01 novembre 2024

I FUNERALI CHE CELEBRIAMO

Poche settimane fa, un minorenne è morto schiantandosi contro un muro. A indagini ancora in corso, non ha senso aggiungere altro, come purtroppo hanno fatto alcuni giornalisti, pubblicando persino nome e cognome del disgraziato, quando invece è vietato dalla legge (e dalla deontologia).

Io vorrei parlarvi del funerale, con la sottolineata premessa che le mie parole sembreranno spigoli giudicanti. In realtà, l’ho vissuto con commozione e costernazione, perché una vita così giovane non può diventare cenere così presto. Oltretutto, quello che ho visto era “naturale”, vissuto da ogni possibile ceto sociale con la stessa intensa spontaneità.

Ebbene, quasi tutti i numerosissimi presenti si comportavano come fossero in una diretta social, come se si sentissero costantemente inquadrati: espressioni, gesti, movenze, sguardi, lacrime, sembravano sovrapponibili a quelli che vedo sui video che scrollo ogni tanto pigramente.

Addirittura, c’era chi dal pulpito immortalava con lo smartphone la platea, chi dava il tempo per sganciare in cielo i palloncini bianchi o per accendere i fumogeni con i colori della squadra preferita dal povero defunto. Lenzuola sulla cancellata della chiesa scritte con caratteri runici (quindi, fascisticheggianti) da parte di famiglie notoriamente si sinistra. Disegni sul marciapiede con relativi selfie di gruppo. Magliette distribuite con sopra scritto il motto preferito dal ragazzo. I giovani genitori, abbagliati dal dolore, hanno fatto un discorso con una sequenza di brevi slogan in stile caption da postare; la madre, addirittura, ha proposto una sorta di call to action cui i giovani amici del povero defunto hanno partecipato con entusiasmo.

Non giudico nulla, per carità; né tantomeno mi interessa far finta di sembrare in linea con questa reale realtà di cui tutti facciamo parte, inconsapevolmente e spontaneamente. Del resto, se un primitivo avesse visto un funerale del Medioevo avrebbe espresso qualche grugnito di disappunto.

Il nodo è che la cultura del nostro microquotidiano è ormai così intrisa di queste nuove contaminazioni, così appiccicate ma ancora così poco comprese, che una semplice preghiera, una lacrima nascosta, una citazione poetica, sarebbero sembrate rivoluzionarie… anche per me

19 ottobre 2024

intorno a GIULI

Quindici giorni fa, il discorso dell’appena insediato Ministro Alessandro Giuli (qui il video - qui la trascrizione) ha generato meme e battute molto divertenti, ma ha anche prestato il fianco ad almeno due considerazioni.

La prima, piccina ma necessaria: fosse stato “uno dei nostri” a esporlo, avremmo gridato al ritorno della profondità in un Ministero così importante, soprattutto per il nostro Paese, così denso di testimonianze culturali di ogni tempo.

La seconda, meno piccina ma altrettanto necessaria: a che punto siamo arrivati se un discorso complesso sia diventato motivo di diffusa ilarità, anziché di plauso per il ritorno alla profondità (sebbene esposta in modo timido, rancoroso e apparentemente non testato)?

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Forse perché l’uomo di cultura non sa comunicare? Oppure non vuole saper comunicare? E quindi, forse anche grazie al social-ismo, sarà sempre più improbabile trovare un uditorio accogliente?

Trentacinque anni fa, entrai in polemica col Professor Guido Aristarco, proprio perché trovavo la sua invidiabile eloquenza troppo complessa e incoerente col suo dichiarato intento di voler arrivare al popolo. Lui rispose, sintetizzo malamente, che è il popolo che si deve elevare e non l’uomo di cultura abbassare. Che, in parte, è anche giusto; altrimenti, si rasenta la banalità.

È un problema antico come è antica l’essenza della sinistra, che di fatto ha generato almeno un equivoco: quel parlo male per darmi un tono, che Nanni Moretti aveva stranamente ben sintetizzato in una scena ormai icastica. E questo darmi un tono, sempre sintetizzando malamente, ha allontanato la gggente dalla cultura, perché è facile per le persone semplici confondere la cultura con chi la racconta o la rappresenta - generando, peraltro, quella facile dialettica di destra che osteggia e fa osteggiare il colto perché il suo stesso status umilia la gggente.

