25 giugno 2025

FURORE di John Steinbeck (Bompiani)

Immaginate una sfera di acciaio, di quelle non per forza enormi, ma che incutono comunque rispetto, meraviglia, quasi timore. Forse è leggermente arrugginita, ma poco conta, perché sembra avere una dignità propria.

Immaginatela in movimento, tipo quei cosi che servono per buttar giù i palazzi: ondeggia senza sosta, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. 

Poi, ad un certo punto, senza preavviso alcuno, la sfera si sgancia e descrive una parabola quasi dritta, forse un rettilineo leggermente curvo… e si va a schiantare contro una nave di legno, appoggiata lì, da qualche parte... per poi rotolare giù, a fondo valle.

La nave, fragile già di suo, si è sbriciolata in mille pezzi. È impossibile ricostruirla; anzi, è addirittura impossibile capire che forma potesse avere. Sono rimasti mucchi di legno, sparpagliati alla rinfusa, un po’ di schegge, molta segatura, qualche pezzo sopravvissuto chissà come.

Questo è “Furore” di John Steinbeckuscito nel 1939, anche sa da noi la traduzione integrale è arrivata solo nel 2013 (quelle precedenti, infatti, erano mortificate dalle censure del Ventennio Fascista).

Tre generazioni, un camion, la fuga dalla Depressione, il viaggio verso le illusioni della California, un mito che poi si scioglie al sole dell’amara realtà, un finale che non dà spazio né alla speranza né alla delusione.

Una trama devastante, imponente, credibile, senza fronzoli, senza finzioni. Uno stile asciutto ma non arido, empatico ma senza pietismi, partecipato ma senza parteggiare. Una traduzione fedele, precisa, attenta e capace di rispettare totalmente l’anima di Steinbeck. 

Se vi manca questo classico, mollate tutto e andate ad acquistarlo.

Subito!

08 maggio 2025

il sacrificio secondo QUIET PLACE

 

A Quiet Place è un franchising solo cinematografico che resiste alle insidie dell’ovvio, con tre film di qualità intorno all’invasione di alieni brutti e feroci e invincibili (sono allergici solo all’acqua), capaci di percepire ogni possibile suono/rumore e di fare a pezzi chi lo fa: il primo (il più bello) ha una tensione e un tessuto narrativo molto potenti, con recitazioni e regia di livello; il secondo è un sequel più d’avventura, che per fortuna non ricalca gli schemi del primo.

Il terzo è un prequel, lo dichiara anche il titolo: Quiet Place - Giorno Uno (anche in inglese). I protagonisti sono solo due: una lei, malata terminale di cancro, interpretata da un’ottima attrice che sa alternare film profondi con altri di evasione; un lui, educatissimo studente di legge, interpretato dal ragazzo che veste le panni dell’outsider in Stranger Things (lo ricordate perché si riscatta morendo per la causa).

Subito dopo che gli alieni cattivissimi hanno spappolato Manhattan e sbudellato migliaia di umani (dalle urla che fanno, non dev’essere una morte piacevole), i due ormai fuggitivi si incontrano per caso, complice un dolcissimo gatto randagio.

Con poche e azzeccate pennellate di sceneggiatura, tra i due nasce una casta amicizia, forse romantica, forse occasionale, che commuove e rende partecipe il pubblico, anche le mogli che avete forzato a vedere il film.

Dopo una serie di peripezie, i due intravedono i barconi che stanno portando in salvo gli umani superstiti. Ma la distanza fino al porto è minata dalla presenza degli alieni. E qui accade qualcosa che spariglia le carte: lei si sposta lontano da lui, e per farsi notare percuote alcune automobili facendo scattare gli allarmi. Gli alieni si buttano a capofitto verso la fonte di quei suoni, lasciando libero il passo verso la salvezza. Lui è titubante perché ha capito che lei morirà sicuramente; poi, per non rendere vano quel sacrificio, corre come un forsennato e si butta in acqua, nuotando disperatamente verso le barche dei marines… col gatto in braccio, tranquilli.

Perché lei si è sacrificata? Il cancro le ha lasciato pochi mesi di vita, lo sappiamo: visto che comunque sarebbe morta, ha preferito farsi sbudellare per salvare una persona, un perfetto sconosciuto. In condizioni analoghe, lo avrei fatto? Lo avreste fatto?

