Ma partiamo dall'inizio.
In sé per stessa, la serie è di assoluta qualità: su 208 episodi, giusto una ventina sono scadenti - o comunque ben lontani dallo standard; ma per quanto riguarda la struttura in generale, siamo di fronte a qualcosa di raro e di epocale.
E questa eccellenza si riflette soprattutto sulla scrittura: sempre in tiro, sempre precisa e ben spalmata lungo tutto l'arco della narrazione - sia in ogni singolo episodio che per tutte le nove stagioni.
I personaggi e gli interpreti, poi, sono ben disegnati e credibili, mai fuori tono e in un crescendum di progressioni caratteriali che anche nei momenti eccezionali - o di scarto narrativo, rispettano la bibbia di partenza.
È la scelta conclusiva che lascia molto a desiderare, ma non per partito preso o per affezione per un personaggio (o per un attore). A mio avviso, insomma, siamo di fronte a scelte da America perbenista.
In soldoni: Robin, la donna in carriera (un'eccellente Cobie Smulders), non potrà avere figli; anzi, la maternità le viene negata dal Fato. In eterna rincorsa di un'approvazione del padre, prova a realizzarsi con Barney, uno sciupafemmine pressoché sovrapponibile a lei, tanto che prima lo lascia per eccesso di somiglianza, poi lo sposa per eccesso di lontananza, e alla fine è "costretta" dalla trama a divorziare. Insomma, la sua carriera vince su tutto il resto (al di là del contentino finale, che nulla toglie e nulla aggiunge).
Barney è lo sciupafemmine seriale (Neil Patrick Harris, monumentale). Gli viene negato lo stesso dono ma al contrario: non potrà avere una donna stabile, perché le sue mani sono sporche di soldi e di sesso. Redenzione negata, se non col contentino di poter crescere una figlia non voluta, ma proprio con quei soldi di cui non si conosce l'esatta origine.
Ted è il protagonista (Josh Radnor, a volte stucchevole) e... ama l'amore. In tutte le sue prolusioni, l'amore vince, ma lui poi perde. Del resto, come mestiere fa l'architetto: costruisce bei palazzi, ma non potrà mai abitarli; e l'unico che prova a costruire per sé, passerà non poche peripezie prima di essere completato. E alla fine, del suo vero ultimo amore restano i figli, perché il Destino gli uccide la donna della vita. E sono proprio i figli a suggerirgli di tornare dalla donna che in fondo ha sempre amato, Robin. Ma è una sequenza finale tirata per i capelli.
Lily e Marshall (Alyson Hannigan, all'inizio bravissima e alla fine monocolore; Jason Segel, bravo in crescendum) rappresentano la coppia perfetta e perfettina. Nonostante abbiano esperienze umane e sessuali pari a zero, elargiscono consigli strutturati che pronunciati da loro sembrano più predicozzi preconfezionati che esperienze sul campo.
Ma la cosa che più evidenzia il mio pregiudizio contro la scelta degli autori è la sorte dei due loro personaggi. Lei rinuncia alla sua carriera come artista per sfornare almeno tre figli. Donna e artista è un controsenso, perlomeno per l'America bacchettona; quindi, meglio mamma e moglie devota.
Lui, da sbadato e ingenuo idealista, cosa diventerà? Giudice!
Lui, da sbadato e ingenuo idealista, cosa diventerà? Giudice!
Io non credo alle coincidenze: aver scelto come mestiere quello del giudice per il personaggio-guida è una scelta ponderata e voluta.
Tra tutti gli attori e i cameo vari, la Smulders e Harris vincono senza alcun dubbio.
Lei perché non fa la bella che fa la simpatica: è bella ed è simpatica, e all'occorrenza riesce a mortificare la sua bellezza o la sua simpatia senza strafare.
Su Harris, che dire? È mostruosamente bravissimo. Recitazione, canto, danza, mimo, non c'è attitudine che non sappia fare meglio di chiunque altro. Sotto molti aspetti, il vero protagonista della serie è lui, se non altro perché tiene spesso in mano le fila della trama e degli scarti narrativi, senza mai far pesare la sua presenza.
La domanda è molto semplice: cari autori, ma non potevate lasciare tutto come nel penultimo episodio?
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