C'è aria di capolavoro: Letters from Iwo Jima è un respiro continuo di sensazioni veramente uniche. Clint Eastwood ha segnato l'ennesimo colpo, tenendo in mano - quasi da solo - le sorti del cinema popolare e profondo nello stesso tempo.
I fatti son noti, ed è inutile aggiungermi alle mille scribbacchiate della rete. Ma se dovessi proprio indicarvi qualcosa di diverso, è nella fotografia che punterei tutte le mie carte.
L'equivoco di fondo è che nel cinema si crede la fotografia come un qualcosa di leggermente diverso dal mero scatto fotografico casalingo. Fuori dal cinema, la gente ne parla solo seguendo questo equivoco.
Il direttore della fotografia, in realtà, è il padrone delle cineprese, della luce, dei dettami del regista. Il cinema è arte collegiale, e mai come nel direttore della fotografia si ripone la speranza della buona riuscita di un film. L'altra grande figura è il montatore.
Dicevo: la fotografia. Seguite le prime inquadrature. Segnatevi su un taccuino quello che vedete. Poi andate a casa e ripassate la lezione. Sarete a buon punto.
La storia, invece, in parte è vera, in arte è forzatamente romanzata. Ma forse per la prima volta, i terribili musi gialli ci vengono restituiti con tutta la loro umanità. Non quella filtrata dalle presuntuose lenti dell'uomo bianco, cristiano e occidentale, ma con quelle proprie della cultura nipponica.
Per carità: è uno spiraglio, una fessuretta piccola piccola. Ma speriamo che in futuro ci si renda conto di quanto sia essenziale un approccio simile.
Ecco: quello di Clint Eastwood è un modo di far crescere la nostra società, ma senza presopopea, senza didascalie e senza politicizzazioni inutili.
Fare un film dalla parte di è cosa ardua, e un giorno magari ci ritornerò (visto che era il nodo della mia tesi). Quello che mi preme dire adesso è che questa volta abbiamo di fronte una pietra angolare.
Basta seguirla.
tag: Cinema, Clint Eastwood, Letters from Iwo Jima
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