che una storia come questa ha senso ed effetto se viene "scritta"; e la "scrittura cinematografica" mal si attaglia con la quel tipo di profondità necessaria per raccontare la barbarie che circonda l'antefatto di quell'omicidio. Una barbarie che già definire tale è paradossalmente limitante: quando le parole pesano troppo, perdono di peso, diventando solo effetti sonori; la morte di Emanuele, invece, ha contesti e realtà che nuotano nel quotidiano senza soluzione di continuità.
Il secondo pregio dell'opera di Daniele è l'aver evitato accuratamente il macabro soffermarsi sui dettagli da macelleria. La macelleria delle anime meritava tempi narrativi e spazi che Vicari ha saputo regalare con rara sapienza. Muoversi tra le urla e le botte, tra il sangue e la viltà, tra il dolore e il terrore: un passo crudo ma felpato che merita molta attenzione.
Il terzo pregio è che Daniele ha agito come scrittore e non come regista che scrive. Tant'è che in alcuni momenti la lettura fa fatica, forse perché è una salita emotiva necessaria per arrivare in cima, là dove gli insiemi raccontati minuziosamente si fondono e confondono nell'amalgama provinciale.
Il quarto pregio è la ricerca senza conclusione, senza preconcetti. Il libro è una quasi-indagine e una quasi-cronaca di cui sappiamo già l'esito ma non il movente; e questo movente si dipana senza preconfezioni di sorta.
Come usano dire certi sapientoni "è un libro necessario", di una necessità che ricorda quel cinema italiano che Daniele ed io abbiamo studiato all'Università, un cinema denso e profondo (e anche popolare) di cui il nostro Paese avrebbe così tanto bisogno. Un cinema che sappia fare politica anche tramite l'estetica, esattamente come questo piccolo libro.
Le ultime trenta pagine sono devastanti, forti, crude ma molto eleganti. E mentre le leggevo mi sono reso conto di quanto abbia perso nel non mantenere i contatti con Daniele Vicari, perché una persona capace di scrivere un libro del genere è un uomo, cresciuto, maturo e consapevole; non il frullato di contraddizioni e dogmi tipiche di un ventenne, insomma.
Buona lettura.
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