29 aprile 2025

dopo ADOLESCENCE

Desgarremos la vida / que pasa palpitando

y levantemos juntos / nuestro vuelo salvaje

Questi straordinari versi di Pablo Neruda descrivono esattamente cosa penso della gioventù; in assoluto, intendo, senza ragionare su alcun contesto. E per quanto sia una visione romantica e impossibile, mi piacerebbe sia considerata ancora condivisibile da chi giovane è stato e da chi giovane sarà.
L’essere giovani dura un attimo. È la tappa più breve della vita, perché va vissuta (viene vissuta) con slancio e incoscienza e voglia di divorare tutto, a volte senza gustarlo. Essere giovani è abbagliare il mondo, quasi bruciarlo, ma anche apprezzarlo meglio dei “grandi”, proteggerlo, difenderlo, farne parte sin dentro la profondità della sua carne.
Io ho sempre davanti agli occhi quel bellissimo correre sulla spiaggia di Antoine Doinel, con lo sguardo spaventato, stupefatto, incredulo, curioso, forse anche felice: c’è l’essenza delle battaglie interiori di un giovane, quelle che non riescono a spiegare e a comunicare neanche a loro stessi.
Dagli anni ‘50, le generazioni dei padri giudicano quelle dei figli perseguendo due preconcetti limitanti e opposti: il primo è essere indulgenti qualsiasi impreparazione dimostrino; il secondo è schiacciarli dentro questa impreparazione.
Ora, io non vorrei scomodare geni assoluti come Mozart e Bach, che, giovanissimi, avevano già composto opere assolute; però è dimostrato e dimostrabile che tra i 20 e i 30 anni si è al massimo delle capacità cognitive e creative. Il modello scolastico e quello sociale dovrebbero aiutare la famiglia a enfatizzare questa irruenza, anche accompagnando poi i giovani dentro il rigore e gli obblighi del crescere, del maturare, del sapersi comportare nel vivere sociale (senza privarsi dell’io, per carità).
Ho appena finito di vedere Adolescence (2025), e ancora non riesco a trovare in me le domande che vorrei fare.

17 aprile 2025

LA ZONA D'INTERESSE, una recensione

Credo sia difficile saper raccontare un incubo: tante e tali sono le sue parti non visibili, che invece sono le più potenti, le più crudeli, quelle che ti svegliano con il sudore dell'anima appiccicato addosso e un corpo invece freddo ed esausto, con le tempie che sembrano scoppiare.
Certi incubi, se li racconti con le semplici parole, sembrano così surreali da non suscitare nulla nel tuo interlocutore, se non un'incredulità di facciata, quasi cortese. Anzi: se provi a dire che sono realmente accaduti, vieni guardato con occhio triglioso, scettico, compassionevole.
Ecco, La zona d'interesse (2023) è il dietro le quinte di un incubo di questo tipo, perché racconta la microquotidianità di una famiglia di nazisti, quella di Rudolf Höss, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz. La Shoah non la vedi, sembra uno sfondo scenografico cui potresti abituarti. 
Con il lento incedere della proiezione, il fiato si spegne sempre più, perché vorresti dire ai protagonisti di guardarsi intorno, di misurare quello scempio, di non portare anche i figli dentro la grotta del male.
È un film che forse ha nel suo punto di partenza la sua piccola e unica debolezza, perché dà per scontato che lo spettatore conosca quell'abominio, quella storia; mentre, invece, gli eventi di questo ultimo lustro ci stanno dicendo che ricordare la Shoah è una prova di forza contro l'indolenza degli anni che passano, che trasformano tutto in poche righe di riassunto sui sussidiari dei liceali, sempre che qualcuno abbia voglia di insegnare o di leggere queste righe.  
Bastava una leggera premessa, un avviso, un qualcosa che avviasse lo spettatore dentro al contesto. Altrimenti il cinismo dei personaggi diventa inverosimile (proprio perché sembra un incubo) e la realtà realmente accaduta appare quasi cinematografica (proprio perché incredibile). 
Comunque, ne imporrei la visione a tutte le scolaresche, magari con una legge comunitaria, perché è un film che fa più male di quanto si creda, che sa raggiungere anche le menti duttili o vacue o egocentriche, come sono (e devono essere) quelle dei giovani.
Superba la scelta musicale e dei suoni (un vero e proprio attore fuori campo), entrambi di rara pertinenza. 
Ottima la direzione fotografica. A latere: le scene all'aperto sono state girate con più telecamere contemporaneamente, opportunamente nascoste nella scenografia, per consentire agli attori di costruire genuinamente i propri sentimenti, senza dover pensare al freddo recitare.
Spaventoso il finale, tra i più potenti mai dedicati alla banalità del Male.

