26 marzo 2021

l'amore per il jazz

Velletri, estate 1988. Con quei pochi soldi che avevo, potevo giusto permettermi un paese a pochi chilometri da casa, in un appartamento scrauso, sotto un fornaio che mi svegliava ogni notte alle 4:00 per servire mezzo paese. 15 giorni di licenza, perché anche chi svolgeva Servizio Civile ne aveva diritto.
Il paese era quasi privo di turisti, di gente estranea a quel costante viva vai che neutralizza la provincia nell'eterno presente delle ritualità quotidiane, dove tutti si conoscono e si sopportano e magari si supportano.
Conoscevo poco di jazz, pochissimo. Forse perché in quel periodo navigavo dentro il progressive, forse perché le mie scoperte musicali erano occasionali, tutt'altro che incentivate da fratelli o amici o parenti. Ma forse è stata un fortuna, perché almeno ho potuto meravigliarmi di ogni scoperta sonora sempre con candore, con innocente entusiasmo e anche con un pizzico di sana ingenuità.
Per trattenere quel poco di estranei che bazzicavano da quelle parti, era stato organizzato una sorta di festival del cinema all'aperto nel cui cartellone figuravano un paio di film musicali e niente più. Lo schermo era un telone dozzinale tenuto da quattro corde improvvisate, piazzato sulla parete di un palazzo illuminato alla volemosebene. La platea era una rampa di scale di marmo che davano su un palazzo vetusto, tra i pochi sopravvissuti ai palazzinari
foraggiati dagli allora imperanti DC o PCI.
Eravamo tre-spettatori-tre, più un ubriaco spalmato sotto lo pseudoschermo. Faceva freddo, perlomeno per i vestiti estivi che facevano finta di coprirci: tirava quella dolce brezza laziale che trasporta odori e profumi e un po' di umidità campagnola. Silenzio, se non il proiettore che brontolava come un diesel parcheggiato sotto casa.
Parte un rullante, leggero e misurato, entra un pianoforte contrappuntato nitidamente da un contrabbasso vellutato, ecco una voce che rincorre una melodia complessa, complicata, ma che all'orecchio sembra una dolce sinfonia, un racconto di uomini di notte, che fumano con passione sigarette fatte a mano e sorseggiano alcol dozzinale come fosse nettare degli dèi. Senti il profumo di donne affaticate dal destino, che abbracciano le spalle nodose di uomini di fortuna. La polvere in penombra galleggia tra pensieri e parole piene di dignità.
E poi arriva l'assolo di Herbie Hancock, che gira intorno alle crome quadrate di Monk e alla metronomica precisione di Bach, passando per Evans, Bley, Debussy e una negritudine colma di storie africane e di riscatti in sottovoce.
Il film è bellissimo, dolente e sornione, una dichiarazione d'amore per il jazz e per gli uomini che l'hanno suonato, per la cultura che l'ha generato, per il coraggio che ci vuole a mettersi sempre in dubbio, a esplorare note nuove, a vivere dentro la passione fino a uccidersi lentamente e consapevolmente.
Mi ero innamorato all'istante del jazz, di Parigi, del regista, di Monk, di tutto quello che questo immenso capolavoro conteneva in sé o indicava con tremante amore.
Il film era "'Round Midnight", uscito due anni prima. 
Il regista era Bertrand Tavernier, morto ieri a 79 anni.

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