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Oppure sarà sempre così, perché alla gggente interessa poco la cultura.

Quando si dice che le “televisioni di Berlusconi” hanno reso stupidi gli italiani, ci si dimentica di aggiungere che evidentemente era fallito il “nostro” modo di avvicinare le persone alla profondità.

La famiglia Angela ci ha insegnato che si può avvicinare la gggente alle cose belle, presentandole con leggerezza e semplicità; ma è stata un’eccezione, visto che negli uomini di cultura prevaleva il modus vivendi di Aristarco.

Adesso, poi, il social-ismo e l’engagement comportano la sussistenza di bolle artefatte che ci fanno credere di essere all’altezza delle nostre aspettative. E appena arriva un corpo estraneo, come il discorso di Giuli, lo allontaniamo o lo banalizziamo con la derisione.

E paradossalmente, anche le persone di cultura, alimentandosi sempre più solo di sé stesse, perdendo di vista ogni possibile confronto, si stanno sempre più allontanando dalla gggente, perché non dà più senso alla loro preparazione (mediocre, peraltro, rispetto a quelle dei grandi del passato, da Pasolini in su).

Se devi comunicare il bello devi sacrificare il tuo ego; e in questo social-ismo così gratificante, non solo non conviene ma fa paura.

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È un discorso che meriterebbe più argomentazioni, è evidente.

In tutto questo, lungi da me “difendere” Giuli (per quanto trovi patetico presentare il mio curriculum politico per dare valore alle mie parole): alla fine, tra tutti i commenti che ho trovato sensati, spiccano quelli di Daniele Capra (qui) e di Stefano Monti (qui)

17 ottobre 2024

IL CUORE SELVAGGIO DELLA NATURA di David Quammen

Ci sono ancora grandi paesaggi e grandi possibilità in tutto il mondo. Il cuore selvaggio della natura è intrinseco all'estensione, alla connessione, alla diversità e ai processi dei grandi ecosistemi. Finché noi esseri umani riconosceremo questa realtà, la rispetteremo e ci sforzeremo di preservare quegli elementi tramite iniziative appassionate e sagge come quelle che ho descritto nel libro, in mezzo a luoghi magnifici che comprendono quelli ritratti in queste pagine ma anche altri, il cuore continuerà a battere
Confesso che ho trovato più avvincente questa chiosa invece del libro nella sua totalità
Nato come collazione dei migliori articoli che Quammen ha scritto nel corso degli anni per il National Geographic, è un testo diviso involontariamente a metà (letteralmente: anche nel numero delle pagine): la prima, è troppo legata al servizio fotografico di riferimento (assente in questo libro), e quindi non ha né nerbo né potenza evocativa; la seconda, si regge da sola e ha dei momenti avvincenti contro altri quasi normali.
Non è sicuramente il miglior Quammen.

12 ottobre 2024

il cinismo di PRIVATE PRACTICE

Dopo il marito che abbandona la moglie a morte certa, vi propongo un’altra scena che mi ha lasciato l’amaro in bocca, questa volta da un telefilm (o serie televisiva, come si usa dire adesso).
Private Practice
(2007 - 2013) è un medical drama nato dalla costola di Grey’s Anatomy (2005 - in corso), ma senza la capacità di mantenere a lungo l’attenzione del pubblico, nonostante i pattern narrativi siano pressoché identici. Uno dei motivi sta nella sua formula di base: sette dottori chiusi in quattro mura marroni, che a rotazione scherzano, amoreggiano, curano, sbagliano, urlano, piangono, litigano, fanno pace… claustrofobia assicurata, insomma. A questi, aggiungiamo storie collaterali che aprono e chiudono dentro quelle mura marroni, dialoghi di plastica, empatia dei personaggi pari a quella di un bradipo, fotografia da kodak instamatic anni ‘70, trame e sceneggiature che neanche il mio gatto, musiche in stile Beautiful del Prenestino.
Il 12esimo episodio della seconda stagione si distingue per un caso medico di rara cattiveria. Un tipo vedovo ha una malattia congenita che ha trasmesso anche ai due piccoli figli. La cosa cinica è che tra i due, la bambina morirà sicuramente entro breve, e non potrà trascorrere gli ultimi mesi di vita accanto al papà e al fratello, altrimenti moriranno sicuramente anche loro.
Ergo, il padre ha di fronte un bivio: o si preoccupa di stabilizzare la sua condizione e quella del figlioletto, per poi aiutarlo a crescere con una certa sicurezza e con un papà accanto; oppure lo lascia solo, magari in adozione, accompagnando invece la bambina al suo destino, per poi morire poco dopo anche lui.
Ora, io non so come definire una mente che si inventa una trama simile, ma anche in questo caso mi sono posto la domanda dell’altra volta: io, cosa avrei fatto?