09 aprile 2025

SUL VIDEO FAKE DI ALESSANDRO BARBERO / LUCA BOTTURA

Qualche giorno fa, il fine umorista Luca Bottura (non sono ironico) ha postato su Twitter/X un fake video di quattro minuti in cui lo storico Alessandro Barbero professa dichiarazioni verosimili, ma totalmente inventate. Solo alla fine dei quattro minuti viene chiarito l’inganno. Uno scherzo, insomma. Satira, insomma.

A questo, ha risposto sulla stessa piattaforma il direttore de Le Scienze, Marco Cattaneo, chiedendo prudenza: bastava avvisare in apertura di video e non in chiusura, oppure mantenere costante un avviso in sovrimpressione semitrasparente, visto che nessuno ha la pazienza di sorbirsi quattro minuti di video e quindi sapere che è un fake.

Dopo un cortese botta-e-risposta, Bottura ha scritto un pippone generico in cui si rifugia dietro tutti i suoi piùcchesacrosanti diritti, dimenticando però che esistono anche dei doveri, gli stessi che lui pretende dagli altri, quando agita il ditino da professorino casto e puro.

Appunto acido: direttamente, i due si sono trattati con le molle (sono colleghi e soprattutto ex vicini di stanza); quando, però, si sono rivolti al popolo, hanno usato ben altri toni.

Torniamo a noi. C’è un elemento che i due hanno dimenticato: quel video resta e resterà. Non basta allisciare i propri follower scrivendo che il “pubblico intelligente” capisce o ha capito l’operazione di Bottura o la replica di Cattaneo (a seconda delle fazioni); innanzitutto, perché anche il più intelligente a volte scrolla pigramente senza approfondire; ma, soprattutto, perché il video resterà online in quell’“eterno mentre” che è internet

In futuro, chi si imbatterà in quel video composto in quel modo, che sia tra un mese o tra trent’anni, non avrà gli strumenti, o il tempo, o la voglia, per capire che era un fake. Ma è così difficile da capire?

Quando entriamo in rete, dobbiamo sempre ricordarci che non esiste un prima o un dopo quello che poi faremo, ma solo quello che facciamo, avulso, indipendente, eterno, senza contorni o chiarimenti o approfondimenti o spiegazioni o contesti. Quella cosa fatta verrà compresa così com’è e rappresenterà quello che sembrerà in quel momento; una rappresentazione che il giorno dopo potrà essere opposta.

Aggiungo due corollari un po’ provincialotti: il primo, la calunnia è un venticello e quel video “sembra” qualcosa che non è, ma che basta a generare anche pettegolezzi e dicerie. Il secondo corollario, sono i commenti sotto i tre tweet coinvolti: la quantità di affermazioni benealtriste o lassiste o menefreghiste, fa paura. E, paradossalmente, dimostra l’assunto di partenza: questo modo di usare la tecnologia fa solo e solamente male

04 aprile 2025

THE LAST OF US dentro un autobus

Pochi giorni fa, ho assistito in prima persona a un’aggressione in un autobus, e sono rimasto colpito dalla mia reazione: ero concentrato solo sull’incolumità di mia moglie; tutto il resto non mi interessava. 

Un tempo sarei intervenuto comunque, nonostante non avessi un fisico adatto né l’indole del picchiatore navigato. Da anni, però, i miei tempi vissuti - e il tempo che stiamo vivendo - mi hanno cinicamente imposto di calibrare l’istinto, per spendermi solo per le persone cui tengo.

Incidentalmente, due giorni dopo ho finito di vedere la prima stagione di The Last of Us (2023 - la seconda esce il prossimo 14 aprile). Ne avevo già parlato brevemente appena uscita, ma ancora non l’avevo gustata integralmente (e in lingua originale).

L’Umanità è stata decimata da un fungo che rende gli infetti dei quasi-zombi infestanti. La serie è ambientata qualche decennio dopo l’inizio della fine. Parte dei sopravvissuti si arrangia, subendo le angherie di una quasi-dittatura, in cambio di cibo e protezione; un’altra parte ha creato una sorta di Resistenza; poi, come prevedibile, c’è una quantità notevole di cani sciolti, sparsi e disorganizzati, ma non per questo meno pericolosi.

Il protagonista è un maschione adulto, fatto di muscoli e dubbi, con un senso dell’umana umanità tutto suo, ma credibile anche al di fuori della fiction: pochi tratti, ma ben scritti e ben interpretati. La protagonista, invece, è una ragazza piena di vita e di humor, e sembra essere immune al virus: la sua figura è credibile, anche se a volte l’attrice calca un po’ troppo l’interpretazione.

