Quella di Leonard Bernstein è stata una personalità così multiforme e multicolore, che è complicato riassumerla in poche righe.
Innanzitutto, fu tra i pochi suoi contemporanei a credere nella contaminazione tra generi, tanto che le sue stesse composizioni spaziano in maniera dolce e credibile dal Mozart più austero al jazz be-bop, passando per Beethoven o per la dodecafonia.
È stato tra i primi a restituire la giusta visibilità alla musica di Gustav Mahler, dando risalto alla sua insospettabile leggerezza, ma anche enfatizzandone i riferimenti alla cultura ebraica, sparsi nelle sue nove sinfonie. Personalmente, preferisco le direzioni del compianto Sinopoli, asburgiche e spirituali al tempo stesso; ma il Mahler di Bernstein è veramente oltre.
Bernstein sapeva divulgare con grazia, competenza e misura, coinvolgendo anche le menti poco avvertite e i giovanissimi. Inoltre, ha stravolto la composizione dei musical, con partiture di rara modernità e freschezza, aggiornando l’intero genere e donandogli nuova linfa vitale.
Le sue direzioni erano muscolari, esagerate, esagitate, piene di sudore e fatica, ma anche di sorrisi e rinascite; sicuramente, uniche e indimenticabili.
Non ha mai sofferto la sua bisessualità né tantomeno obbligato i suoi cari a comprenderla.
Ebbene, tutto questo (e molto altro che ho dimenticato) s’intravede appena in Maestro, un film fatto di molti (troppi) accenni. Molti critici hanno insistito nel dire che il perno della trama sia l’omosessualità di Bernstein - e la sua sofferenza nel viverla. In realtà, tutta questa sofferenza nel film non si vede. Oltretutto, era cosa nota a tutti! Perché inventarsi un drammone così inesistente?
Il vero problema è che il film non funziona del tutto, risultando piacevole ma lungo e rarefatto. Non ha un vero e proprio riferimento, non centra l’importanza di una figura così fondamentale per la cultura occidentale. Certo, la direzione della fotografia è impeccabile, Bradley Cooper è esatto, Carey Mulligan è magnifica; ma non bastano
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