05 ottobre 2024

gli assolo di DAVID GILMOUR

La scorsa fine settimana, l’eternamente paralizzato traffico di Roma ha ulteriormente stravolto la legge sull’impenetrabilità dei corpi, per dare spazio in quel del Circo Massimo ai sei concerti consecutivi di David Gilmour, mitologico chitarrista dei Pink Floyd. E allora mi sono ricordato una curiosità che lo vede protagonista.

Ho sempre visto in Gilmour un chitarrista notevole, ma senza la voluta volontà di uscire dal suo stile: note precise, fraseggi blues, un pizzico di funky, assolo esatti… ma sempre gilmouriani.

Tra questi, reputo indimenticabili giusto quello che apre Shine On You Crazy Diamond, le fucilate di Have a Cigar e l’acciaio fuso che scoperchia Money. A latere, il suo lavoro su Animals meriterebbe un discorso a parte, ma poi vi annoierei.

Solo altri due assolo di Gilmour superano l’oltre: li trovate in The Wall, un doppio LP potente e travagliato.

Il primo è in Another Brick in the Wall part 2, che conoscete anche se non amate i Pink Floyd: è la canzone col ritornello cantato da un coro di bambini; a suo tempo, fu vietata in qualche paese poco democratico, visto che il testo è contro ogni forma di prevaricazione. Sentite bene l’assolo, attentamente: è “diverso”, soprattutto alla fine. Non tanto per la tecnica, ma per la personalità della linea musicale.

Il secondo è in Comfortably Numb: qui, per la prima volta, Gilmour racconta una storia, quasi come compendio del testo (già di per sé struggente).

Perché questi due assolo sono così poco gilmouriani? In minima parte, i motivi si annidano anche nel contesto storico: è l’ultimo LP in cui i Pink Floyd riescono a dare il meglio - e in maniera collegiale, quindi con scambi di opinioni e contributi; la dura crisi tra i componenti non è ancora deflagrata, ed è come se ci fosse una voglia non dichiarata di chiudere bene la storia del gruppo; i temi trattati, universali e intimi al tempo stesso, che quasi offuscano i vari ego; la stanchezza compositiva, che spesso genera guizzi artistici.

Il vero motivo si trova tra i nomi dei session men che collaborarono, tra cui Lee Ritenour, chitarrista raffinatissimo e capace di spaziare dal jazz al pop con uno stile cristallino, elegante, propositivo e innovativo.

Nell’intervista che ha concesso a Mason Marangella - e nell’analisi tecnica di Claudio Cicolin, troverete spunti e curiosità che raccontano il suo ruolo all’interno del progetto del Muro: nulla tolgono a Gilmour, ma chiariscono molti dubbi artistici, dando anche un’idea di cosa siano stati quegli anni, in cui la musica e le persone erano ancora al centro delle composizioni

28 settembre 2024

la terribile domanda di 28 SETTIMANE DOPO

In questi giorni, è ritornato in auge il raffinato franchising nato con 28 giorni dopo (2002), perché l’imminente e attesissimo terzo film è stato girato esclusivamente con una serie di iPhone 15 Pro Max adattati per l'occasione.

Ne approfitto allora per raccontarvi una scena del sequel, perché pone un interrogativo potente.

28 settimane dopo (2007) inizia con tre famiglie rinchiuse in un cottage tipicamente inglese, con le finestre sbarrate e oscurate, e la paura asfissiante di fare una brutta fine. Là fuori, infatti, c’è la rabbia: basta un minimo rumore per attirare le persone infette, violentissime, affamate, feroci e crudeli.

