17 ottobre 2024

IL CUORE SELVAGGIO DELLA NATURA di David Quammen

Ci sono ancora grandi paesaggi e grandi possibilità in tutto il mondo. Il cuore selvaggio della natura è intrinseco all'estensione, alla connessione, alla diversità e ai processi dei grandi ecosistemi. Finché noi esseri umani riconosceremo questa realtà, la rispetteremo e ci sforzeremo di preservare quegli elementi tramite iniziative appassionate e sagge come quelle che ho descritto nel libro, in mezzo a luoghi magnifici che comprendono quelli ritratti in queste pagine ma anche altri, il cuore continuerà a battere
Confesso che ho trovato più avvincente questa chiosa invece del libro nella sua totalità
Nato come collazione dei migliori articoli che Quammen ha scritto nel corso degli anni per il National Geographic, è un testo diviso involontariamente a metà (letteralmente: anche nel numero delle pagine): la prima, è troppo legata al servizio fotografico di riferimento (assente in questo libro), e quindi non ha né nerbo né potenza evocativa; la seconda, si regge da sola e ha dei momenti avvincenti contro altri quasi normali.
Non è sicuramente il miglior Quammen.

12 ottobre 2024

il cinismo di PRIVATE PRACTICE

Dopo il marito che abbandona la moglie a morte certa, vi propongo un’altra scena che mi ha lasciato l’amaro in bocca, questa volta da un telefilm (o serie televisiva, come si usa dire adesso).
Private Practice
(2007 - 2013) è un medical drama nato dalla costola di Grey’s Anatomy (2005 - in corso), ma senza la capacità di mantenere a lungo l’attenzione del pubblico, nonostante i pattern narrativi siano pressoché identici. Uno dei motivi sta nella sua formula di base: sette dottori chiusi in quattro mura marroni, che a rotazione scherzano, amoreggiano, curano, sbagliano, urlano, piangono, litigano, fanno pace… claustrofobia assicurata, insomma. A questi, aggiungiamo storie collaterali che aprono e chiudono dentro quelle mura marroni, dialoghi di plastica, empatia dei personaggi pari a quella di un bradipo, fotografia da kodak instamatic anni ‘70, trame e sceneggiature che neanche il mio gatto, musiche in stile Beautiful del Prenestino.
Il 12esimo episodio della seconda stagione si distingue per un caso medico di rara cattiveria. Un tipo vedovo ha una malattia congenita che ha trasmesso anche ai due piccoli figli. La cosa cinica è che tra i due, la bambina morirà sicuramente entro breve, e non potrà trascorrere gli ultimi mesi di vita accanto al papà e al fratello, altrimenti moriranno sicuramente anche loro.
Ergo, il padre ha di fronte un bivio: o si preoccupa di stabilizzare la sua condizione e quella del figlioletto, per poi aiutarlo a crescere con una certa sicurezza e con un papà accanto; oppure lo lascia solo, magari in adozione, accompagnando invece la bambina al suo destino, per poi morire poco dopo anche lui.
Ora, io non so come definire una mente che si inventa una trama simile, ma anche in questo caso mi sono posto la domanda dell’altra volta: io, cosa avrei fatto?

05 ottobre 2024

gli assolo di DAVID GILMOUR

La scorsa fine settimana, l’eternamente paralizzato traffico di Roma ha ulteriormente stravolto la legge sull’impenetrabilità dei corpi, per dare spazio in quel del Circo Massimo ai sei concerti consecutivi di David Gilmour, mitologico chitarrista dei Pink Floyd. E allora mi sono ricordato una curiosità che lo vede protagonista.

Ho sempre visto in Gilmour un chitarrista notevole, ma senza la voluta volontà di uscire dal suo stile: note precise, fraseggi blues, un pizzico di funky, assolo esatti… ma sempre gilmouriani.

Tra questi, reputo indimenticabili giusto quello che apre Shine On You Crazy Diamond, le fucilate di Have a Cigar e l’acciaio fuso che scoperchia Money. A latere, il suo lavoro su Animals meriterebbe un discorso a parte, ma poi vi annoierei.

Solo altri due assolo di Gilmour superano l’oltre: li trovate in The Wall, un doppio LP potente e travagliato.

