Certi incubi, se li racconti con le semplici parole, sembrano così surreali da non suscitare nulla nel tuo interlocutore, se non un'incredulità di facciata, quasi cortese. Anzi: se provi a dire che sono realmente accaduti, vieni guardato con occhio triglioso, scettico, compassionevole.
Ecco, La zona d'interesse (2023) è il dietro le quinte di un incubo di questo tipo, perché racconta la microquotidianità di una famiglia di nazisti, quella di Rudolf Höss, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz. La Shoah non la vedi, sembra uno sfondo scenografico cui potresti abituarti.
Con il lento incedere della proiezione, il fiato si spegne sempre più, perché vorresti dire ai protagonisti di guardarsi intorno, di misurare quello scempio, di non portare anche i figli dentro la grotta del male.
È un film che forse ha nel suo punto di partenza la sua piccola e unica debolezza, perché dà per scontato che lo spettatore conosca quell'abominio, quella storia; mentre, invece, gli eventi di questo ultimo lustro ci stanno dicendo che ricordare la Shoah è una prova di forza contro l'indolenza degli anni che passano, che trasformano tutto in poche righe di riassunto sui sussidiari dei liceali, sempre che qualcuno abbia voglia di insegnare o di leggere queste righe.
Bastava una leggera premessa, un avviso, un qualcosa che avviasse lo spettatore dentro al contesto. Altrimenti il cinismo dei personaggi diventa inverosimile (proprio perché sembra un incubo) e la realtà realmente accaduta appare quasi cinematografica (proprio perché incredibile).
Comunque, ne imporrei la visione a tutte le scolaresche, magari con una legge comunitaria, perché è un film che fa più male di quanto si creda, che sa raggiungere anche le menti duttili o vacue o egocentriche, come sono (e devono essere) quelle dei giovani.
Superba la scelta musicale e dei suoni (un vero e proprio attore fuori campo), entrambi di rara pertinenza.
Ottima la direzione fotografica. A latere: le scene all'aperto sono state girate con più telecamere contemporaneamente, opportunamente nascoste nella scenografia, per consentire agli attori di costruire genuinamente i propri sentimenti, senza dover pensare al freddo recitare.
Spaventoso il finale, tra i più potenti mai dedicati alla banalità del Male.
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