Il tempo di accogliere un bimbo fuggito da chissà dove, che uno dei mostri sfonda la porta d’ingresso, portando con sé altri mostri. Subito le famiglie si sparpagliano in disordine, annientate dal panico, ma senza speranza: ognuno viene sopraffatto con una rapidità - e un’estetica filmica - che lascia lo spettatore senza fiato.

Resistono solo una coppia e il bimbo. Il marito fugge nel fienile, passa in un bagno e finisce in una stanza da letto; la moglie e il trovatello, invece, sono riusciti ad arrivare in quella stessa stanza da letto, ma dall’entrata principale. Tra l’uomo e la donna si intromette un infetto, seguito da molti altri. L’uomo potrebbe provare a salvare almeno la donna, ma sicuramente morirebbe… e allora scappa, abbandonando l’amata moglie e il piccolo al loro destino: una scena terribile che fa veramente male, in cui Robert Carlyle dimostra eccellenti qualità recitative, rendendo palpabile la battaglia interiore tra la viltà dimostrata e lo spirito di sopravvivenza.

Per quanto sia una scena breve, utile per introdurre un elemento fondamentale per il prosieguo della trama, io l’ho vissuta e la vivo da una prospettiva realistica, ponendomi sempre la stessa domanda: io, cosa avrei fatto?

14 settembre 2024

intorno a FEAR THE WALKING DEAD

Nella mia rassegna stampa settimanale, alla fine della pandemia segnalai uno studio pubblicato su Science Direct secondo cui i super-appassionati di horror, ucronie e distopie, sarebbero stati psicologicamente avvantaggiati nell’affrontare momenti così difficili, abituati come sono a leggere/vedere fiction su apocalissi da virus o da guerre distruttive.

Ebbene, se non siete tra questi, e temete una pandemia da Mpox (erroneamente chiamato “vaiolo delle scimmie”) o da un virus scaturito dall’Artico (come ipotizzato da Nature), ecco una serie che vi preparerà più che bene.

Il 21 aprile 2024, in Italia è stato trasmesso l’ultimo episodio dell’ottava e ultima stagione di Fear the Walking Dead, spin-off (e quasi-prequel) di Walking Dead (la serie televisiva sugli zombi, debitrice alla lontana anche dell’eruzione del vulcano Tambora, come sanno i lettori della rassegna).

Se Walking dimostra quanto possa essere miserabile il comportamento di ognuno di noi di fronte a una catastrofe senza ritorno, Fear insegue le persone “normali” sperando che si trasformino in eroi senza macchia. Walking è fiction, Fear punta al realismo.

A differenza della serie madre, che regge fino a metà della settima stagione (su undici), Fear diventa sempre più friabile già dopo la terza: tra sceneggiature altalenanti e cliffangher improvvisati, non mantiene le premesse delle stagioni iniziali. Soprattutto la prima, merita una visione senza preconcetti e paure: pochissimo splatter (e ben dissimulato); tempi narrativi lunghi, lunghissimi, assimilabili al tempo reale; dialoghi ridotti al minimo; protagonisti credibili; scarti narrativi quasi assenti; musica rara e rada, montaggio fluido e direzione della fotografia senza protagonismi.

Per i primi quattro episodi, non si vede nulla: l’angoscia è allusa, di sottofondo, cresce lentamente dentro una realtà quotidiana che ancora non sa e non ha capito cosa stia accadendo; lo spettatore spera sempre che tutto vada per il meglio, perché partecipa con la parte irrazionale di sé. Non fa presa il lento manifestarsi dei morti che camminano, ma la sorte dei vivi che repentinamente stanno perdendo la quotidianità, soprattutto quella degli automatismi; che poi è la parte più importante della nostra vita, perché ci protegge e dà un senso alle cose.

Al contrario dei film sullo stessa tema, costretti per motivi di spazio a riassumere in neanche dieci minuti la caduta verso l’abisso, Fear ha tutto il tempo per avvolgerci con grazia, tirare poi con calma l’elastico della tensione, e quindi BAM!, presentarci il conto delle nostre emozioni. Nella sua apparente lentezza, episodio dopo episodio sentiremo crescere dentro di noi un’angoscia personale, intima e privata, che val al di là di quattro mostriciattoli affamati della nostra carne. Una prima stagione terapeutica, insomma, che vale la pena di vedere tutta d’un fiato