Il primo è in Another Brick in the Wall part 2, che conoscete anche se non amate i Pink Floyd: è la canzone col ritornello cantato da un coro di bambini; a suo tempo, fu vietata in qualche paese poco democratico, visto che il testo è contro ogni forma di prevaricazione. Sentite bene l’assolo, attentamente: è “diverso”, soprattutto alla fine. Non tanto per la tecnica, ma per la personalità della linea musicale.

Il secondo è in Comfortably Numb: qui, per la prima volta, Gilmour racconta una storia, quasi come compendio del testo (già di per sé struggente).

Perché questi due assolo sono così poco gilmouriani? In minima parte, i motivi si annidano anche nel contesto storico: è l’ultimo LP in cui i Pink Floyd riescono a dare il meglio - e in maniera collegiale, quindi con scambi di opinioni e contributi; la dura crisi tra i componenti non è ancora deflagrata, ed è come se ci fosse una voglia non dichiarata di chiudere bene la storia del gruppo; i temi trattati, universali e intimi al tempo stesso, che quasi offuscano i vari ego; la stanchezza compositiva, che spesso genera guizzi artistici.

Il vero motivo si trova tra i nomi dei session men che collaborarono, tra cui Lee Ritenour, chitarrista raffinatissimo e capace di spaziare dal jazz al pop con uno stile cristallino, elegante, propositivo e innovativo.

Nell’intervista che ha concesso a Mason Marangella - e nell’analisi tecnica di Claudio Cicolin, troverete spunti e curiosità che raccontano il suo ruolo all’interno del progetto del Muro: nulla tolgono a Gilmour, ma chiariscono molti dubbi artistici, dando anche un’idea di cosa siano stati quegli anni, in cui la musica e le persone erano ancora al centro delle composizioni

28 settembre 2024

la terribile domanda di 28 SETTIMANE DOPO

In questi giorni, è ritornato in auge il raffinato franchising nato con 28 giorni dopo (2002), perché l’imminente e attesissimo terzo film è stato girato esclusivamente con una serie di iPhone 15 Pro Max adattati per l'occasione.

Ne approfitto allora per raccontarvi una scena del sequel, perché pone un interrogativo potente.

28 settimane dopo (2007) inizia con tre famiglie rinchiuse in un cottage tipicamente inglese, con le finestre sbarrate e oscurate, e la paura asfissiante di fare una brutta fine. Là fuori, infatti, c’è la rabbia: basta un minimo rumore per attirare le persone infette, violentissime, affamate, feroci e crudeli.

Il tempo di accogliere un bimbo fuggito da chissà dove, che uno dei mostri sfonda la porta d’ingresso, portando con sé altri mostri. Subito le famiglie si sparpagliano in disordine, annientate dal panico, ma senza speranza: ognuno viene sopraffatto con una rapidità - e un’estetica filmica - che lascia lo spettatore senza fiato.

Resistono solo una coppia e il bimbo. Il marito fugge nel fienile, passa in un bagno e finisce in una stanza da letto; la moglie e il trovatello, invece, sono riusciti ad arrivare in quella stessa stanza da letto, ma dall’entrata principale. Tra l’uomo e la donna si intromette un infetto, seguito da molti altri. L’uomo potrebbe provare a salvare almeno la donna, ma sicuramente morirebbe… e allora scappa, abbandonando l’amata moglie e il piccolo al loro destino: una scena terribile che fa veramente male, in cui Robert Carlyle dimostra eccellenti qualità recitative, rendendo palpabile la battaglia interiore tra la viltà dimostrata e lo spirito di sopravvivenza.

Per quanto sia una scena breve, utile per introdurre un elemento fondamentale per il prosieguo della trama, io l’ho vissuta e la vivo da una prospettiva realistica, ponendomi sempre la stessa domanda: io, cosa avrei fatto?

14 settembre 2024

intorno a FEAR THE WALKING DEAD

Nella mia rassegna stampa settimanale, alla fine della pandemia segnalai uno studio pubblicato su Science Direct secondo cui i super-appassionati di horror, ucronie e distopie, sarebbero stati psicologicamente avvantaggiati nell’affrontare momenti così difficili, abituati come sono a leggere/vedere fiction su apocalissi da virus o da guerre distruttive.

Ebbene, se non siete tra questi, e temete una pandemia da Mpox (erroneamente chiamato “vaiolo delle scimmie”) o da un virus scaturito dall’Artico (come ipotizzato da Nature), ecco una serie che vi preparerà più che bene.

