Si legge in neanche un paio di giorni e la si dimentica quasi subito. Però, l’autobiografia di Ozzy Osbourne, il cantante metal per eccellenza recentemente scomparso, ha una caratteristica che la rende speciale: è onesta.
Non c’è autocompiacimento né assoluzione, neanche un condannarsi furbescamente per poi farsi perdonare dal lettore.
Ozzy racconta senza filtri le ennetante droghe e gli ennelitri di alcol che hanno costellato l’intera sua vita, facendogli raggiungere inimmaginabili vette di autodistruzione, di abbandoni, di disastri, che raramente potrete vedere così accumulati in una sola persona.
È come se Osbourne avesse scritto di getto, con il chiaro intento di non rileggersi, per non trovare una scappatoia narrativa che suscitasse empatia al lettore.
Ovviamente, non è il libro da leggere assolutamente, né tantomeno ha qualche pagina utile per chi volesse conoscere la Storia dei Black Sabbath o la Storia della Musica; però l’ho letto fino alla fine - sempre con partecipata curiosità - proprio perché sono evidenti e cristallini la sincerità, l’accettarsi nei propri abnormi errori, il rendere grazie a chi l’ha più volte salvato dal baratro, il darsi il giusto posto nel panorama musicale di quegli anni.
Se quando era appena morto, mi ero dispiaciuto come ascoltatore affezionato dei migliori Sabbath, dopo aver letto questa sua autobiografia sento di aver perso una persona cara; non dico un amico, ma almeno qualcuno che mi avrebbe potuto perlomeno fermare quando incorrevo in uno dei miei difetti più radicati
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