La Resistenza incarica lui di portarla verso un laboratorio supersegreto dove studieranno quanto/come/perché sia immune, così che possa tornare utile per l’Umanità rimasta.

Un viaggio pieno di insidie, le cui trame si dipanano rispettando tutti e quattro i topos narrativi: assedio, viaggio, sacrificio, ricerca. Una sorta di anabasi in cui i due imparano a conoscersi: prima nemici, poi scettici, quindi amici, infine inseparabili. Arrivati a destinazione, lei rischia di venire letteralmente vivisezionata; pur di salvarla, lui massacra l’intero avamposto della Resistenza e la porta via con sé.

La domandona che girava due anni fa, quando uscì la serie, era: in situazioni come queste, salviamo il mondo intero (sacrificando la piccola) o ce ne freghiamo e salviamo la piccola cui siamo ormai affezionati?

Certo, l’episodio del bus c’entra come i cavoli a merenda; però è indicativo di un modo di pensare che non credevo avrei mai raggiunto: prima proteggo la mia famiglia, poi forse il mondo tutto. È da egoisti? Sicuramente. Però, allo stato attuale, non riuscirei a proteggere un intero autobus, sapendo già che rischierei l’incolumità di mia moglie

12 marzo 2025

il personaggio vile in SALVATE IL SOLDATO RYAN di Steven Spielberg

Quando guardo una serie o un film, mi chiedo sempre che fine faranno alcuni personaggi secondari, come potrebbe svilupparsi la loro vita, al di fuori della trama. Può capitare, però, che non riesca a esaudire questa curiosità, forse perché il personaggio è troppo abbozzato, o forse perché ho paura della mia immaginazione.

Mi è capitato con Salvate il Soldato Ryan: lo vidi al cinema fresco di uscita (era il 1998), circondato da persone molto anziane; avevano vissuto la guerra, o come spettatrici (perché giovanissime) o come protagoniste (come il compagno di mia madre, che finì prigioniero dei tedeschi subito dopo l’8 settembre). Una condizione emotiva ottimale, direi.

Tra i protagonisti secondari, spicca Timothy Upham (interpretato magistralmente da Jeremy Davies): è lo scribacchino coartato dalle retrovie perché sa parlare tedesco e francese, lingue utilissime per la rischiosa missione di salvataggio.

Si capisce che è totalmente fuori contesto: timido, impacciato, spaventato dalle armi, incapace di relazionarsi con i compagni, fedele alle asettiche regole d’accademia.

Durante la scena che precede l’incontro con Ryan, il plotone si imbatte in una postazione tedesca: riesce ad annientarla, ma al prezzo della vita del medico (interpretato altrettanto magistralmente da Giovanni Ribisi).

Il plotone riesce a catturare l’unico superstite dei tedeschi. Asfissiati dal dolore per il compagno ucciso, i nostri eroi vogliono fucilarlo sul posto, senza tanti problemi. Il timido scribacchino cerca di far rispettare le regole: un prigioniero non va ucciso impunemente. Lo dice il regolamento. Lo suggerisce la morale. Lo impone l’etica.

Dopo un parapiglia tra commilitoni, perfettamente disegnato da Spielberg, l’uomo viene lasciato libero, a patto d’onore che si consegni agli americani delle retrovie (cosa che non farà, come immaginabile e come vedremo nell’epilogo).

Dopodiché, passate alcune scene, arriviamo alla battaglia finale, tra le più cinematograficamente intense che abbia mai visto in vita mia, addirittura migliore di quella dello Sbarco in Normandia che ha aperto egregiamente il film.

Potrei riassumere brutalmente che muoiono quasi tutti i buoni. Uno di loro, guarda caso, viene ucciso proprio da quel tedesco - e nella maniera più feroce e raccapricciante (con un coltello): il nostro scribacchino potrebbe salvarlo, ma non riesce neanche a salire una rampa di scale, restando letteralmente pietrificato dalla paura.

Dopodiché, arrivano i nostri: i nemici battono in ritirata, alla rinfusa e senza meta. Lo scribacchino ne ferma un manipolo e uccide arbitrariamente solo quel tedesco, con rabbia e arbitrio, proprio come non voleva venisse fatto dai suoi commilitoni.

Due domande: contro chi ha veramente sparato per il suo subconscio? Di conseguenza: che uomo diventerà questo scribacchino?

Sono anni che mi pongo questa domanda e sono anni che mi rispondo sempre allo stesso modo: non diventerà una bella persona, ma ancora ho paura di definirla bene