Il 21 aprile 2024, in Italia è stato trasmesso l’ultimo episodio dell’ottava e ultima stagione di Fear the Walking Dead, spin-off (e quasi-prequel) di Walking Dead (la serie televisiva sugli zombi, debitrice alla lontana anche dell’eruzione del vulcano Tambora, come sanno i lettori della rassegna).

Se Walking dimostra quanto possa essere miserabile il comportamento di ognuno di noi di fronte a una catastrofe senza ritorno, Fear insegue le persone “normali” sperando che si trasformino in eroi senza macchia. Walking è fiction, Fear punta al realismo.

A differenza della serie madre, che regge fino a metà della settima stagione (su undici), Fear diventa sempre più friabile già dopo la terza: tra sceneggiature altalenanti e cliffangher improvvisati, non mantiene le premesse delle stagioni iniziali. Soprattutto la prima, merita una visione senza preconcetti e paure: pochissimo splatter (e ben dissimulato); tempi narrativi lunghi, lunghissimi, assimilabili al tempo reale; dialoghi ridotti al minimo; protagonisti credibili; scarti narrativi quasi assenti; musica rara e rada, montaggio fluido e direzione della fotografia senza protagonismi.

Per i primi quattro episodi, non si vede nulla: l’angoscia è allusa, di sottofondo, cresce lentamente dentro una realtà quotidiana che ancora non sa e non ha capito cosa stia accadendo; lo spettatore spera sempre che tutto vada per il meglio, perché partecipa con la parte irrazionale di sé. Non fa presa il lento manifestarsi dei morti che camminano, ma la sorte dei vivi che repentinamente stanno perdendo la quotidianità, soprattutto quella degli automatismi; che poi è la parte più importante della nostra vita, perché ci protegge e dà un senso alle cose.

Al contrario dei film sullo stessa tema, costretti per motivi di spazio a riassumere in neanche dieci minuti la caduta verso l’abisso, Fear ha tutto il tempo per avvolgerci con grazia, tirare poi con calma l’elastico della tensione, e quindi BAM!, presentarci il conto delle nostre emozioni. Nella sua apparente lentezza, episodio dopo episodio sentiremo crescere dentro di noi un’angoscia personale, intima e privata, che val al di là di quattro mostriciattoli affamati della nostra carne. Una prima stagione terapeutica, insomma, che vale la pena di vedere tutta d’un fiato

04 settembre 2024

DUNKERQUE di Franco Cardini e Sergio Valzania (Mondadori)

C'è più del resoconto storico dentro questo accurato libro su uno dei drammi più avvincenti della Seconda Guerra Mondiale: ci sono ipotesi aggiornate, ricostruzioni inedite, una certa attenzione per la "ragione" degli eventi (i buoni e i cattivi ci sono, ma nel loro ruolo esatto, non di parte), una capacità di analizzare il contesto e le sue conseguenze, andando ben oltre le ideologie o le faziosità di comodo.
È anche un viaggio dentro la mente dei protagonisti, con una voglia estrema di chiudere tutti i punti in sospeso, ma con l'implicita consapevolezza che qualche spiffero resterà comunque aperto. 
Ci sono stati momenti in cui se i francesi avessero osato, avessero creduto nella loro forza, fossero stati comandati da militari capaci, avrebbero potuto respingere il nemico. 
Così come ci sono stati momenti in cui i tedeschi, anziché fermarsi per qualche giorno (tra timori tattici e invidie tra ufficiali) per poi riprendere l'assedio, avrebbero potuto annientare immediatamente gli esuli di quelle spiagge, seppellendo sul nascere il mantra churchelliano della riscossa e della rivincita, che pochi anni dopo lo porterà a conquistare la Normandia.
I capitoli finali affrontano temi ancora irrisolti sulle reali intenzioni di Hitler, sul suo essere forse consapevole che da dopo l'invasione della Polonia, ogni singolo passo successivo avrebbe sicuramente portato la Germania verso la distruzione.
La Seconda Guerra Mondiale era evitabile? La Germania partiva già sconfitta? Mussolini avrebbe potuto gestire meglio il suo iniziale ruolo di mediatore?
Domande curiose, forse oziose, ma che nulla tolgono agli eroi (anche civili) che con mille barchette e velieri salvarono migliaia di uomini da morte certa.

