16 dicembre 2019

colori e qualità di STORIA DI UN MATRIMONIO

Se aspirate a diventare autori o attori, questo è il film che fa per voi.
Non c'è nulla fuori posto. 
Anzi, se non fosse che quest'anno ho assistito a pochi film, mi viene da dire che nel suo genere è il migliore che abbia mai visto dai tempi di Carnage.
Innanzitutto, i tempi narrativi: perfetti sotto ogni punto di vista, sia sul piano tecnico che su quello dei contenuti. Chiaramente figlio di una versione per teatro, mantiene ben salda la sua forza cinematografica con un uso sapiente e intelligente della telecamera: movimento o staticità conformi esattamente all'incedere della narrazione, tanto che non distraggono mai lo spettatore, accompagnandolo addirittura dentro i dialoghi e/o la recitazione non verbale.
Poi, il montaggio: mai fine a se stesso, sempre pronto a mantenere i piano-sequenza quando diventa fondamentale concentrarsi sulla recitazione.
I dialoghi! Da segnare almeno tre: lo splendido monologo della Johansson con la sua futura avvocata; lo scontro tra gli avvocati; il successivo furioso litigio tra i due divorziandi.
E, a proposito di questo litigio, seguite la scenografia e i costumi. Driver è vestito con la stessa gamma di colori della sua cucina; la Johansson, invece, ha la stessa nuance del salotto. I loro scontri verbali, fatti di invasioni e di rese, di urla e di silenzi, di movimenti e di tracolli... sono anche continui sconfinamenti di colore e di territorio: complimenti al regista che ha congegnato un simile sottotesto; veramente complimenti!
I protagonisti sono monumentali, tutti e cinque: lei è sontuosa, felpata, ricca di sfumature; lui è incredibilmente attento a mantenere autentica la misura delle sue fragilità; Alan Alda commuove nel suo aplomb agé, così ingenuo e onesto; Ray Liotta è caricato con i giusti pallettoni del figlio di puttana che deve essere; Laura Dern è un'avvocata infida e disincantata così credibile che sembra lo sia stata da sempre.
La recitazione dei protagonisti, insomma, non gigioneggia, non è didascalica, non si lascia andare a voci in maschera impostate che farfugliano principi in cui non credono: è tutto così genuino e naturale, così doloroso e credibile, che per due ore e mezza lo spettatore entra dentro altri mondi e altre realtà, isolandosi spontaneamente dalle proprie, quasi senza accorgersene.
A latere, voglio segnare come - nonostante un paio di sequenze debitrici - non stiamo di fronte al dramma borghese alla Woody Allen, di quei borghesi lontani dalla reale realtà. Qui si parla di sentimenti, di sentimenti veri, di quelli che possono provare ricchi o poveri, colti o ignoranti. 
Del resto, il personaggio di Adam Driver deve combattere anche con la sua precarietà economica, che ha un apprezzabile peso narrativo e mantiene viva la sottotrama che si risolve nel finale.
Da vedere assolutamente in lingua originale.

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