LA BARONESSA [Nica Koenigswarter] di Hannah Rotschild (Neri Pozza)

Mi riesce difficile parlare di questo libro senza scadere nel miele e nella retorica: nutro uno spontaneo affetto per Nica e per tutto quello che rappresenta; e questa biografia così lucida e morbida, dolce e sincera, ha soddisfatto appieno il mio palato così condizionato.
Scritta dalla nipote, con uno stile asciutto e preciso, questa biografia racconta Pannonica dagli inizi fino alla sua morte, passando per il dramma della Shoah (che colpirà direttamente anche la famiglia Rotschild), per un'Europa umiliata dal nazifascismo, per un'America liberatrice ma ancora provinciale e razzista, per il mondo del jazz sempre in bilico tra fascino e autodistruzione.
Pannonica era una donna fuori dal suo tempo, ma, sotto molti aspetti, fuori da tutti i tempi. Femminile e indipendente, mamma distratta ma affettuosa, imprenditrice istintiva ma non cinica, appassionata delle novità e delle cose belle, maestra di vita ma nel contempo infantile e spregiudicata.
Ovviamente, non mancano le pagine dedicate alla sua casta storia d'amicizia con Thelonious Monk, i suoi incontri con geni del persempre come Charlie Parker e come cento altri nomi che farebbero tremare i polsi anche all'esperto più navigato.
Un libro che può piacere sia al critico aperto e bendisposto, come anche a chi non ama le biografie e preferisce la classica forma-romanzo.

LA FORZA E L'ASTUZIA [la battaglia di Salamina] di Barry Strauss (Laterza)

C'è qualcosa di straordinario in questo libro, che arriva lentamente, quasi di soppiatto, lasciando il lettore affascinato e quasi ammutolito. Non è solo la qualità della narrazione, la capacità dell'autore di tenere insieme il racconto e la realtà: è la Storia in sé, la caparbietà di un singolo eroe di saper vincere una battaglia leggendaria, in cui tutto era decisamente a sfavore, senza speranza.
Eppure, Temistocle riuscì a sconfiggere un esercito imponente, una flotta sterminata, un Re invincibile. Ma, soprattutto, riuscì a tenere coesi i greci, i loro nemici "minori", i loro alleati, arrivando addirittura a sacrificare temporaneamente Atene pur di vincere la battaglia più importante.
Giorno per giorno, attimo per attimo, scopriamo una storia nella Storia, in cui niente è bianco o nero, né tantomeno sfumato alla bisogna: ogni tassello della vittoria è frutto di compromessi e violenze, di errori e salti in avanti; un turbinìo di eventi che vale la pena leggere tutto d'un fiato.

ps: fossi in voi, lo leggerei dopo questo libro

29 agosto 2024

IL GIARDINO DELLE BESTIE di Erik Larson (Neri Pozza)

Erik Larson si avventura dentro i diari di William E. Dodd e di sua figlia Martha per entrare dentro l'orrore puro, quello nero, senza speranza, senza requie, senza uscita, del Nazismo delle origini.
Lui è l'ultimo ambasciatore USA prima che la Germania costringa il Mondo negli inferi della Seconda Guerra Mondiale. Lei è la figlia, all'inizio conturbata dalla perfezione di quel male e poi futura collaboratrice dell'Unione Sovietica.
Testimoni quasi oculari della Notte dei lunghi coltelli, vivono sulla propria anima la visione di una violenza all'inizio in filigrana (come nell'Uovo del serpente, dirà il regista Ingmar Bergman), poi sempre più manifesta e selvaggia, così non credibile che a raccontarla ancora oggi sembra impossibile sia accaduta e originata e approvata da milioni di persone. Che poi, a dirla tutta, soprattutto all'inizio i nazisti imitavano il verminaio fascista, allora ancora apparentemente forte e indistruttibile, con la sua genesi di violenza pura contro chiunque non fosse "normale".
Ma è un libro che racconta anche gli Stati Uniti, ciechi e avidi di fronte all'ascesa del Nazismo, da far volutamente finta di non capire la portata di quella follia, il suo radicato antisemitismo, l'evidente progettazione della Shoah.
Un libro potente nella sua narrazione così liquida e semplice, i cui protagonisti potrebbero essere sostituiti da chi si volterà dall'altra parte durante le mille altre realtà violente che hanno costellato l'Europa del Secondo Dopoguerra.